di Marco Focchi Per domandarci cosa sia l’inconscio oggi facciamo innanzi tutto un confronto con quello che era l’inconscio del mondo di ieri. Di cosa parlava l’inconscio al tempo di Freud? Parlava di sessualità, sviluppava gli intrecci del romanzo famigliare, dipanava le trame dell’Edipo, metteva a nudo i fantasmi e i segreti d’alcova. L’inconscio del mondo di ieri rivelava il rovescio di quello che l’epoca vittoriana considerava una verità indiscussa: che le donne e i bambini non manifestano nessuna sessualità se non quando vengono corrotti. Al tempo della regina Vittoria le donne dovevano comportarsi al contrario di come fanno oggi. Se oggi le donne devono fingere di aver avuto l’orgasmo per rassicurare il proprio partner, allora, anche in sede di amplesso coniugale, dovevano piuttosto fingere di non averlo avuto per tutelare la loro reputazione.
Dietro questa facciata perbenista poi, il mondo vittoriano in realtà si occupava molto di sessualità, almeno di quella maschile, e si calcola che a Londra il numero delle prostitute fosse talmente cresciuto che ogni gentiluomo ne aveva a disposizione una media di due e mezza. Questo aspetto cadeva però sotto il velo della censura e non era qualcosa di cui si potesse parlare, almeno pubblicamente. Si capisce dunque che nella panoplia concettuale freudiana il concetto di censura abbia un posto di rilievo. La psicoanalisi di Freud è infatti un’impresa mirata a forzare la censura, a farne saltare i grimaldelli per liberare le forze espressive dell’inconscio dai limiti del moralismo e della pruderie. Il panorama che abbiamo intorno oggi è completamente diverso, e ci sembra un altro pianeta non solo rispetto al mondo freudiano della psicoanalisi nascente in mezzo a mille difficoltà, ma anche rispetto a quello della psicoanalisi trionfante nell’America degli anni Cinquanta, quell’America dove Alfred Kinsey intraprendeva il gigantesco lavoro di far emergere il continente sommerso della sessualità, con il metodo delle sue interviste, rivolte prima agli studenti che frequentavano le sue lezioni, poi a quelli dell’Università dell’Indiana, dove lavorava, poi, uscendo dall’Università, con interviste rivolte a persone di tutti i generi in tutti gli Stati Uniti. Erano anni in cui c’erano ragazze di istruzione superiore convinte di poter restare incinte con un bacio, o in cui si considerava che la sola posizione lecita per fare l’amore fosse quella del missionario, e purché l’atto fosse finalizzato alla riproduzione. Foucault, come è noto, sostiene che questo silenzio sul sesso sia sempre stato soltanto apparente, e che sul fondo c’era un’attenzione e una curiosità che entrava fino nei dettagli. Un conto però è inquisire nei dettagli in confessionale, all’interno di una logica di controllo, e un conto è la situazione contemporanea, dove quello sulla sessualità è diventato discorso ubiquo e pubblico, che occupa le pagine dei giornali, che è messo a tema di libri autobiografici scritti da rispettabili studiose, e che a scadenza regolare vede uscire un libro a vocazione best-seller con le confidenze di qualche ragazzina adolescente che tenta invano di scandalizzare con la rivelazione delle sue prestazioni erotiche estreme. La pornografia ha i suoi sacrari legittimi nei sexy shop e in internet l’offerta è praticamente illimitata e incontrollabile. Inoltre, rompendo un tabù ancestrale, per la prima volta appare, su un settimanale come Famiglia cristiana, una pubblicità che esibisce un nudo femminile. Non possiamo più dire che la sessualità sia un fattore di scandalo o pensare che sia trattabile con i mezzi della censura. Non esiste più neanche l’idea che essa appartenga di per sé a una dimensione trasgressiva. Georges Bataille, profeta del postmoderno, in questo senso andrebbe riletto alla luce della postmodernità realizzata. L’erotismo, oggi possiamo forse percepirlo meglio, non è il superamento di un limite al di là del quale c’è lo spazio della trasgressione, ma è piuttosto lo sfioramento e il gioco con un limite al di là del quale non c’è nulla. Al tempo in cui Kinsey cominciava le sue ricerche l’omosessualità era un nome impronunciabile. Oggi non solo è caduta la censura, ma il linguaggio s’ingegna di trovare espressioni non offensive per parlarne. E’ il trionfo del politically correct, cioè del exploit di invenzione eufemistica prodigato nello sforzo di trovare un modo di dire le cose che non sia offensivo né discriminante. Il linguaggio politically correct è un fenomeno tipicamente postmoderno, che fa la sua comparsa negli anni Ottanta, che si sviluppa insieme alle teorie costruzioniste e relativiste, e che implica un impegno di tolleranza e di accettazione quanto più largo possibile. Da questo punto di vista il linguaggio politically correct è una promessa di democrazia: serve a evitare di bollare il diverso, di mettere in difficoltà il debole, di accantonare l’eterogeneo. E’ il principio di uguaglianza fatto linguaggio. Proprio però per il suo grande sforzo di neutralizzazione rischia di produrre un idioma anodino che funziona al contrario delle proprie intenzioni. Il 9 luglio del 1993 per esempio, la Federazione Nazionale dei Ciechi degli Stati Uniti ha reso pubblica una Memoria dove esprimeva la propria opposizione a quanto stabilito l’anno precedente dall’Ufficio per i Diritti Civili. Questo aveva deciso di adottare una fraseologia dove fosse accentuata la menzione dell’individualità della persona anziché la menzione della disabilità. Per esempio si preferiva l’espressione “persona con disabilità” piuttosto che “disabile”, “persona affetta da sordità” piuttosto che “sordo”, “persona affetta da cecità” piuttosto che “cieco”, “studente con dislessia” piuttosto che “dislessico.” Riferirsi alla condizione del cieco – argomentava la Memoria – con eufemismi come “persona con difficoltà di visione”, “leso sul piano visivo”, o “persona portatrice di cecità” sacrifica termini diretti e rispettabili come “cieco” e “cecità” a favore di espressioni goffe e ridicole, dando l’idea che la cecità sia una condizione in sé vergognosa e offensiva tanto da dovere evitare di riferirsi a essa come fosse una minorazione di status sociale. La tesi della Memoria, in pratica, sostiene che non è il termine a essere offensivo ma il fatto di volerlo evitare a renderlo tale. Entriamo con questo in un labirinto tra affermazione e diniego su cui Freud ci ha reso edotti e dal quale non c’è via d’uscita ragionevole. Non sono le parole a portare la colpa o l’offesa, ma l’intenzione che le enuncia. Il politically correct può emendare tutti gli enunciati possibili, ma non può cancellare le intenzioni del soggetto dell’enunciazione. Il progetto del politically correct tuttavia è precisamente questo: la creazione di un codice che abbia abolito in sé ogni intenzione aggressiva, il che vuol dire dar vita a un codice senza intenzioni tout court, un linguaggio depulsionalizzato. Un linguaggio che non sia tendenzioso, che non accolga in sé nessuna tendenza, nessuna inclinazione, è al servizio di un modo espressione burocratico, ed è per definizione privo di desiderio. Se allora, seguendo Lacan, partiamo dall’inconscio strutturato come un linguaggio, dobbiamo domandarci cosa ne è dell’inconscio all’epoca del politically correct. L’inconscio del mondo di ieri parlava di tutto quel che non si poteva dire. Nel politically correct in realtà non c’è niente che non si possa dire. Contrariamente a quanto asserito nelle critiche che provengono da parte di alcuni conservatori, che stigmatizzano il politically correct come una forma di censura, non c’è niente che esso vieti di dire. E’ l’intenzione invece che viene frenata, ed è il desiderio che non può affacciarvisi. L’esclusione del negativo implica sia deplorevole la mancanza, e se non c’è posto per la mancanza non c’è posto per il desiderio. Il politically correct non è soltanto un bizantinismo burocratico, e riflette l’omogeneizzazione del mondo globalizzato: dove non sono sancite le differenze non sono neanche riconosciute le peculiarità, dove tutto deve andare bene non c’è nulla che assuma forma specifica. E’ il problema di quello che Jean-Claude Milner ha chiamato “la società illimitata”. Sullo sfondo di questa diversa impronta sociale le forme contemporanee del disagio si manifestano come sintomi senza inconscio, cioè come sintomi chiusi, senza quesito, senza enigma. Il paziente che se ne lamenta non viene a consultare lo psicoanalista per interrogarne il significato, per capire da cosa nascono, ma per liberarsene. Ora, è vero che da sempre i pazienti hanno voluto liberarsi dai sintomi quanto più rapidamente possibile e con quanto minore spesa soggettiva. La differenza è nello strato di credenza sociale che attribuisce a questi sintomi il valore di disturbi. L’anoressia, la bulimia, il panico, la depressione sono socialmente qualificati come disturbi. Questo cambia completamente il rapporto del soggetto con il proprio sintomo. Il disturbo è qualcosa che produce una turbativa all’interno di un’economia, in qualsiasi forma la si pensi, amministrativa, produttiva o medica. Un fattore di disturbo è qualcosa da eliminare, non da interrogare, e tutto il dispositivo della farmacologia e della valutazione dei risultati è mirato alla soppressione dell’inconveniente, al suo silenziamento, non certo a farlo parlare. A questo mutismo indotto si adeguano i sintomi contemporanei: i sintomi senza inconscio sono infatti quelli che non hanno nulla da dire, quelli ai quali non è presupposto nessun sapere, quelli che non entrano nella dialettica della traslazione. Se il sintomo come disturbo è considerato al pari del granello di sabbia che blocca l’ingranaggio, è perché nell’attuale visione scientista, sulla scorta del riduzionismo che la permea, funziona una prospettiva omologante in cui l’eterogeneo non ha posto. Di fronte alla potenza d’omologazione dispiegata nel mondo contemporaneo, credo che la psicoanalisi debba far riemergere proprio la forza dell’eterogeneo. Dove si cerca di appiattire la clinica su criteri di valutazione incentrati sul criterio di normalità, occorre far leva invece sulla promozione di una clinica del disparato e del multiforme. A questo scopo è necessario considerare la moderna predominanza del concetto di comunicazione: tutto oggi passa attraverso una capacità di gestione della comunicazione che appiattisce il linguaggio facendone una funzione e rendendolo subalterno a fini che possono essere di trattamento tecnico dell’informazione, o di persuasione. In contrasto con questo si tratta di far emergere una diversa dimensione dove il linguaggio si manifesta come eterogeneo, non subordinato a un fine ma sovrano, sia che questa sovranità si esprima come gioco, come poesia, come lallazione infantile, insomma come godimento della parola. Se, da una parte, troviamo il linguaggio burocratico svuotato di godimento, di cui abbiamo visto un esempio nel politically correct, e che si caratterizza nella sua funzione servile o semplicemente utilitarista, dall’altra troviamo il linguaggio nella sua funzione sovrana, legata al godimento. Lacan aveva un termine per indicare questa dimensione del linguaggio: lalangue, scritto in una sola parola, e cioè la lingua presa a prescindere dall’articolazione in metafora e metonimia, presa preliminarmente rispetto alla sua frammentazione in un ordine discreto e alla sua subordinazione al logos, a una ratio calcolabile. Con lalangue non abbiamo la lingua della comunicazione ma quella della sorpresa e dell’invenzione, che non ha modello grammaticale e non ha un repertorio lessicale classificato nel dizionario. Un esempio è la sfrenata fantasia verbale di Joyce nell’Ulisse e nel Finngans, dove la lingua non è finalizzata alla narrazione, con la sua concatenazione in un ordine temporale che si sviluppa tra passato presente e futuro, ma piuttosto si espande in un presente senza confine, e la storia è solo lo spunto per un godimento che passa attraverso il linguaggio. Si tratta della dimensione pulsionale della lingua, dove qualcosa sempre succede, fatta di variazioni incessanti, di una fantasmagoria metamorfica di cui Joyce trovava un modello in quel gioiello dell’arte celtica che è il Book of Kells. Siamo agli antipodi di quella che è la lingua depulsionalizzata del politically correct. In una sua definizione Lacan asserisce che il linguaggio è un’elucubrazione di sapere su lalangue. Il sapere inconscio quindi si pone come punto d’articolazione tra la lingua e lalangue, ed è in fondo per questo motivo che possiamo vedere l’epoca del politically correct come quella dei sintomi senza inconscio. E’ come si fosse scardinato questo punto d’articolazione tra la lingua burocratico-comunicativa e la lingua del gioco in cui l’inconscio trova la propria collocazione. Dobbiamo riconoscere che questa è la realtà del tempo in cui viviamo e che la psicoanalisi deve prenderne le misure, perché la sua pratica non può più essere uguale a prima. Se in questa luce consideriamo la funzione del Nome del padre e le sue versioni moderne, credo che spicchi una differenza sostanziale rispetto a quella tradizionale. Il Nome del padre nella versione freudiana classica è collegato con la via che porta alla normalità del desiderio. E’ l’aspetto che Lacan ha messo in luce con la formulazione della metafora paterna. Questo non vuol dire che la psicoanalisi di Freud sia normativa, ma che trova il proprio punto d’impasse quando sfocia sulla roccia basilare della castrazione. E’ l’impasse che la corrente della psicologia dell’io ha risolto con l’adattamento e la norma. Se per un verso quindi la funzione del Nome del padre è coordinata con la norma, per un altro, nella versione postmoderna, dove la norma si decostruisce nei mille rivoli degli stili che rompono i canoni del razionalismo moderno, il Nome del padre non viene per questo a decadere. Possiamo ancora utilizzarlo, come suggerisce di fare Lacan nel seminario Le sinthome, riprendendolo nel suo collegamento con l’eterogeneo. Si tratta di considerare l’articolazione del Nome del padre non con il piano burocratico semantico della lingua, dove dà il senso della castrazione, ma con quello della lingua del gioco, dove segnala una modalità di godimento. In questo senso il Nome del padre non porta verso la norma, verso l’universale che vale per tutti, ma punta l’indice piuttosto su quel che vi è di peculiare, di specifico per il soggetto. Non si tratta qui del padre che fa il figlio a propria immagine e somiglianza, ma di quello che si spoglia dell’ideale per incarnare la particolarità di un desiderio. La versione moderna del padre si separa dall’universale, ma per risultare una figura con i piedi per terra, che lascia delle tracce, che segna delle piste riconoscibili che si possono o meno seguire, che non abdica al proprio compito, ma che non si mette sotto la protezione di nessuna trascendenza.
0 Comments
Leave a Reply. |
Marco Focchi riceve in
viale Gran Sasso 28 20131 Milano. Tel. 022665651. Possibilità di colloqui in inglese, francese, spagnolo Archivi
Novembre 2024
Categorie |