Conferenza tenuta l'11 gennaio 2014 a Tel Aviv, presso la sede della New Lacanian School di Marco Focchi “Il desiderio e la sua interpretazione” è un seminario collocato nel pieno della fase classica di Lacan, quella strutturalista. Lacan sente qui ancora il bisogno di dimostrare l’incidenza, l’importanza del linguaggio nell’esperienza psicoanalitica, ed è l’ultimo dei grandi seminari in cui persegue ancora il progetto di mettere la psicoanalisi in forma di scienza rigorosa. È l’ultimo non perché l’idea venga subito dopo accantonata, ma perché a partire dal seminario sull’etica, tenuto l’anno successivo, si avvia una riflessione che porta poi a interrogare più a fondo la possibilità di inscrivere la psicoanalisi nel discorso scientifico, e che culmina nel seminario XI. Dopo questo, direi, il tema trainante della riflessione di Lacan non è più la considerazione della psicoanalisi alla luce del discorso scientifico. Il significante del desiderio
Perché Lacan giunge a porsi il problema del desiderio e della sua interpretazione? Nel seminario dell’anno precedente, nella parte centrale, uno dei temi principali è stato l’articolazione tra domanda e desiderio, visto in particolare attraverso l’esempio clinico famoso della bella macellaia, e attraverso un’accurato esame della clinica della nevrosi ossessiva. Nell’analisi della struttura dell’isteria, nella quale Lacan fa in particolare apparire la dinamica intersoggettiva, il desiderio si evidenzia come desiderio dell’Altro e si determina come significante, il significante fallico incarnato nel sogno dalla fetta di salmone. Il desiderio si caratterizza a margine della domanda, come una condizione assoluta, come qualcosa che la domanda non riesce a prendere nella propria concatenazione, e che si pone sempre al di là, in un movimento di fuga metonimica. Nel seminario V vi è un significativo spostamento della nozione di fallo dal registro immaginario, dove si presenta come significante della metafora paterna, al registro simbolico, dove si presenta come sintomo di tutti gli effetti di significato e “Le formazioni dell’inconscio” resta su questa definizione, dove il desiderio si appoggia al significante fallico. È a partire dallo spostamento dal fallo come significato immaginario al fallo come significante nel simbolico che si può porre il problema di un’interpretazione del desiderio. Non potremmo interpretare un significato, che è piuttosto l’effetto dell’interpretazione. Solo nella misura in cui il desiderio si definisce come significante ci si può chiedere cosa significhi perché si possa interpretare. La pulsione Al tempo stesso nel seminario precedente comincia a prendere corpo la nozione di pulsione, che viene riformulata in rapporto al desiderio. Nei seminari V e il VI la pulsione era trattata prevalentemente come una spinta, una tendenza cieca, e man mano viene ora ad articolarsi con il tema dell’intersoggettività. Il desiderio è infatti innanzitutto ciò che costituisce la soggettivazione di questa spinta. Sono queste le premesse poste nel seminario V, riprese e sviluppate nel seminario VI, che portano ad articolare il significante – il desiderio come puro significante, come mancanza che sempre si sottrae – alla libido, l’energia che investe il linguaggio. In questo seminario dunque, dove la domanda è pensata come trascrizione significante della pulsione, il desiderio non è più soltanto un puro e semplice significante, ma è un significante a cui si aggiunge la libido. Questa linea di riflessione si svilupperà ulteriormente nel seminario successivo, sull’etica, che darà maggior consistenza all’aspetto libidico, e con la nozione di das Ding Lacan darà il primo abbozzo della nozione di reale. Nella prima lezione stessa del seminario VI troviamo poi anche l’idea che darà il tema e l’argomento, il filo rosso del seminario successivo sull’etica. La libido cerca il piacere o l’oggetto? Lacan parte infatti con un’aperta critica a Fairbairn, e già il fatto che prenda di mira questo teorico delle relazioni oggettuali fautore di una teoria alternativa a quella pulsionale classica freudiana, indica come Lacan stia in questi anni rivalutando il tema della pulsione. William Fairbairn era diventato membro della British Society negli anni ’30 ma, residente a Edimburgo e isolato, non entra nelle polemiche che divisero la scuola britannica dopo il trasferimento di Melanie Klein a Londra nel 1926. Fairbairn riduce la complessità del dualismo pulsionale freudiano a un monismo e, in quella che lui afferma essere una nuova versione della teoria della libido, sostiene l’idea che la libido è object seeking piuttosto che pleasure seeking, come nella teoria classica. Lacan sviluppa questa critica a Fairbairn proprio nel momento in cui, rovesciando le proprie posizioni precedenti, mette la teoria della libido alla base della teoria psicoanalitica, come si può leggere a p.12 dell’edizione de La Martinière. Bisogna notare che la critica rivolta da Lacan alla prospettiva object seeking è fondamentalmente clinica, perché la premessa implicita all’idea di una libido object seeking è che la libido si rivolga a un oggetto in qualche modo predestinato, non lasciando spazio per una mancanza, che è la nozione su cui s’impernia la ricerca teorica di Lacan in quegli anni. Ma c’è anche una ragione – che troveremo poi sviluppata nel seminario sull’etica e qui solo abbozzata – le cui radici sono nella critica alle filosofie morali fondate sull’edonismo, che identificano, considerandoli equivalenti, il piacere e l’oggetto. Questa identificazione si basa sul presupposto che l’oggetto sia l’oggetto naturale della libido, e porta a innalzare il piacere al rango di bene supremo, la nozione che Lacan rifiuta e che costituisce la sua obiezione fondamentale a Platone. Ma tale critica a Platone viene resa esplicita solo nel seminario sull’Etica. In questo seminario la critica si rivolge piuttosto ad Aristotele, giacché nella sua prospettiva l’identificazione di bene e di piacere si realizza solo all’interno di un’etica del padrone. In cosa consiste un’etica del padrone? È un’etica in cui entrano in gioco termini come la temperanza e l’intemperanza, e dove il punto di mira è realizzare una padronanza degli impulsi, una limitazione degli eccessi, una giusta misura, una modalità di controllo da parte del soggetto delle proprie abitudini. L’etica antica va tutta in questo senso. Lacan si riferisce all’edonismo, ma l’etica stoica, per altro verso, percorre a sua volta la via di padronanza, attraverso il distacco da tutto ciò che è fonte di dolore. L’edonismo mette sotto controllo le abitudini del soggetto. Lo stoicismo tenta di sottrarsi al dominio delle avversità e, in ultima istanza ,al controllo, all’influenza dell’Altro. La volontà e il desiderio Nelle prime lezioni del seminario Lacan spinge piuttosto a fondo il confronto con la filosofia, e affronta un tema che nella filosofia è sempre stato centrale: quello del soggetto. Ci sono due riferimenti significativi in questi primi capitoli: uno è a Lalande, l’altro è a Sartre. Il vocabolario filosofico di Lalande è interrogato da Lacan alla voce desiderio, e l’interessante non è quel che ci si trova affermato, ma quel che ci si trova negato. Lalande delinea infatti in cosa il desiderio si opponga alla volontà, e cioè: 1) nel coordinamento, almeno momentaneo delle tendenze; 2) nell’opposizione del soggetto all’oggetto; 3) nella coscienza della propria efficacia; 4) nel pensiero dei mezzi con cui la volontà raggiungerà i propri fini. Queste sono le caratteristiche con cui la volontà organizza la propria azione. Il desiderio, tenendo fede a questo, dovrebbe essere ciò che, per il suo carattere ribelle a qualsivoglia forma di organizzazione, dovrebbe presentare le stesse caratteristiche con segno negativo: 1) non coordina le tendenze; 2) non oppone il soggetto all’oggetto, e in questo Lacan riconosce l’articolazione del fantasma dove, più che opporsi, il soggetto e l’oggetto si articolano in una logica di esclusione reciproca; 3) non si commisura con una ricerca di efficacia; 4) non si preoccupa dei passaggi attraverso cui raggiungere i propri fini. Il linguaggio investito dalla pulsione In queste determinazioni negative, Lacan riconosce quel che la psicoanalisi ha indicato come pulsione. Quindi di nuovo vediamo come in questa fase stia cercando di recuperare all’interno della sua teoria, la nozione di pulsione, e come il desiderio emerga in stretta articolazione come essa. Desiderio, pulsione, fantasma sono in fondo termini che vengono articolati in modo nuovo in questo seminario, e il grafo costruito ha anche la funzione di collocarli. La cellula elementare, nucleare del grafo, è infatti il primo tentativo di articolare la pulsione e il significante, è la prima risposta di Lacan nel momento in cui gli si pone il problema di collocare la pulsione. A partire da “Funzione e campo” Lacan ha infatti disegnato una psicoanalisi concepita esclusivamente in base alla nozione di significante. Ridando ora accesso alla nozione di pulsione si tratta di collocarla in qualche modo rispetto alla catena significante. Il quesito che si pone è dunque come incida la tendenza, la spinta, la brama che cerca soddisfacimento, nella catena significante. La risposta è che questa brama originaria, questa tendenza, che per molti versi potremmo considerare naturale, va civilizzata, va fatta passare per la sfilata dei significanti. Nel grafo il punto di intersezione C, come codice, con la catena significante, esprime il modo in cui il bambino dovendo passare per l’Altro per ottenere soddisfacimento, deve assumerne il codice, deve imparare il linguaggio e formularvi la propria esigenza. Il passaggio attraverso il codice dell’Altro costituisce anche il momento in cui il bambino riceve il primo segno dell’Altro. In tal modo la catena intenzionale, che parte dalla pulsione, dalle tendenze, da un’ipotetica spinta naturale, va a terminare nel punto I, primo marchio del soggetto. Passando attraverso il codice dell’Altro per formulare il proprio bisogno e averne soddisfacimento, il bambino resta marchiato, il significante lascia un’impronta sul suo corpo. Il bambino cerca un seno, e Lacan gioca qui sull’omofonia in francese tra sein e seing. il primo termine significa seno, il secondo segno. Il bambino cerca dunque un seno, sein, da cui attingere nutrimento, e riceve al tempo stesso un segno seing. Ottiene sì il seno, ma questo lascia un segno. Una prima, essenziale, funzione del grafo è quindi di articolare natura e cultura, di intrecciarli, di far sentire la materialità del segno, che è precursore di quel che, negli sviluppi degli anni successivi, diventerà la lettera nella sua differenza dal significante. Ma un altro tema centrale nella costruzione del grafo è collocare il soggetto in rapporto con il linguaggio. Per articolare il problema del soggetto Lacan fa ricorso a un altro importante riferimento presente in queste lezioni, che è un testo di Sartre. Il soggetto non è la coscienza Lacan parla di rapporto del soggetto con il linguaggio. Sartre parla del soggetto riferendosi a Husserl e all’esperienza della fenomenologia. Linguistica a fenomenologia sono due campi completamente diversi, ma Lacan rimanda a Sartre per fondare, giustificare, anche a partire dall’esperienza della fenomenologia, la distinzione tra diversi piani del soggetto, e sopratutto la distinzione tra soggetto e coscienza, che sarà poi uno dei punti chiave sviluppati in uno scritto come “Posizione dell’inconscio”, pronunciato a Bonneval nel 1960, ma redatto solo alcuni anni più tardi, nel 1964. La lettura della fenomenologia fatta da Sartre è molto personale, e si discosta da quelle del suo maestro Husserl. Nel testo preso da Lacan come riferimento, “La trascendenza dell’Ego”, troviamo uno sviluppo concettuale che costituisce un architrave della filosofia di Sartre, dove il filosofo vuole dimostrare, contro la tesi sostenuta dalla corrente maggioritaria della fenomenologia, che l’Ego non è né formalmente, né materialmente nella coscienza, ma che piuttosto è fuori, nel mondo, nello stesso modo in cui lo è l’Ego dell’altro. Sartre parte dall’affermazione di Kant che l’Ego deve poter accompagnare tutte le nostre rappresentazioni, e la interpreta nel senso delle possibilità: deve poterle accompagnare, ma non è detto che necessariamente le accompagni, e giunge a concludere che l’Io trascendentale e unificatore è inutile alla fenomenologia, e che può benissimo darsi una coscienza trascendentale senza un Io trascendentale deputato a unificare la percezioni della coscienza. Questo assunto sarà poi per Lacan il punto di partenza per una critica alla psicologia in quanto pretesa scienza, in quanto ambisce a costituire la coscienza come campo fittiziamente unitario di una serie di fenomeni che sono invece eterogenei e dispersi. Capiamo quindi cosa interessi qui Lacan: la coscienza trascendentale per Sartre non va insieme alla funzione sintetica di un Io trascendentale. Su questa premessa Lacan può allora distinguere l’io del cogito, a cui si appella, dall’io shifter, cioè l’io che designa il soggetto nell’enunciato. L’io shifter è essenzialmente variabile, cambia in ogni momento dice Lacan. Con un termine contemporaneo potremmo dire che l’io shifter è un tag, un cartellino messo lì a indicare il soggetto che sta parlando, ma che è qualcosa di nettamente diverso dal soggetto implicato nell’atto di parlare, ovvero dal soggetto dell’enunciazione. Nel grafo già troviamo una topologia fondata su questa diversificazione, perché il soggetto dell’enunciato, l’io shifter è collocato nel piano inferiore, mentre il soggetto dell’enunciazione è situato nel piano superiore. L’interesse di questa differenziazione nella struttura soggettiva è che il soggetto così definito, che poi Lacan chiamerà soggetto dell’inconscio (qui vediamo da dove sorga la sua preoccupazione di distinguere il soggetto dalla coscienza) è anche il soggetto che sostiene l’atto di parola. Una parola che agisce Questa distinzione non è puramente formale, e ha un valore clinico essenziale. L’atto di parola è qualcosa di diverso dalla parola in quanto presa nella comunicazione, ed è diverso anche dalla parola considerata nella sua funzione descrittiva. Si tratta di una differenza sostanziale, giacché la parola descrittiva non implica il soggetto se non come osservatore. La descrizione non impegna in nessuna azione, si limita a far vedere. L’atto di parola invece implica il soggetto in ciò che dice, è qualcosa che porta un mutamento nella realtà. È attraverso l’atto di parola che il linguaggio incide nel reale, anziché semplicemente riflettere la realtà. Lacan fa sentire questa differenza con un esempio molto eloquente, ripreso dal seminario sulla psicosi, che consiste nel far rilevare la differente sfumatura che c’è in francese tra le due frasi “ tu es celui qui me suivra” e “ tu es celui chi me suivras”. La prima frase è semplicemente una constatazione: mi rendo conto del fatto che mi seguirai, e lo dico. La frase riflette uno stato di fatto, non lo modifica. Nella seconda forma invece non c’è nessuna constatazione, c’è quel che Lacan chiama un vocativo, c’è una chiamata: ti vedo tra i molti e ti scelgo, ti indico e chiamo te come colui destinato a seguirmi. La seconda forma indica dunque un intervento forte: trasforma il “tu” indicato da uno dei molti ascoltatori a mio seguace. La mia parola esercita in questo caso un’azione trasformativa su di te. Commentando questa frase Lacan dice qualcosa, a p.46, che è interessante notare. C’è un io soggiacente al tu della frase. C’è in effetti, l’implicazione enunciativa di un io che ti dice di seguirmi, e te lo dice in un modo in cui non è possibile rispondere: “Un attimo, diamoci tempo, pensiamoci ancora!”, perché la frase ha come la forma inaggirabile: “Io ti dico che dovrai seguirmi!” Perché questa distinzione ha un importante valore clinico? Perché dice qualcosa sul modo di porsi della parola dell’analista, dice qualcosa su quello che negli anni successivi Lacan chiamerà il desiderio dello psicoanalista. Che cos’è, in fondo, il desiderio dello psicoanalista? Non è certo porre nel paziente la propria causa di desiderio. È piuttosto il punto di enunciazione da cui procede la parola dell’analista. Il desiderio della psicoanalista è la sua enunciazione, è una parola che si pone come atto, e non come descrizione. Qui passa per esempio la differenza tra la clinica della psicoanalisi dell’io e la clinica lacaniana. Nella psicologia dell’io classica, che rivendica uno statuto scientifico della psicoanalisi, la parola dell’analista ha un valore descrittivo, e in base alla sua conoscenza dell’inconscio e della sua struttura, lo psicoanalista espone al paziente il sapere che ritiene dovrebbe far scattare in lui l’insight. La parola dello psicoanalista nella psicoanalisi dell’io è la parola dell’esperto, di colui che sa qualcosa che voi non sapete perché avete una specifica preparazione. La sua autorità è l’autorità dell’esperto. Oggi anche negli Stati Uniti questo orientamento è minoritario, si impongono piuttosto gli orientamenti intersoggettivisti. La versione contemporanea dello psicoterapeuta come portatore della parola dell’esperto è piuttosto quella offerta dal cognitivismo e dal comportsamentismo, che ridiriggono le idee del soggetto o i suoi comportamenti in base a un ipotetico sapere pregresso. Consideriamo l’orientamento clinico emerso negli ultimi due appuntamenti di PIPOL a Bruxelles: l’idea era di far valere l’implicazione personale dello psicoanalista negli esempi clinici esposti, utilizzando frammenti della propria analisi, ovvero sequenze in cui l’analista ha trovato implicato il proprio desiderio soggettivo. Naturalmente si tratta di prendere tutto nella giusta misura, per non scivolare nella controtraslazone, ma l’idea che la traccia dell’analista debba apparire nel quadro clinico presentato è fortemente presente nella clinica di orientamento lacaniano, ed è straordinariamente attuale nel mosto modo di fare clinica. Ebbene mi sembra chiaro che questa varietà di problemi, che noi attualizziamo così come abbiamo visto in PIPOL, affonda profondamente le proprie radici nei temi che troviamo nelle prime lezioni del seminario VI. Cos’è il trauma? È interessante riprendere in questo contesto il tema del desiderio dello psicoanalista perché nella sua fase strutturalista l’idea di Lacan è che il posto dell’analista sia il posto dell’Altro. Ne parla in questi termini nei suoi primi seminari, prima di considerare l’Altro come incompleto, come mancante, ma nel seminario VI già si disegna la figura di un Altro mancante, la cui sigla non appare nelle prime lezioni, anche se in queste già si delinea il posto che poi sarò siglato da S di A barrato. Questo è posto da cui viene la famosa domanda: “ Che vuoi?”, che Lacan trae dal libro di Cazotte che narra dell’incontro di Alvaro – di cui alluni negromanti si vogliono burlare – con il diavolo, che non si presenta nelle sue spoglie abituali, ma in diverse metamorfosi, la prima delle quali è un cammello dalla cui testa emana la voce inquietante che proferisce per l’appunto la domanda: “Che vuoi?”. Il diavolo si trasforma poi in cagnetta, e poi in una suonatrice d’arpa che s’innamora di lui e lo accompagna nelle sue peregrinazioni facendosi chiamare Blondette, e svelandogli infine il suo amore per lui. Il segno dell’amore è anche il segno della mancanza, e in questo il diavolo si mostra non solo tentatore, ma seduttore, corruttore, servitore. Questo “Che vuoi?” diventa così il segno del desiderio dell’Altro, e per questo Lacan dice che il soggetto deve imparare riprenderlo per declinare questa domanda come: “Cosa vuole da me?” Il tema del desiderio dell’Altro si delinea già nelle prime lezioni, a p.27, dove Lacan parla “ de l’Autre en tant qu’Autre ayant un desir”. Il desiderio dell’Altro è definito qui come ciò che si manifesta nell’intervallo, nella beance che separa l’articolazione linguistica della parola. È interessante vedere come Lacan sostenga che questa presenza primitiva del desiderio dell’Altro, che è oscuro, opaco, enigmatico, lasci il soggetto sans recours, hilflos, senza appigli. Lacan ricorre qui al termine Hilflosigkeit, termine freudiano presente in “Inibizione sintomo, angoscia” per qualificare questa prima esperienza, l’incontro con il desiderio dell’Altro – dicendo come sia qui il fondamento di ciò che la psicoanalisi ha situato come trauma. Causalità lineare e causalità retroattiva È interessante vedere che Lacan situa nel grafo – che per dare il significato funziona in base a un movimento retroattivo – il termine trauma, che è un termine freudiano, e a cui classicamente, nella prospettiva della psicoanalisi degli albori, si connette l’idea di una causalità delle nevrosi. Lo schema causale infatti in Freud non è lineare né progressivo. C’è prima una fissazione, c’è un elemento eterogeneo che lascia un segno e che resta lì, inerte, per anni, fino a che, in un momento successivo, un fattore occasionale si ricollega al primo elemento eterogeneo dandogli senso e attivandolo come causa traumatica. Che cosa notiamo di interessante in questo schema di articolazione retroattiva della causalità? Vediamo che la causa si articola con il senso, che non c’è un’azione diretta della causa, ma che la causa deve passare per una presa di senso. Può essere anche una presa di non-senso, e risultare opaca, enigmatica. L’attivazione della causa passa tuttavia attraverso un interrogativo: “Che cosa significa?”, “Cosa vuol dire?”, “Cosa vuole da me?”. Qui si vede la grande differenza tra la nozione di causa in psicoanalisi e nel discorso scientifico. Freud parte da una posizione scientista e ritiene che la psicoanalisi debba rientrare nel campo della scienza. La sua capacità osservativa e la sua aderenza ai fatti clinici lo portano però a forgiare i concetti scientifici necessari ad affrontare i quesiti clinici che gli si pongono, e lavorando in questo senso costruisce un metodo e una procedura che si distanziano dall’epistemologia scientifica. Direi che la nozione di causa è un esempio evidente in questa direzione. Causalità estensiva e causalità di discontinuità La causa nel discorso scientifico è una nozione estensiva, nel senso della definizione cartesiana dell’estensione, cioè partes extra partes. In questo senso la causa è sempre esterna, ed è la ragione per cui le neuroscienze, per quanti progressi possano fare nello studio del cervello, quando ritengono di cercare la causa di alcuni comportamenti, possono ritrovare solo una causa esterna. Cercare una causa che sta in qualche molecola del cervello significa sempre cercare una causa esterna, anche se il cervello è chiuso nella scatola cranica. La causa nelle scienze è un concetto spaziale, sia che, con Cartesio, sia abbia l’idea che un corpo possa imprimere un movimento a un altro corpo solo attraverso un contatto, e quindi la causalità abbia un carattere meccanico, sia che, con Newton, si abbia l’idea che è possibile un’azione a distanza. L’idea stessa di distanza presuppone comunque quella di spazio. Nella causalità scientifica c’è inoltre una concatenazione senza soluzione di continuità tra azione e reazione tanto che un critico moderno della nozione di causa Bertrand Russell, parla di casual lines, linee causali, cioè processi che si sviluppano senza interruzione. La caratteristica della causalità come è presentata da Freud e come è ripresa da Lacan è invece proprio che la causa appare quando c’è un interruzione di questa continuità, quando c’è qualcosa che zoppica, e l’idea di causa va proprio nel senso di questa interruzione. La clinica psicoanalitica che Lacan mette a punto nella prima fase del suo insegnamento accentua questo aspetto. L’idea dell’interpretazione come taglio va in questo senso: non insegue un’analogia immaginaria, ma cerca nella punteggiatura del discorso i punti di frattura, i contrattempi che ne rovesciano l’intenzione e che ne fanno emergere il testo inconscio. L’interpretazione così formulata tende poi sopratutto a far emergere quel che è eterogeneo rispetto al discorso, al circuito del dire, allo sviluppo tematico. Il trauma è l’interruzione del flusso discorsivo. Il carattere più significativo della nozione di causa come è costruita nelle linea di pensiero che va da Freud a Lacan, e che con il meccanismo del grafo assume una sua chiarezza formale e una sua definizione precisa, è però l’aspetto temporale. La causa non è più riferita a concetti spaziali ma è articolata in termini temporali. A questo proposito Lacan riprende e valorizza particolarmente il termine freudiano di Nachträligkheit. Mi sembra importante vedere che se c’è una Nachträligkheit, è perché correlativamente c’è una sospensione. Freud la chiama fissazione, cioè l’adesione della libido a una particolare fase erotica. Ma l’idea di fissazione è un’idea ancora statica e spazializzata. Mi sembra importante invece valorizzare l’idea della sospensione, cioè di un’implicazione del tempo nel linguaggio. Dall’immediatezza della sequenza di azione e reazione, che appartiene all’ordine naturale, il linguaggio fa passare a un dimensione temporale dove la sospensione, la dilazione fra l’azione e la reazione si inserisce interferendo nelle concatenazioni deterministiche. Il linguaggio scioglie l’uomo dal vincolo dell’immediatezza di azione e reazione, ed è il motivo per cui non possiamo applicare all’uomo l’esperienza del cane di Pavlov. È tuttavia quel che il comportamentismo ha fatto, e che le attuali terapie comportamentiste e cognitiviste continuano a fare. Il successo delle terapie cognitivo-comportamentali dipende dalla forma mimetica della scienza in cui si presentano. Parliamo di successo mediatico, non terapeutico. Quando si pretende di attribuire la sicurezza del metodo scientifico a un intervento sul soggetto, è perché lo si priva dal carattere che lo rende soggetto, perché si annulla quello iato, quella divaricazione tra il momento in cui l’uomo riceve un impulso e quello in cui produce una reazione. È lo iato in cui s’inserisce l’interrogativo sul senso. La necessità della presa di senso è chiaramente esemplificata nel modo più semplice e al tempo stesso più efficace, dall’episodio raccontato da Lacan della bambina che riceve un buffetto, e prima di reagire domanda se è uno schiaffo o una carezza. La peculiarità della causa nel soggetto umano è proprio nel fatto che non ha la propria causa in un luogo dello spazio, ma nel luogo dell’Altro, che non è un luogo definibile in termini estensivi. Il soggetto ha la propria causa nell’Altro, e quando non è così, le cose si complicano, perché l’oggetto causa, voce o sguardo, quando non è circoscritto nel luogo dell’Altro diventa delirio o allucinazione, apre la gamma dei fenomeni psicotici. La voce o lo sguardo, nel delirio o nell’allucinazione, ci danno perfettamente l’idea di un reale indubitabile, che investe il soggetto, pur senza essere un reale osservabile, cioè estensivo. Continuando a commentare le prime lezioni del seminario VI vedremo gli snodi che Lacan sceglie nel testo freudiano per sostenere le varie idee ora presentate e come queste incidano e facciano una significativa differenza nel modo di dirigere la cura.
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