Intervento alla tavola rotonda tenutasi il 12 dicembre 2014 a Milano presso la Società Umanitaria in occasione della presentazione del libro di Lacan Io parlo ai muri. di Marco Focchi Questa sera parliamo del libro di Lacan recentemente tradotto da Einaudi, che ha praticamente due titoli, Il mio insegnamento e Io parlo ai muri. Ha due titoli perché comprende due sezioni. Nella prima ci sono tre conferenze che coprono gli anni ’67 e ’68, mentre nella seconda troviamo tre lezioni tenute all’Università di Sant’Anna per un pubblico di psichiatri, e per le quali Lacan aveva dato come titolo: Il sapere dello psicoanalista. Nelle prime tre conferenze il tema di fondo riguarda l’insegnamento della psicoanalisi, mentre Io parlo ai muri, titolo dell’ultima conferenza compresa nel libro, rispecchia quel che Lacan indica come la solitudine del suo insegnamento, l’idea di una parola lanciata per chi vorrà o saprà raccoglierla. Le prime tre conferenze hanno luogo, come dicevo, tra il ’67 e il ’68 e seguono di poco la pubblicazione degli Écrits, in un momento in cui, come succede a ogni autore, Lacan viene chiamato per la presentazione del nuovo libro. È particolarmente interessante ricordare le circostanze della prima conferenza, che viene pronunciata all’Università di Lione, dove al tempo insegnava Gilles Deleuze, e segna il momento dell’incontro di Lacan con Deleuze. Come è noto, si è trattato di un’incontro particolarmente significativo. A Lione insegnava anche Henri Maldiney, uno dei filosofi più interessanti del novecento francese. Successore della cattedra di Merlau-Ponty è stato tra coloro che hanno introdotto la fenomenologia in Francia. La prima conferenza di Lacan raccolta nel libro si conclude con un serrato dialogo tra Lacan e Maldiney. Evidentemente il filosofo era anche uno dei pochi in grado di interrogare Lacan, e lo scambio si conclude su una sorta di incomprensione. Maldiney a un certo punto dice “Non possiamo avere un dialogo vero e proprio, in realtà facciamo due monologhi perché io mi riferisco a Husserl, per il quale l’inconscio è fatto di “inattualità”, mentre per lei l’inconscio è composto da elementi linguistici, e non ci sono termini comuni a partire dai quali possiamo veramente parlare”. Lacan gli risponde con una battuta: “ Sì, questo non succede solo ai filosofi, succede anche tra marito e moglie”. Sicuramente con questa frecciata Lacan aveva in mente il tema che costituisce il cardine del suo pensiero successivo, quello che svilupperà negli ultimi anni del suo insegnamento, l’idea cioè che non c’è rapporto sessuale, ovvero che l’uomo e la donna intrattengono un rapporto diverso con il sesso.
Ma senz'altro più ancora che non con l’incontro con Maldiney, è interessante l’incontro con Deleuze. Sembra che in quella conferenza, Lacan non fosse di buon umore. Finito il suo discorso, era stato avvicinato da uno psicoanalista locale che gli aveva detto di sentirsi più disorientato che chiarificato dal suo intervento, e questo pare lo abbia disturbato. Lacan dice allora di voler concludere la serata a casa di Gilles Deleuze, che si mostra molto disponibile. Deleuze insegnando a Lione, in quel periodo anche viveva a Lione. Non aveva in casa però il tipo di sigari che piaceva a Lacan. Maldiney viene allora spedito in città a cercare dei sigari adatti. Lacan fumava dei toscani che, qui a Milano si trovano probabilmente in qualsiasi tabaccheria, ma a Lione l’impresa non doveva essere altrettanto facile. Maldiney infatti torna senza i sigari, e questo non giova alla già compromessa disposizione d’animo dello psicoanalista parigino. Lacan intreccia allora con Deleuze un dialogo fatto del suo malumore, esibito in maniera abbastanza ostentata, e delle risposte cordiali, gentili, pacificanti del filosofo. Malgrado questo inizio un po’ particolare, un po’ asimmetrico diciamo, l’incontro con Deleuze risulta interessante anche per Lacan, perché l’anno successivo lo menziona nel suo seminario, Dall’Altro all’altro, raccomandando la lettura dei due libri più importanti di Deleuze, Differenza e ripetizione e La logica del senso, scritti proprio in quegli anni. Sappiamo che ne ha scritti poi di altrettanto importanti, dove la psicoanalisi è messa direttamente in questione. Lacan valorizza molto anche un altro breve libro di Deleuze sul masochismo, che mette in luce il carattere contrattuale riscontrabile nella relazione masochista, oltre all’idea dell’esistenza di una dissimmetria tra masochismo e sadismo, idea che Lacan ha poi fatto sua. Dopo questo primo momento ci sono ancora altri incontri, durante i quali Lacan cerca di coinvolgere il filosofo e di convincerlo lavorare con lui, fino a che Deleuze, insieme a Guattari, scrive L’anti-Edipo e questo segna naturalmente il distanziamento tra i due pensatori. Vi dicevo che le conferenze incluse nel volume di cui parliamo nascono in occasione della presentazione degli Écrits, e danno modo a Lacan di sviluppare alcuni temi significativi che vanno al di là di quelli già trattati negli Écrits e di cui ancora oggi possiamo sentire gli effetti innovativi. Si tratta di tre esplorazioni sull’inconscio, e nel ’67 già Lacan ha dato una declinazione diversa all’inconscio rispetto al modo un cui l’aveva presentato agli inizi del suo insegnamento. Negli anni ’50 la definizione, più che nota, è che l’inconscio è strutturato come un linguaggio. Continua a esserlo evidentemente anche in questa fase successiva, ma nel ’64 Lacan ha aggiunto qualcosa. Ha acquisito l’idea, proposta nelle prime lezioni del seminario XI, che l’inconscio ha un carattere etico piuttosto che ontico. Questo vuol dire che l’inconscio riguarda non tanto il bagaglio dei ricordi che ci portiamo dietro, e a cui ipoteticamente attingiamo, quanto piuttosto le decisioni che prendiamo prima ancora di esserne consapevoli. L’etica, in fondo, è una questione relativa alle decisioni prese dal soggetto. Abbiamo quindi con Lacan un inconscio molto più rarefatto e più essenziale rispetto a quel che poteva essere l’inconscio freudiano.Lacan, per tutto l’arco della sua vita, è tornato a ripensare e a reinterrogarsi su cos’è l’inconscio, non l’ha mai dato per scontato. Per un verso possiamo dire che con Freud, sin dal tempo dell’Interpretazione dei sogni, già sapevamo cos’è l’inconscio: è fatto di catene di rappresentazioni mosse dallo spostamento della condensazione. Lacan non si ferma a questo, e quando lo definisce strutturato come un linguaggio propone qualcosa di diverso rispetto all’inconscio rappresentativo di Freud. L’inconscio di significanti non coincide con quello della rappresentazione. E l’inconscio che ha uno statuto etico e non ontico è specificato, declinato ancora in un modo diverso. Non dimentichiamo che nel ’64 Lacan ha già pronunciato il suo seminario sull’Etica della psicoanalisi. L’etica, nell’apparato concettuale della psicoanalisi, è un tema nuovo. C’è stato naturalmente il libro di Szasz sull’Etica della psicoanalisi, ma nel momento e nel modo in cui Lacan lo affronta si tratta di un’innovazione nel contesto del dibattito analitico, che mette la psicoanalisi su un diverso asse rispetto a quello scientifico e psicologico che veniva cercato nell’ambito per esempio della psicologia dell’io. Con il seminario sull’etica, articolando la psicoanalisi con l’etica, Lacan prende distanza innanzi tutto dalla psicologia. La critica alle premesse epistemologiche della psicologia viene sviluppata da Lacan negli anni sessanta. Vuole deostruirne le basi come scienza, mira a smontare la coscienza come suo oggetto di riferimento. La polemica con la psicologia accademica si fa radicale proprio nel momento stesso in cui Lacan sposta l’asse della psicoanalisi verso l’etica. Uno tra gli apoftegmi più classici di Lacan, uno dei più ripetuti, quello che formula alla fine del suo seminario sull’etica, è che etica significa non cedere sul proprio desiderio. Cosa significa? Credo sia importante collocare questa definizione sullo sfondo del contesto in cui Lacan la fa sorgere, per non farne un ritornello. Non cedere sul proprio desiderio indica la via dell’uomo che prende una strada diversa da quella dell’uomo dedito a quel che Lacan chiama le service des biens, cioè alla gestione degli affari correnti, la strada cioè dell’uomo che si occupa dei beni terreni, dell’utile, di ciò che ha valore nella prospettiva inquadrata dall’utilitarismo. Lacan ha cura di separare l’etica dall’idea del bene. La riflessione filosofica sull’etica, da Platone a Kant escluso, riguarda la condotta che è opportuno seguire, ciò che è necessario fare, il modo migliore di indirizzare la propria vita perché abbia il bene come stella polare. Lacan fa invece una critica radicale all’idea del Bene platonico, si allontana dall’idea di Bene, ma anche dai beni, da un’etica utilitarista che si concentra sulla massimizzazione dei vantaggi concreti. Con l’utilitarismo siamo nell’epoca dell’espansione coloniale dell’Inghilterra, in un periodo storico sicuramente attento ai beni concreti. Lacan contrappone l’uomo che si dedica alla gestione della famiglia, dell’azienda, degli affari, all’acquisizione di ricchezze e di beni materiali, all’uomo che fa la scelta di seguire invece la via del proprio desiderio. Quest’ultima è una via tragica, che Lacan incarna in questo seminario nella figura di Edipo a Colono, Edipo che si acceca, o nella figura di Filottete, anche lui uomo che va fino in fondo al proprio desiderio, che nel suo caso è un desiderio di vendetta. In contrapposizione a queste figure tragiche troviamo la figura di re Lear, che appare piuttosto come un personaggio comico. Anche re Lear rinuncia, non vuole occuparsi dell’amministrazione dei beni, non vuole occuparsi della gestione delle cose mondane, vuole lasciare l’amministrazione degli affari del regno alle figlie, però allo stesso tempo vuole avere un seguito di damigelle, vuole dedicarsi alla caccia, vuole la vita comoda, in ultima istanza vuole i beni, ma senza l’onere della loro gestione. Lacan lo presenta quindi in contrasto con Edipo che paga fino in fondo, a caro prezzo e duramente la sua scelta di seguire la via del desiderio. Messo accanto a Edipo, re Lear appare solo come ridicolo burattino, giustamente gabbato dalle figlie. È interessante esplorare questo confronto tra l’uomo che segue la via del desiderio e quello che si occupa della quotidianità. Ne abbiamo un profilo anche nella storia della filosofia. Alcuni aneddoti sui filosofi sono abbastanza eloquenti su questo. Talete, per esempio, guarda le stelle e, proprio perché tiene gli occhi al cielo, non guarda dove mette i piedi e cade in un pozzo, provocando il riso della servetta tracia, lei che invece ha gli occhi ben fissi a terra, sulle cose del mondo, e sa bene dove cammina. Oppure Hegel, che sta facendo una passeggiata immerso nei suoi pensieri in qualche foresta dalla Germania. Lì piove spesso, si scatena un temporale, ma Hegel non si distoglie dalle sue ruminazioni, e continua l’escursione. Il terreno intanto s’inzuppa d’acqua e camminando Hegel perde le scarpe, ma non se ne accorge, va avanti. Tornato a casa, solo davanti al focolare si accorge di essere scalzo. O ancora, più vicino a noi, Norbert Wiener, uno dei creatori della cibernetica. Si dice che anche lui fosse uno con la testa un po’ nella matematica e un po’ nelle nuvole. Dopo aver cambiato casa, siccome non si interessava particolarmente alle questioni pratiche, e un trasloco è tale, non si ricordava mai dov’era la casa nuova, e tornava sempre al vecchio indirizzo. Una sera, perdutosi, si trova a girare per i quartieri della città. Ormai si è fatto tardi, non riesce più a concentrarsi per ritrovare la sua abitazione. Incontra una bambina e le chiede: “Senti piccola, non sai per caso dov’è la casa dei Wiener?” E lei: “Smettila papà, ti porto io a casa!” Anche nella filosofia è dunque presente la contrapposizione tra la figura dell’uomo di pensiero, che si astrae delle cose concrete, delle cose della vita, materiali – alle quali in genere, quando si è filosofi, pensa la moglie, se il filosofo ha una moglie, anche se Cicerone considerava controindicato per un filosofo avere una moglie – e l’uomo pratico, e questa contrapposizione è parallela a quella indicata da Lacan tra l’uomo dedito ai beni e quello che segue la via del desiderio. È una contrapposizione parallela anche se non identica. Talete innalza lo sguardo al cielo, allontanandolo dalla pesantezza delle cose terrene. Da un lato c’è la la leggerezza urania, dall’altro c’è la pesantezza ctonia. Anche in Lacan ci sono leggerezza e peso, ma non si ripartiscono nello stesso modo. Un cliché nella psicoanalisi, due o tre decine di anni fa, quando stavo iniziando la mia pratica, consisteva in una sorta di domanda di rito che l’analista rivolgeva a chi iniziava l’esperienza: “Lei è sicuro di voler cominciare un percorso così impegnativo, così oneroso, così faticoso, così lungo?” Se oggi mettiamo uno sbarramento di questo tipo siamo praticamente sicuri di scoraggiare il candidato. Ma una volta no, l’idea, della fatica, della pesantezza, della lunghezza, dell’onere erano presentati come una sorta di marchio di fabbrica dell’esperienza freudiana. Lo stesso Freud, tra i consigli che dava ai giovani analisti, suggeriva di avvertire il paziente che stava per mettersi in un percorso così accidentato. Un conto è però Freud che, in particolari circostanze, quelle di un pioniere, avanza certi caveat, altro conto è che un consiglio simile diventi rituale, e quando una cosa diventa cliché comincia a prendere piombo nelle ali. Freud era prodigo di immagini infere: si flettere nequeo superos, Acheronta movebo, in mancanza delle potenze divine mi rivolgerò a quelle sotterranee, come recita il noto esergo posto l’inizio dell’Interpretazione dei sogni. C’è poi la faustiana cucina della strega per indicare la metapsicologia. Freud presenta immagini indiavolate, mefistofeliche. L’inconscio è un luogo di passioni violente, turbolente. Non è lo stesso con Lacan, l’inconscio per lui non è preso nello stesso verso. Se leggete queste conferenze, trovate che Lacan gioca con il linguaggio, scherza, è umoristico, si concede alla battuta, salta tra i registri, fa un po’ l’acrobata della parola. Scorgiamo quindi un altro lato, vediamo una certa leggerezza di Lacan nel rapporto con la parola. È un modo tipico di trattamento della parola in Lacan, anche se si tratta di una leggerezza che non rinuncia però alla serietà, all’importanza del rapporto con la parola. Chi più di Lacan ha accentuato il valore, la necessaria accuratezza, la gravità di tutto quel che riguarda il linguaggio. Nella psicoanalisi portiamo il soggetto a valorizzare il peso delle parole, e proprio grazie a questo riusciamo ad alleggerirgli la vita. Sapete che la prima delle lezioni americane di Calvino è proprio dedicata a questo tema, ha come titolo la “leggerezza”. Calvino l’attraversa di par suo, considerando i poeti del peso e i poeti della leggerezza. Considera per esempio Dante come un poeta che nelle sue immagini mostra tutto il peso del corpo, le densità delle cose, che fa sentire il peso della pietra che affonda nello stagno, e lo contrappone a Cavalcanti, poeta alato, poeta della leggerezza. Calvino propone diverse immagini letterarie. Una di queste è Cyrano de Bergerac, di Rostand, archetipo del contrasto tra la pesantezza del corpo, rappresentato dall’ingombro del naso, e la leggerezza delle parole, parole agili e veloci, che non può proferire direttamente alla ragazza di cui è innamorato, Rossana, e deve mettere in bocca a una specie di suo rappresentante. Calvino attraversa il contrasto tra la pesantezza della vita e la leggerezza della scrittura, la volatilità delle parole. Possiamo domandarci se non ci sia una terza via tra gli ostacoli della vita – perché la pesantezza è questo: gli impacci, i labirinti in cui ci si smarrisce, le costrizioni in cui ci trova intrappolati, gli impedimenti che ci affaticano, la stanchezza che ci rallenta – e la via della fuga nella fantasia, nella libertà della parola, nei sogni che ci aprono alla meraviglia, i sogni della cui materia siamo fatti, come diceva Shakespeare. La via mediana che cerchiamo, direi, è quella dell’ironia, dell’umorismo atto a temperare la malinconia di Amleto, che sa essere grave e pungente al tempo stesso. L’umorismo è proprio ciò che solleva il corpo, gli dà sollievo attraverso lo spirito. La comicità è l’ingombro del corpo, la goffaggine del personaggio che scivola impiastricciandosi nel fango, della divetta svanita che capitombola nella piscina. Il comico passa attraverso la pesantezza, la grossolanità del corpo, dove l’umorismo invece assottiglia, rarefà, vaporizza. Questa via mediana si trova in Lacan. L’umorismo, lo spirito, la leggerezza di Lacan non sono quelle della superficialità. Rispecchiano piuttosto la scioltezza di chi sa destreggiarsi nel labirinto. Quale immagine più di quella del labirinto dà l’idea della costrizione? Il labirinto ci porta in vie obbligate, è una grammatica coatta dei movimenti, e in mezzo c’è il Minotauro, il mostro, la drammatizzazione della lotta immane che dovremo affrontare. La psicoanalisi è proprio questo: saper portare il soggetto a valutare, a sentire, a cogliere il peso delle parole, e insieme la lievità la vita. Questo lo porta, potremmo dire, a entrare nel labirinto con passo di danza. Dobbiamo ricordare che il primo schema, la prima immagine del labirinto è la trasposizione spaziale di una grammatica del ritmo, segni sul terreno che incanalano i passi di danza. Solo in seguito è diventato mura, costrizione, prigione, è diventato Minotauro Credo che in fondo la psicoanalisi di Lacan ci mostri questo: la serietà nel rapporto con la parola, e al tempo stesso la leggerezza che la parola ci consente rispetto alla vita, proprio perché la vita è seria, ma non necessariamente deve essere malinconica, saturnia, pesante.
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