![]() Marco Focchi Presentazione della tavola rotonda tenutasi l'8 marzo 2019 a Milano presso l'Istituto freudiano Nella nostra rassegna di quest’anno sulla “Soggettività dell’epoca” siamo partiti dal quadro generale: la soggettività nella politica, e abbiamo proseguito con la soggettività nell’estetica, giacché i legami della creazione artistica con il potere sono sempre stati fondamentali, sia che si sviluppassero come sostegno, sia che prendessero la via della critica. Abbiamo Virgilio che si fa interprete della fondazione del Principato augusteo, Ingres che dipinge Napoleone in vesti sacrali-imperiali, e abbiamo i poeti satirici latini fustigatori dei costumi, o Pasolini che esprime una delle voci artistiche che hanno portato in modo radicale la critica al potere. Oggi abbiamo a tema la comunicazione. Parlare di comunicazione presuppone la comunità, ovvero un insieme di relazioni all’interno del quale possano esserci scambi. Si comunica per molte ragioni: per cedersi delle merci, per avere cooperazione nel lavoro, per realizzare imprese, per condividere sentimenti o semplicemente per chiacchierare.
L’idea comune che si ha del linguaggio è che sia uno strumento di comunicazione, che serva a trasmettere dei significati, a passarsi reciprocamente dei messaggi. Nella psicoanalisi, o almeno nella lettura che ne dà Lacan, il linguaggio non ha tuttavia la funzione prioritaria di comunicare, di farsi veicolo di senso perché, come sappiamo, nel segno saussuriano Lacan rovescia l’ordine di priorità del rapporto tra significante e significato, ed è il significante nella sua letteralità a prendere posizione preminente, in una letteralità prosciugata di metafora, che si riduce, nei seminari degli anni ’70, a pura scrittura, a scrittura sul corpo, a scrittura come vettore di godimento che segna la geografia erotica del corpo. La peculiarità dell’esperienza psicoanalitica è di portarci a leggere questa scrittura sottotraccia, che si trasmette al di là dell’intenzione comunicativa del soggetto, che veicola qualcosa al di là del messaggio conscio, consapevole, che il soggetto ha in mente, per andare a toccare corde più nascoste. Naturalmente, considerando la comunicazione nel suo raggio più ampio, questa dimensione sotterranea è sempre stata intuitivamente presente ai capi politici, o militari, ai conduttori di folle. Il primo a studiare sistematicamente questi problemi è stato Gustave Le Bon. Proprio perché è andato a esplorare gli aspetti inconsci della comunicazione Le Bon ha sollecitato l’attenzione di Freud, che prendendo da lui ispirazione ha scritto uno dei suoi testi maggiori: Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Il libro di Le Bon ha poi destato l’attenzione di quello che è considerato come l’inventore della moderna ingegneria della comunicazione, Edward Bernays. La carriera di Bernays mosse i suoi primi passi al servizio del governo americano. L’America, durante la prima guerra mondiale, doveva entrare nel conflitto per proteggere i propri scambi commerciali minacciati dai sommergibili tedeschi, ma l’opinione pubblica era decisamente schierata contro. Il presidente Wilson creò allora un “Comitato per la pubblica informazione”, coordinato da un ex giornalista, George Creel, al quale partecipò un nutrito staff di intellettuali, pubblicitari e consulenti. Fra questi c’era Bernays. Con lo slogan “Rendere il mondo sicuro per salvare la democrazia” il Comitato mobilitò tutti i mezzi allora a disposizione: slogan, film, poster, caricature, comizi radio, telegrafo per mostrare le torture, le violenze e le uccisioni inflitte dagli Imperi Centrali e suscitare una reazione di riscatto al fine di salvaguardare il mondo libero. Con tutto il potenziamento venuto dalle possibilità della tecnica, – non possiamo non pensare a Snowden, al caso di Cambridge Analytica – la comunicazione, nelle nostre democrazie di massa, è rimasta questo: un modo di canalizzare sentimenti viscerali verso slogan stereotipi molto semplici – per esempio: “Buttiamo a mare gli immigrati” – per generare consenso. Le tecniche di governo delle grandi democrazie di massa implicano una sofisticata ingegneria comunicativa dove i moderni spin doctor sono gli eredi di Bernays. Questo porta la riflessione politica contemporanea a ripensare i contenuti della democrazia nel nostro secolo, in un momento in cui rischia di mantenere i suoi aspetti formali, elezioni, organi rappresentativi, ma svuotati di valori autenticamente partecipativi. Che contributo può dare in questa direzione la psicoanalisi? È il tema del nostro dibattito attuale: sviluppare una politica e una democrazia che includa il concetto dell’inconscio, il che significa, tra altre cose, una politica meno incentrata sul paradigma della difesa e meno immunitaria.
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