Discorso tenuto in occasione della presentazione del libro curato da Giuseppe Pozzi "Dall'impasse all'espansione", il 19 marzo 2013 a Milano, presso la sede della Società Umanitaria di Marco Focchi Cercherò di inquadrare il posto che la psicoanalisi può avere in quella che è stata descritta come la clinica del sociale. Questo vuol dire individuare le possibilità di un’invenzione, che il termine di clinica del sociale esprime perfettamente, perché la clinica del sociale è a tutti gli effetti di un’invenzione. Che ci sia una clinica del sociale, cioè una psicoanalisi presente nell’istituzione, con un ruolo formativo e operativo al suo interno, è qualcosa che non è dato in partenza, che non è affatto scontato, e che richiede uno sforzo creativo continuo. Stiamo adesso mettendo alla prova questa esperienza con quel che stiamo facendo, ma non va affatto da sé. È una possibilità nata dalle prospettive create in questi anni a partire dai nostri dibattiti, dalla nostra riflessione, dalle iniziative prodotte all’interno del Campo freudiano. È un progetto che ha richiesto un importante lavoro di riflessione, e un grosso lavoro operativo, perché nella dimensione istituzionale e in quella analitica, di per sé non c’è nulla che predestini l’una all’altra. L’istituzione è per definizione sociale, è automaticamente inserita nell’ingranaggio sociale, ha compiti e funzioni oggettivi: un’istituzione per funzionare deve produrre qualcosa. L’istituzione scolastica, per esempio, deve produrre formazione e sapere, l’istituzione sanitaria deve produrre salute, una fabbrica – anche quella è un’istituzione – se è la Fiat, deve produrre automobili. Si tratta di produrre cose concrete, tangibili, oggettive. La psicoanalisi si occupa di una sfera completamente diversa, quella soggettiva, collegata, se vogliamo dire così, a una produzione di desiderio. Se non consideriamo la psicoanalisi in una prospettiva di adattamento, e non è la prospettiva che noi prendiamo, possiamo in fondo vedere una sorta di attrito tra la dimensione analitica e quella istituzionale.
La nostra scommessa è stata allora dire: psicoanalisi e istituzione non sono predestinate a congiungersi, ma al tempo stesso nulla vieta che possano lavorare insieme, e ritengo che questa possibilità nasca proprio specificamente all’interno della psicoanalisi di orientamento lacaniano. In primo luogo la psicoanalisi di orientamento lacaniano non si dà l’obiettivo dell’adattamento. In secondo luogo, nell’orientamento lacaniano, la psicoanalisi definisce la propria specificità in modo diverso da quello che fa appello a termini di riferimento esterni a cui si è sempre richiamata la psicoanalisi tradizionale: setting, numero di sedute, disposizione poltrona-lettino. Sono criteri non intrinseci al discorso freudiano, determinati nel dibattito successivo, nel dibattito degli anni cinquanta, quando la psicoanalisi aveva bisogno di definire una propria identità differenziandosi da altre pratiche terapeutiche che stavano nascendo, e che utilizzavano i concetti chiave della psicoanalisi. La nostra riflessione in questi anni ci ha portato a considerare la psicoanalisi più in base ai principi che non in base a definizioni esterne. Questo ci permette di rendere compatibili la presenza, all’interno dell’istituzione, di una figura analitica che lavora in base ai principi psicoanalitici, e le consegne istituzionali che deve assolvere. Perché prima era difficile? Ci sono sempre stati, nelle istituzioni, psichiatri che avevano una formazione analitica, che avevano però difficoltà a sviluppare un’attività fondata su concetti analitici, perché le definizioni della psicoanalisi da cui partivano erano esteriori: il bisogno di uno studio isolato da tutto quel che è l’interferenza dell’istituzione intorno, il bisogno di un setting, una certa astrazione rispetto al contesto circostante. Si tratta di quelle che prima definivo come condizioni esterne. Se la definizione dell’operatività analitica avviene attraverso la definizione di un setting, di regole formali, è chiaro che diventa difficile da contemperare con il rumore di fondo che l’istituzione produce. Per noi la questione è diversa e lo è stata sin dall’inizio, perché per noi il setting è meno importante di quelli che sono i principi operativi. I principi operativi sono quelli che definiscono una posizione soggettiva, la differenza tra la domanda – quel che anche l’istituzione può chiedere – e il desiderio, e sopratutto l’attenzione a non confondere il piano di realtà in cui certe esigenze si pongono e la complessità di fondo in cui questa realtà viene intessuta dalla dimensione del linguaggio. È chiaro che quando un analista va in istituzione è messo a confronto con delle esigenze pratiche. Se vado nella scuola devo rispondere a quel che la scuola mi chiede. Parlo della scuola perché è stata la mia esperienza principale fuori dallo studio. Per venti anni ho fatto una consulenza all’interno di una scuola, e so bene come nella scuola ci siano esigenze pragmatiche a cui bisogna rispondere, e a volte piuttosto rapidamente. Se un bambino si blocca nell’apprendimento, bisogna sbloccarlo. Se ci sono dei conflitti all’interno di una classe o all’interno di rapporti tra genitori e insegnanti, bisogna superarli, e qualsiasi questione si ponga all’interno della scuola, non può essere lasciata in attesa per anni, va affrontata e risolta. La nostra posizione è quindi di stare alle esigenze delle istituzioni, di rispondere alle domande dell’istituzione. Rispondere partendo dai concetti analitici è però diverso che semplicemente agire considerando solo il piano della realtà immediata che abbiamo di fronte. C’è una complessità in cui la realtà è immersa. Se consideriamo meramente il piano della realtà ci appare solo la dimensione lineare del problem-solving. Abbiamo un problema, vogliamo la soluzione. In questa prospettiva i soli problemi che si possono risolvere sono quelli che hanno già nei dati di partenza la soluzione. Sono come i problemi che imparavamo alle elementari. Una donna va al fruttivendolo e compra sette mele, il fruttivendolo ne aveva dieci, quante gliene restano? Se ci limitiamo al mero piano della realtà – che ha sempre dei cortocircuiti quando in questa realtà è implicato un soggetto umano, cioè un soggetto immerso nel linguaggio, che implica una dimensione del simbolico e una complessificazione rispetto al carattere lineare della realtà – se trascuriamo l’aspetto simbolico, cadiamo in contraddizioni insolubili, perché ogni soluzione porta a un nuovo problema, e così via all’infinito. Direi quindi che il nostro vantaggio rispetto alla prospettiva lineare problema-soluzione è di vedere il reticolo di questioni che il simbolico intesse negli apparentemente semplici problemi della realtà, e di poterne tenere conto. Possiamo per esempio considerare il fatto che la domanda non si esaurisce necessariamente nelle implicazioni della situazione. Ci viene domandata una cosa, ma l’esperienza analitica ci insegna che quello che ci viene chiesto è differente da quello che è effettivamente desiderato. Se mettiamo questa tara possiamo allargare l’orizzonte rispetto alla semplicità, l’apparente semplicità della soluzione immediata. Questo vuol dire far entrare i concetti analitici nel circuito della realtà dove ci viene chiesto di risolvere dei problemi, ma dove la soluzione non necessariamente elide i problemi. La soluzione nell’ottica problem-solving, è come la soluzione dell’equazione, è quella che elimina il problema. Arriviamo alla soluzione, quando abbiamo la soluzione abbiamo il problema non sussiste più. Il modo in cui noi mettiamo in gioco un problema non è invece quello di eliminarlo, ma quello di esplorarne le dimensioni, di attraversarne le trasformazioni. Questo è l’aspetto interessante, che non si tratta di una modalità soppressiva del problema, ma di consentire la produzione delle potenzialità del problema. In questo modo, nelle incidenze e nelle esigenze della realtà entra in gioco la soggettività. Nel libro di cui parliamo questa sera mi sembra ci siano esempi significativi di questo modo di procedere. Partendo soltanto dal libro: “Dall’impasse all’espansione”. L’impasse la incontriamo se partiamo da una definizione della psicoanalisi basata su descrizioni formali esterne. Se partiamo invece dai principi fondativi della psicoanalisi, ci troviamo allora in una sorta di espansione, quella che mi sembra mostrasse Pozzi a partire dalla sua esperienza. Gli esempi che troviamo in questo libro sono estremamente significativi. C’è una bella intervista, per esempio, ad Antonio di Ciaccia sulla sua esperienza all’Antenna 110, che Pozzi ricordava come un modo di introdurre la psicoanalisi in contesto istituzionale rispondendo alle esigenze di servizio, e mettendo in gioco al tempo stesso qualcosa di supplementare, l’implicazione della soggettività, l’implicazione del desiderio, l’implicazione delle reti simboliche in cui i soggetti sono coinvolti. Di Ciaccia racconta in questa intervista come è nata la sua esperienza. Gli è stato chiesto di dirigere una comunità per bambini autistici con le modalità dell’epoca, negli anni settanta quando ha iniziato. Le modalità consistevano nel mettere un analista in una stanza, detta della terapia, con il bambino autistico. Quando ti ritrovi in una stanza con un bambino autistico è difficile stabilire un contatto. Nella scuola dove ho fatto consulenza abbiamo avuto alcuni bambini autistici, e ci voleva del bello e del buono perché gli insegnanti si abituassero a creare un contatto. Un bambino autistico sfugge sostanzialmente a qualsiasi contatto. Di Ciaccia spiega come si trova nella stanza della terapia, e la terapia ai tempi era concepita con le modalità classiche della psicoanalisi: associazione libera, far parlare l’altro. Con un bambino autistico però non è facile far parlare l’altro. Subito allora si rende conto di qual’è la differenza: non è presente l’Altro della domanda dice, o meglio è presente, ma in modo allucinatorio. Il bambino allucina un Altro da cui sostanzialmente deve difendersi, per cui l’esistenza fisica, concreta di un altro a cui potrebbe rivolgersi viene cancellata. Qui comincia allora a inventare modalità che sono diversissime da quelle della pratica analitica classica, dove si va in una stanza, si parla con una persona, si fanno delle associazioni, l’Altro della domanda è costituito, per cui si può interpretare la dimensione inconscia, e così via con tutto quello che è il repertorio noto della psicoanalisi classica. Di Ciaccia si rende conto che tutto questo non funziona, che occorrono modalità diverse, e inventa quella che poi è stata chiamata la pratica a plusieurs. È interessante a questo proposito la distinzione che fa tra pratica a plusieurs e la pratica in équipe, cioè la pratica a più figure su un bambino autistico. Qual’è questa differenza? Che nella pratica in équipe, il paziente a cui la pratica si rivolge è qualcuno che ha un Altro costituito, ha un Altro della domanda, può rivolgerglisi, e l’équipe è fatta di figure diverse tra loro, in una stratificazione differenziante: c’è l’educatore, c’è il terapeuta, c’è il medico, c’è il genitore. Ognuno ha un suo ruolo, ed è importante che questi ruoli restano distinti. Si innescano cortocircuiti pericolosi quando un genitore vuol fare il terapeuta, quando l’educatore vuol fare il genitore, e così via. E io ho avuto in questo senso un’esperienza diretta: una delle difficoltà che avevamo incontrato nella scuola quando seguivamo dei bambini autistici era, per esempio, un genitore che era medico e mi diceva: “Io sono il miglior medico di mio figlio”. Bisogna fare attenzione a diversificare, a collocare le varie funzioni. È importante fare il genitore, è importante fare il medico, ma è importante che questi ruoli non cortocircuitino tra loro. Nella pratica d’équipe, quando l’Altro della domanda è presente, le varie funzioni devono quindi essere stratificate e differenziate. Nella pratica a plusieurs, che è l’invenzione caratteristica dell’esperienza di cui parla Di Ciaccia la funzione dell’analisi non è affatto interpretare, non è fare quello che abitualmente lo psicoanalista fa nel suo studio. C’è invece la presenza di figure equivalenti tra loro, non stratificate né differenziate per ruoli, e tutte stanno intorno al bambino. È un’esperienza che si è trasmessa nella pratica che si svolge qui a Milano, la pratica delle comunità di cui ci hanno parlato Pozzi e gli altri relatori. È importante non soffocare il bambino con la presenza di qualcosa che per lui non è costituito, e che indotto in modo forzato verrebbe a bloccare ogni possibilità terapeutica. Per questo occorre un’invenzione perché esista un’articolazione tra psicoanalisi e l’istituzione. L’inserimento della psicoanalisi nell’istituzione – a qualsiasi livello sia: scolastico, sanitario, di comunità per autistici o per gli psicotici o adolescenti gravemente in difficoltà, le comunità insomma che abbiamo qui a Milano – effettivamente implica il fatto di partire dai principi orientativi della psicoanalisi, ma con modalità diverse da quelle tradizionali della pratica analitica. Quando, per esempio, mi trovavo a scuola con due bambini autistici, una era una bambina molto grave, la prima cosa che ho visto è stato l’uso strumentale dell’altro da parte del bambino autistico, che implica l’assoluta assenza di domanda. Se un bambino qualsiasi della classe vuole del cioccolato, viene da me o dalla maestra e mi dice: “Senti vorrei del cioccolato, quello che sta nell’armadio, prendimi per favore quella tavoletta di cioccolato”. Il bambino autistico fa una cosa completamente diversa. Prende il braccio e usa il mio braccio per raggiungere quest’oggetto, cioè salta completamente la dimensione della domanda, e di conseguenza salta tutta la dimensione del desiderio. L’altro non è costituito come Altro a cui rivolgere la domanda, è costituito come una propaggine, un prolungamento, uno strumento. È questo fenomeno che faceva parlare, agli psicoanalisti di orientamento classico, di onnipotenza, di senso di onnipotenza del bambino autistico. Io direi che non è tanto onnipotenza, è piuttosto strumentalità, necessità o impossibilità che usare l’altro se non come mezzo per raggiungere l’oggetto, senza passare per il circuito della domanda, senza passare per il circuito dell’Altro. La domanda è costituita quando è costituito il luogo dell’Altro. Se non c’è il luogo a cui rivolgere la domanda, la domanda stessa non è costituita. Questi sono elementi importanti, fondamentali di cui tener conto quando parliamo di psicoanalisi nelle istituzioni, mi riferisco cioè agli elementi simbolici presenti normalmente, di cui si sente invade chiaramente l’assenza nell’autismo. Occorre tenerne conto perché sono un supplemento alla realtà, alle immediate esigenze di servizio che è tuttavia importante rispettare. È fondamentale che quando entriamo come analisti in un contesto istituzionale si corrisponda alle richieste, alle esigenze di servizio, è importante che facciamo ciò che siamo lì per che fare, ma ci sono molti modi di rispondere a queste esigenze, e il modo che passa per il circuito più lungo, più complesso, il passaggio per il simbolico, per la formulazione, per l’articolazione della domanda, è quello che però ci permette al tempo stesso di non cadere nei cortocircuiti dell’erogazione diretta, che l’autismo evidenzia come una lente d’ingrandimento, ma che sono presenti anche in tutte gli altri piani istituzionali e che nella scuola ho potuto constatare e toccare direttamente con mano.
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