La politica contemporanea ci ha abituato all’esistenza di due forme di potere: il softpower e l’hardpower. Entrambe vengono esercitate da quella che è ancora la potenza dominante nella configurazione attuale del mondo: gli Stati Uniti. Riconosciamo più chiaramente lo hardpower nell’America dell’epoca di Bush, come ciò che risolve le situazioni attraverso la forza, l’invasione, l’esportazione della democrazia con le armi, armi intelligenti naturalmente, se mai le armi potessero essere intelligenti. I bombardamenti sulle città avvengono infatti con delle smart bullets, ovvero missili puntati su precisi e delimitati obiettivi di interesse militare, anche se abbiamo visto che la mira delle smart bullets non è poi tanto buona, perché i danni collaterali sono sempre piuttosto ingenti. Lo hardpower persegue comunque soluzioni tramite la forza, quella che agli eserciti moderni è fornita in modo preponderante dalla tecnica e dalla scienza.
Lo softpower è invece più riconoscibile nell’America di oggi, retta da Obama, che si è impegnato in una estenuante trattativa con l’Iran per contenere i rischi di proliferazione nucleare, offrendo come contropartita la revoca delle sanzioni in corso contro quel paese. Il softpower non passa attraverso la forza delle armi ma segue la via della trattativa, con tutti i modi alternativi di fare pressione sulla controparte che impegnano da sempre le diplomazie e che i negoziatori ben conoscono. Il softpower è un potere che passa attraverso la parola, che mette certamente in gioco una forza, ma non quella militare, non quella delle tecnoscienze. Il potere in quanto tale è in fondo una declinazione di quel che siamo soliti chiamare efficacia. Di solito definiamo efficacia una certa capacità di produrre risultati, e questi vengono valutati mettendo in risalto la migliore procedura per realizzare un particolare effetto o prodotto. Quando ci spostiamo nel campo delle relazioni umane, se vi trasferiamo pari pari i criteri di valutazione adottati nel campo della produzione, ci troviamo però di fronte a conseguenze distorte, basti pensare per esempio al campo dell’insegnamento. Questo riguarda anche l’efficacia nel campo delle psicoterapie. Nell’epoca della valutazione generalizzata tutto viene passato al vaglio, tutto passa sotto le forche caudine della valutazione, e anche le psicoterapie, nel momento in cui le burocrazie chiedono dei risultati, vengono investite del dovere di mostrare la bontà dei loro prodotti secondo i soli criteri che le burocrazie considerano leggibili, quelli della quantificazione. Il potere vuole funzionalità, e le burocrazie chiedono un’efficacia oggettivatile in risultati che si possano includere in qualche statistica. Come sappiamo, c’è uno scritto di Lacan sulla direzione della cura e sui principi del suo potere. In questo testo il potere è concepito come una declinazione dell’efficacia. Nella situazione attuale delle psicoterapie possiamo fare una divisione a grandi linee: ci sono le forme di psicoterapia mimetiche della scienza, quelle che vogliono importare e utilizzare gli strumenti della scienza e della tecnica in un campo improprio. Sono le forme di psicoterapia che utilizzano la farmacologia, che per un verso quindi si alleano con la psichiatria, o che utilizzano forme di intervento costrittivo o correttivo, come negli orientamenti comportamentisti e cognitivisti. Non è un caso, per esempio, che anche nella farmacologia si parli di smart bullet, di pallottole intelligenti, per definire certi tipi di farmaci supposti colpire una determinata molecola e solo quella, molecola che si considera responsabile delle malattie in questione. Che questa smart bullet sia così intelligente in realtà è una cosa che non si è mai dimostrata, e non solo gli effetti collaterali sono in genere pesanti, ma la causalità biologica rimane comunque un’ipotesi senza prove empiriche sufficienti a suffragarla. Nell’altra area, nell’altra grande ripartizione delle psicoterapie, ci sono quelle che lavorano sull’aspetto relazionale, sulla parola, e tra queste la psicanalisi è evidentemente regina. Nel mondo contemporaneo l’ideologia dominante induce a credere nella soluzione immediata, rapida, quella che si ottiene con la forza della procedura o della chimica, quella che passa attraverso la ricetta da applicare. Per questo nella maggioranza delle istituzioni psicoterapeutiche le forme di intervento adottate sono quelle più legate al cognitivismo e al comportamentismo, o a interventi farmacologici, e molto meno quelle invece dove si applicano i principi della psicanalisi. I curatori di questo libro hanno invece fatto una coraggiosa esperienza – che a suo tempo è stata pilota – di lavoro con la psicoanalisi in istituzione. Non c’erano molte esperienze che adottassero i principi della psicanalisi in una istituzione per disturbi alimentari. Domenico Cosenza e Laura Ciccolini hanno fatto invece la scommessa di partire dalla psicanalisi per trattare pazienti che in realtà non avevano una domanda, ed è una scommessa risultata vincente. Il libro che presentiamo questa sera esce nel momento in cui l’esperienza della comunità La Vela, dove hanno lavorato, è terminata. Si è trattato però di un momento importante, fondamentale, di cui i curatori hanno fatto tesoro e che hanno saputo trasferire nei nuovi contesti che stanno ora aprendo. In questo libro vediamo al lavoro una psicanalisi che non segue l’immagine classica della poltrona e del divano, che non si basa sull’associazione libera, sulla domanda, sull’interpretazione. Ci mostra un modo di operare sull'inconscio in una situazione in cui troviamo soggetti che non presentano una domanda. Si tratta in genere di giovani anoressiche, che vengono spinte dai genitori a curarsi, e la domanda nasce dai genitori. La domanda genitoriale in genere è di sistemare le cose con la figlia, di mettere a posto quel che non va. In un certo senso è la richiesta della smart bullet, di un intervento tecnologico realizzato da esperti che trovino la soluzione di un problema. Il libro descrive invece meticolosamente interventi animati dai concetti psicanalitici, e ci mostra come non ci sia nessuna controindicazione a esercitare la psicoanalisi in istituzione quando si sanno trovare le le invenzioni necessarie, quando si considera di avere a che fare con dei soggetti, e non con dei portatori di malattia, non con degli oggetti di un possibile condizionamento, né con recettori passivi da inserire in un percorso tecnico formalizzato in un numero di passi. Il limite infatti di tutte queste procedure passivizzanti è che si suppone debbano portare alla soluzione del problema come se questa fosse già data nella sua presentazione del problema stesso. Se prendiamo la prospettiva psicoanalitica non si tratta infatti semplicemente di cancellare il sintomo. Nella psicanalisi non abbiamo l’idea che il sintomo sia semplicemente una disfunzione, ma piuttosto un’invenzione. Si tratta certo di un’invenzione economicamente svantaggiosa, che al soggetto procura sofferenza, e si tratta di trovarne invece la piega favorevole. È ciò in cui si impegnano gli operatori e i terapeuti che hanno lavorato in questa istituzione. Hanno adottato i principi della psicanalisi al di fuori del setting considerato classico. Non è infatti il setting che ci interessa nella psicoanalisi, né le formule esterne che si adottano abitualmente per definirla, ma i suoi principi, e nel corso del libro gli autori ci mostrano l’operatività di questi principi nell’intervento con il soggetto, ci mostrano il modo di lavorare che non fa leva tanto sull’interpretazione, ma su delle forme di godimento che occorre far recedere, che occorre temperare, con il lavoro insieme ai genitori in vari contesti e nel lavoro di equipe. Direi quindi che se era un’esperienza pilota quando è cominciata, rimane un’esperienza che continua a essere innovativa, e che si fonda sull’invenzione continua, perché nelle terapie softpower, nelle forme di terapia la cui efficacia non si basa sulle promesse della tecnologia, abbiamo la necessità di inventare mano a mano soluzioni particolari. Questo libro è la preziosa testimonianza delle invenzioni continue e necessarie in un lavoro impegnativo, con pazienti difficili che sarebbe impossibile trattare in uno studio privato, e dove l’istituzione non è un mero contenitore ma si trasforma in uno degli strumenti e degli elementi che entrano in gioco nella modalità terapeutica con cui questi pazienti vengono trattati. È l’istituzione a essere quindi reinventata e riassorbita dalla prospettiva psicoanalitica, anziché la psicoanalisi essere annullata dall’istituzione, e questo traccia linee di lavoro che sicuramente ci accompagneranno a lungo nei prossimi anni. L. Ciccolini, D. Cosenza (a cura di) “Il trattamento dei disturbi alimentari in contesti istituzionali”, Franco Angeli, Milano 2015 Trascrizione di Francesca Ferrarini
1 Comment
giuseppe
5/5/2015 07:31:46 am
Prospettiva d'intervento davvero interessante. Concepire il sintomo come una creativa alternativa "vantaggiosa" per il soggetto, anche se negativa. Direi però che questa modalità d'intervento non è solo appannaggio della psicoanalisi ma anche di altri approcci come ad esempio l'Analisi Transazionale con il concetto di Copione e di Comunicazione Ulteriore.
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