Intervento alla tavola rotonda che ha avuto luogo il 12 aprile 2017 a Milano presso la Casa della Psicologia in occasione della presentazione del libro di Laura Pigozzi "Mio figlio mi adora", Edizioni Nottetempo. Hanno partecipato: Anna Barracco, Marisa Fiumanò, Marco Focchi, Fabio Galimberti, Laura Pigozzi, Angelo Villa, Giovanna Zoboli di Marco Focchi Credo che qualsiasi discorso oggi riguardante la femminilità, in una qualunque delle sue sfaccettature, debba avere sullo sfondo l’esperienza storica del femminismo. Eric Hobsbawm, lo storico del Secolo breve, ha sostenuto che di tutte le rivoluzioni del Novecento quella femminile è stata l’unica che ha avuto successo, e che non ha mietuto vittime. E si tratta in effetti di una straordinaria rivoluzione che ha completamente trasformato i ruoli in cui storicamente si identificavano gli uomini e le donne. La rivoluzione femminista comincia, nel Novecento, con le suffragette, le donne che rivendicano il diritto di voto, che chiedono di avere voce in capitolo nel meccanismo di formazione delle decisioni nella comunità, che vogliono contare nel sociale, nello spazio pubblico, e non più solo in casa. È però nel secondo dopoguerra che escono i testi dove la questione femminile viene teorizzata e radicalizzata. Il primo libro di grande successo sull’argomento viene pubblicato all’inizio degli anni Sessanta, ed è un lavoro che smonta l’immagine della donna costruita in America negli anni Cinquanta, dove si rappresenta la realizzazione femminile nella dedizione alla casa, ai figli, alla cucina. Il tentativo da parte delle donne americane di adeguarsi a questa immagine facendosene un modo di vita, ha portato sui divani degli psicoanalisti dell’epoca la prima ondata di nevrotiche, donne che da un lato non riuscivano a uscire da questo copione disegnato sopra le loro teste, e dall’altro si sentivano soffocare nel ruolo esiguo in cui erano costrette. Il libro è quello di Betty Friedan La mistica della femminilità. La Friedan, in breve, dice: “Credete di sapere cos’è una donna, pensate sia una creatura che adora la casa, i bambini, che non si interessa molto alla lettura, se non al massimo di romanzi rosa e di giornali sulla moda, e che accoglie il marito con una buona cenetta e un sorriso sulle labbra quando lui torna dal lavoro. Ebbene, non è così, una donna non esaurisce i propri desideri e le proprie ambizioni in questo esiguo cerchio di attività.”
Per far nostra la lezione della Friedan dobbiamo pensare allora che una donna sia qualcos’altro? Dobbiamo considerare che siano altri i predicati che la definiscono, predicati diversi da: casa, cucina, figli? Dobbiamo forse formulare una definizione migliore e più comprensiva di cos’è una donna? Sappiamo la risposta di Lacan a questa domanda: “No, non ci sono predicati a partire dai quali sia possibile ricostruire la categoria della donna in modo migliore e più appropriato di quelli della mistica della femminilità, perché in realtà il femminile è qualcosa di radicalmente diverso, che non cade sotto la definizione di nessun predicato”. Il femminile sfugge al predicabile, e non c’è concetto che possa circoscriverlo. Se la mistica della femminilità era un cerchio troppo stretto perché una donna potesse starvici, non ne esiste uno più largo, o sufficientemente largo da includerla, perché la femminilità implica un godimento radicalmente altro rispetto al predicabile: non c’è un universale al femminile, non c’è un concetto adeguato per dire cos’è una donna e di cosa gode. Per questo Lacan, per darne un’idea, ricorre alle mistiche. Ma le mistiche di Lacan non sono certo la mistica della femminilità dell’America negli anni Cinquanta. Il concetto di plusmaterno che Laura Pigozzi propone nel suo ultimo libro, Mio figlio mi adora, lancia però un segnale d’allarme che illumina una direzione regressiva comparsa nell’epoca attuale rispetto al modo in cui una donna può definirsi. Il plusmaterno indica infatti la ricostruzione di un universale al femminile sotto l’insegna di un totalitarismo dell’amore, che diventa assorbente, simbiotico, incapsulante. L’ho trovato un concetto chiave, ben formulato, articolato in diverse direzioni e particolarmente esplicativo di una realtà che oggi vediamo affermarsi sotto i nostri occhi, relativa a una traboccante potenza del materno, spesso assecondata dalla legge quando si tratta di separazioni o famiglie ricostruite, e alla quale non è posto nessun argine. Il plusmaterno appare oggi come il vero e proprio contraltare del patriarcato. Nel momento in cui il patriarcato, almeno in Occidente, è in declino, vediamo sorgere un’altra potenza che occupa il vuoto di potere lasciato. Il patriarcato nella nostra cultura è solo il residuo di un passato con alcuni rigurgiti di machismo per un verso, e per altro verso con una difficoltà da parte di molti giovani che vediamo, nell’esperienza d’analisi, disorientati e senza punti di riferimento, nell’assumere una posizione maschile di cui sono sfumate le coordinate. Il contraltare del patriarcato in effetti non è il matriarcato, concetto molto più debole e limitato, che si basa su un’idea evolutiva e si riferisce a un’epoca arcaica che precede l’agricoltura e la stanzialità, e che è inoltre un’ipotesi controversa tra gli studiosi e dubbia nella sua formulazione. Il plusmaterno è invece assolutamente concreto, lo vediamo sotto i nostri occhi, ed è la ricostruzione del femminile nel lato su cui si afferma neutralizzandosi sul piano erotico rispetto alla differenza sessuale, rispetto a un uomo, e investendo la libido totalmente sui figli. Nel film di Anne Fontaine Perfect Mothers, che Laura cita nel suo libro, Lil e Roz, le due protagoniste guardano i figli, due giovani belli, muscolosi e atletici, mentre fanno surf tra le onde oceaniche della costa australiana, e non possono trattenersi dal dire: “Guarda che meraviglia! Sembrano degli dei! Ma li abbiamo fatti noi? Eh sì, dobbiamo proprio averli fatti noi!” C’è in questa quasi stupita ammirazione un rispecchiamento narcisistico, ma c’è soprattutto un prolungamento libidico che serra nei propri tentacoli l’oggetto erotico come estensione del proprio corpo, c’è un’amore che assorbe il proprio oggetto, che lo annulla nel proprio sé. Credo sia necessario indicare dove passa la differenza qualificante tra il concetto di matriarcato di Bachofen e quello di plusmaterno. Possiamo considerare a questo proposito che il matriarcato implica lo stabilirsi di un’autorità declinata al femminile, che ha sullo sfondo la figura di una spiritualità femminile primitiva, come la Dea Madre, la Magna Mater, Cibele, Era, Demetra. Nel plusmaterno non c’è invece nessuno sfondo spirituale o autoritativo, c’è semplicemente l’espansione di un potere che si fa pervasivo nella vita dell’altro fino ad annullarne l’alterità, risucchiandola e fagocitandola nelle proprie spire erotiche. Il potere patriarcale, che si fondava sulla forza, sulla guerra e sulla possibilità di escludere, aveva bisogno di un’autorità sullo sfondo che lo sostenesse. Il potere del plusmaterno è invece un potere puro, nudo, che si fonda sull’inclusione, sull’assorbimento annichilente, ed è a maggior ragione pericoloso perché non lo si può fronteggiare, non ci si può mettere di fronte e opporvisi, non ci si può misurare con esso nella lotta. L’unica possibilità è sottrarsi. La clinica ci offre un grande repertorio di ricordi di copertura – che sono ricordi veri, ma che chiamiamo di copertura perché sono paradigmatici – di un figlio o di una figlia nel momento in cui si sottraggono alla presa tentacolare del plusmaterno. Si tratta di solito di un momento di separazione siglato per esempio da una porta che chiude fuori la madre che insegue per tutta la casa il figlio con le sue litanie e le sue prediche, da una fuga in macchina pagata a volte con il senso di colpa, da una chiave che protegge l’accesso all’intimità dei propri pensieri, chiudendo un cassetto che contiene la propria corrispondenza altrimenti violata. L’interessante, in questi ricordi, è che la separazione avviene per iniziativa del soggetto. Non occorre un’autorità esterna che si interponga tra l’onnipotenza della madre e il figlio o la figlia. La funzione separatrice nasce in seno al soggetto stesso, che utilizza quel che può, quel che ha a disposizione, e una porta, un’auto, una chiave, valgono altrettanto bene quanto il Nome del Padre. Non è necessario tornare alle funzioni patriarcali per salvarsi dal plusmaterno, occorre solo esercitare la propria inventiva, trovare la propria via, cedere qualcosa. Con un padre c’è un confronto, c’è un torneo in cui è possibile mettere alla prova le proprie armi. È come nel film Scaramouche, dove il personaggio di André Moreau, giovane e inesperto, viene facilmente sottomesso e disarmato dal marchese De Maynes, abile spadaccino. Dopo essersi però a lungo esercitato nella scherma, sarà André, in un nuovo duello, a mettere De Maynes con le spalle al muro, senza ucciderlo, scoprendo solo più tardi che è il suo vero padre. Con un padre c’è un movimento d’inversione tra sopra e sotto, e non solo nel duello: la stessa logica d’inversione di vede nel sostegno, quando Enea porta sulle spalle Anchise lasciando Troia in fiamme, o quando Pinocchio fugge dallo squalo con Geppetto a cavalcioni. Con il plusmaterno non c’è partita, non c’è possibile rovesciamento della relazione, non c’è divoramento della madre divorante, c’è solo una mossa, ed è quella sottrattiva. D’altra parte già lo insegnava Napoleone che con le donne, o almeno con un certo tipo di donne, l’unica vittoria possibile è la fuga.
1 Comment
23/4/2017 10:34:43 am
Auguro ad ogni autore di sentirsi letti con tanta profondità e intelligenza. Grazie Marco Focchi
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