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Il buon uso dell'inconscio

Conferenze, seminari, interventi e testi del dott. Marco Focchi
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Un modo di trattare il tempo selvaggio della vita

19/1/2017

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Marco Focchi

​C’è chi è sempre in ritardo, e non per trascuratezza o per indifferenza. È piuttosto come Amleto, che continuamente procrastina la propria azione. Lacan, nel seminario VI, ne ha ben spiegato le ragioni: Amleto dipende dal tempo dell’Altro, è agganciato a quel desiderio che nella tragedia è rappresentato da Gertrude, la madre, e non riesce a fare il passo necessario per affermare la propria posizione soggettiva.


​C’è poi che è sempre in anticipo. Tendiamo a pensare che sia ansioso, che abbia paura di vedersi sfuggire di mano l’appuntamento, di perdere il controllo della situazione.
C’è anche chi è di una puntualità meccanica, che sembra sincronizzata con il segnale orario radiocontrollato proveniente da Francoforte. Ma una puntualità meccanica, lo sappiamo, non è il tempo giusto. È piuttosto l’obbedienza ossessiva a un significante padrone incarnato dal tempo. Per nessuno l’espressione: “Il tempo è tiranno” s’adatta meglio che per l’ossessivo. Mimetizzato nella precisione del cronometro, l’ossessivo si nasconde al desiderio, si sottrae al tempo della vita, all’angoscia di essere nel tempo che scorre, che sfugge, che non si lascia fermare nell’istante. L’orologio universale, l’orologio atomico è la migliore approssimazione della magia che può catturare l’istante, quello in cui il tempo viene fissato, fotografato come un’istantanea dell’eternità.
Le ansie dei nostri pazienti, e non solo le loro, si esprimono nel rapporto con il tempo, nel trattamento che ogni forma di nevrosi (o di psicosi) fa del tempo.
Qual è la difficoltà del soggetto con il tempo? Che non ci si può sedere sopra:  per nessuno il tempo è un accogliente sofà, nessuno sta comodo con il tempo, e quando ci si spinge abbastanza lontano con la ripetizione, verso i ricordi di copertura, verso i fantasmi originari, verso l’evocazione di momenti traumatici, si vede che il soggetto è preso come in un risucchio: tolti i fondali, gli scenari, le quinte costituite da queste prime puntellature fatte d’immagini e tracce, e segni, ci si trova di fronte all’irrappresentabile, all’abisso, allo spalancamento originario che Lacan chiamava “beance”, e la cui traduzione migliore, in tutte le lingue, è la parola greca “Chaos”. Tolti gli arredi del tempo, il montaggio di significanti e i collage immaginari di cui sono fatti i ricordi, il soggetto sprofonda nel panico temporale, nel caos pulsionale.
Occorre quindi trattare, in un’analisi, le storie del soggetto, quelle in cui il tempo prende un senso, assume un orientamento, quelle che costruiscono la sua biografia, la sua anamnesi, ciò in cui si riconosce, o in cui si rifiuta di riconoscersi. Quando però tocchiamo questi punti limite, queste frontiere dell’esistenza, ci accorgiamo che il più resta da fare. Abbiamo lavorato con il tempo addomesticato dal senso, ci troviamo ora di fronte al tempo selvaggio, che non ha misura, non ha orologio, che pulsa nel ritmo inestricabile della vita. 
Lacan se ne è reso conto molto presto, e la seduta a tempo variabile è il modo che ha trovato per trattare quella dimensione del tempo che non si inquadra nella cronologia. Un taglio della seduta su una sospensione asemantica, profondamente enigmatica, che impedisce al soggetto di chiudere il discorso, vale molto di più a volte di mille allusioni, iniezioni di significante, sviluppi discorsivi. Una giuntura improvvisa, inaspettata, che collega solo attraverso una sincronia dissonante elementi che non hanno comune misura, apre paesaggi inconsci immensamente più importanti di molte spiegazioni discorsive capaci di toccare solo un lato visibile dei problemi. La seduta a tempo variabile, a mio modo di vedere, è questa operazione di taglia e cuci, che usa le parole per toccare ciò che le parole non possono raggiungere.
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    viale Gran Sasso 28
    20131 Milano.
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