Conferenza tenuta a Napoli il 18 aprile 2015 presso l'Istituto Esculapio di Marco Focchi Ringrazio gli amici di Napoli per l’invito di oggi, che si rinnova e che ci porta a incontri annuali, e grazie agli amici di Macerata di essere presenti oggi. È un piacere ritrovarsi in questo contesto per discutere le cose che ci interessano, per discutere sulla psicoanalisi, e bisogna in effetti essere capaci di creare gli spazi perché questo possa avvenire. Il tema di oggi è “L’inconscio”, su cui stiamo lavorando a Milano in prospettiva del prossimo Congresso dell’AMP a Rio nel 2016, che avrà come titolo “L’inconscio e il corpo parlante”. Il corpo parlante è una traduzione del neologismo di Lacan parlêtre, che traduciamo comunemente come parlessere. Dire “corpo parlante” significa presentare una particolare lettura dell’inconscio che si riferisce all’ultimo insegnamento di Lacan. Se prendessimo infatti un riferimento al Lacan strutturalista degli anni ’50 e fino agli anni ’60, diremmo piuttosto “Il corpo parlato”. L’idea di fondo, sostanzialmente freudiana, era che il linguaggio avesse delle ricadute sul corpo, si esprimesse attraverso il corpo. È un’idea fatta propria dalle diverse correnti della psicosomatica: si considera che il corpo sia parlato ed esprima quel che il linguaggio non dice. Il soggetto non riesce a dar voce a certe emozioni, e queste ricadono sul corpo, che diventa la lavagna su cui si scrive quel che non si può dire diversamente.
C’è quindi un rovesciamento, nell’ultimo insegnamento di Lacan, dal corpo parlato al corpo parlante, e questo ci fa capire in che modo il corpo sia il soggetto, o meglio in che modo l’idea di corpo parlante prenda il posto di quello che il soggetto era nel Lacan degli anni strutturalisti. Prima però di entrare in questo argomento vorrei dire qualcosa sul tema generale che avete scelto per questo ciclo di conversazioni, che accosta la società e la psicoanalisi. Mi sembra infatti un’articolazione importante: l’inconscio, la psicoanalisi, il lavoro clinico che facciamo corrispondono a uno stato, una situazione, una configurazione sociale. Occorre sottolineare quest’articolazione perché ci fa percepire chiaramente come la psicoanalisi non sia un’essenza immobile, come non sia una teoria definita una volta per tutte di cui noi saremmo i custodi che la preservano in uno scrigno, in una posizione extraterritoriale rispetto a tutte le altre dimensioni del sapere, della cultura, del pensiero e dei discorsi che si sviluppano nel mondo di oggi. La psicoanalisi interagisce continuamente con l’evoluzione sociale, l’inconscio si riconfigura rispetto alle forme del discorso sociale. Lo vediamo per esempio, nelle sue espressioni radicali, nei passaggi all’atto psicotici. Ne abbiamo visto uno recentemente al Palazzo di Giustizia di Milano, dove una persona riesce ad entrare nel Tribunale e a uccidere un giudice, un avvocato, e altre persone ancora. Di un altro abbiamo letto nei giornali. Mi riferisco del pilota tedesco della Germanwings che fa precipitare l’aereo sulle Alpi francesi. Di altri ancora leggiamo di tanto in tanto nei giornali americani, quando si verificano stragi indiscriminate in cui qualcuno si mette a sparare in una scuola e poi finisce per suicidarsi. Tutti questi passaggi all’atto psicotici finiscono come suicidio, e se non finiscono così è perché la persona viene bloccata prima, o perché l’arma s’inceppa. Notiamo però le differenti modalità d’attuazione che rispecchiano le peculiarità delle strutture, delle configurazioni sociali n cui avvengono. Negli Stati Uniti questi passaggi all’atto si manifestano generalmente come strage indiscriminata: uno va in una scuola e spara a chiunque gli si pari davanti. La stessa forma ha assunto in Norvegia il passaggio all’atto di Breivik. Con il pilota tedesco è stato diverso. C’è una particolare meticolosità nel modo in cui Lubitz ha progettato questo passaggio all’atto, facendo diverse prove di picchiata nel percorso di andata per attendere poi, nel ritorno, il momento in cui il primo pilota esce dalla cabina per chiudervisi. C’è una progettazione, una studiosa premeditazione. In Italia invece vediamo che di solito le stragi non sono indiscriminate ma mirate a persone precise, e avvengono spesso in famiglia o, come nel caso recente di Milano, su persone che il soggetto considerava di dover punire. Non si si è mai verificata in Italia, a mia memoria, una strage indiscriminata, a parte quelle politiche, che sono altra cosa. I passaggi all’atto psicotici risentono quindi della struttura sociale e la riflettono nella forma che assumono. È importante quindi considerare il modo in cui la psicoanalisi risponde a determinati impulsi che vengono dal sociale. Come si configura oggi il sociale? Credo abbracci in modo stringente una precisa un’ideologia. I giornali negli ultimi anni, hanno parlato della nostra come di un’epoca senza ideologie. Dopo la Guerra Fredda, con la fine dell’ordine bipolare del mondo, si riteneva di vivere in una società ormai libera dalle visioni preconcette, dove i vecchi steccati erano superati. In realtà, se andiamo a ben guardare, la società contemporanea è dominata da un’ideologia ancora più serrata, che non è più di colore partitico come quelle che dominavano la scena fino ad alcuni anni fa, ma che ha comunque forti implicazioni politiche. Questa ideologia, su cui sono tornato in diverse occasioni, è lo scientismo, cioè dell’applicazione della scienza in campi al di là della sua specifica pertinenza. La scienza è una grande risorsa del pensiero umano. Anche la tecnologia è la benvenuta, quanto più ne abbiamo tanto meglio è. Abbiamo abbiamo internet, abbiamo gli iPad, abbiamo una quantità di dispositivi che ci facilitano la vita, e questo lo dobbiamo alla scienza e alla tecnica. Quando però la scienza esce dai propri limiti per applicarsi al mondo delle relazioni e non agli oggetti, allora diventa ideologia, ed è questo che chiamiamo scientismo. Troviamo un esempio eminente di tale ideologia in un libro di qualche anno fa che dà uno spaccato preciso di questo tipo di pensiero. È stato scritto da due studiosi, Alan Sokal e Jean Bricmont, un americano e un belga, ed è stato tradotto in italiano con il titolo “Imposture intellettuali”. Il libro è uscito nel ’97, ma rispecchia ancora bene il modo di pensare attuale. Sokal e Bricmont prendono in esame alcuni dei più illustri filosofi ed esponenti della cultura francese, tra cui Lacan, Deleuze, Julia Kristeva, Alan Badiou, Bruno Latour e molti altri, ed esaminano in modo minuzioso alcuni enunciati scientifici o matematici che questi pensatori usano pur senza appartenere al campo di studi della scienza e non avendo una specifica formazione scientifica. Si tratta, come ho detto, di filosofi, di psicoanalisti, di sociologi, che nella creazione dei loro concetti si avvalgono di determinati strumenti matematici. È un procedimento che in Lacan troviamo molto spesso. Lacan parla di topologia, parla di teoria degli insiemi, parla di grafi, costruisce schemi logici. Qual è l’obiezione sollevata dia due studiosi? Innanzitutto prendono di mira l’imprecisione e la superficialità, ma queste sono, secondo me, obiezioni secondarie. Possono esserci imprecisioni, ma non è questo il problema. Anche gli scienziati quando parlano di filosofia sono imprecisi, ma questi sconfinamenti di campo tra le discipline sono previsti e fanno parte della logica degli scambi nel pensiero. C’è, trovo, un’obiezione di fondo più interessante sollevata da Sokal e Bricmont, che riguarda il modo di utilizzo della matematica o dello strumento scientifico in un campo che non è quello delle scienze esatte: fisica, chimica, biologia. L’obiezione è che gli argomenti matematici, le formule, le strutture, sono impiegate senza avere una base empirica, in contesti dove non hanno nessun senso. Non aver senso significa in questo caso non aver nessun referente. Questa è un’obiezione più interessante, su cui possiamo riflettere, e il libro inizia proprio con una severa messa sotto esame di alcuni testi di Lacan, in particolare quelli dove si riferisce alla topologia. Cosa significa che le matematiche qui utilizzate non hanno nessuna base empirica e che quindi non hanno senso? Come dicevo significa che non hanno nessun rimando referenziale, non si applicano a una realtà oggettiva. Per i due studiosi l’assenza di referente empirico oggettivo implica che sia insensato procedere con strutture matematiche. Se la matematica non si riferisce ad alcune realtà localizzate del mondo diventa, per Sokal e Bricmont, un esercizio vacuo. Come viene utilizzata in effetti la matematica nella scienza? In modo, per l’appunto, referenziale. Le formule che, per esempio, costituiscono le leggi della fisica, descrivono precise traiettorie o interazioni di corpi nella realtà. Le formule di Newton permettono di desumere i moti dei pianeti dovuti all’attrazione gravitazionale. Le formule matematiche che la fisica utilizza, servono per descrivere stati o movimenti dei corpi e della materia nello spazio e nel tempo. Lo spazio quadridimensionale di Einstein per esempio si fonda sul concetto di molteplicità di Riemann. La scienza usa quindi la matematica per definire traiettorie e corpi nel piano del riferimento. Tutto ciò che la scienza esprime in formule ha un riferimento nella realtà, e la potenza della scienza è dovuta proprio al fatto che, attraverso la matematica, può leggere la realtà in cui viviamo e trasformarla. Se siamo così pervasi dal pensiero scientifico è perché ha sviluppato una grande potenza e una tecnica in grado di trasformare la realtà in cui viviamo. Il problema e che questa potenza poi contagia tutto, domina tutto, e allora diventa ideologia. La scienza si trasforma in ideologia nel momento stesso in cui la scoperta che il ricercatore fa nel proprio laboratorio, esce dal laboratorio e diventa notizia. Proprio questa mattina, per esempio, facendo colazione leggevo sui giornali che nella Ruhr-Universität di Bochum un gruppo di ricercatori finalmente corrobora dandogli validità scientifica – che vuol dire certezza inoppugnabile – l’idea che da ragazzi leggevamo nei giornali da barbiere dell’esistenza di uno speciale profumo per attrarre l’attenzione femminile. Si tratta della scoperta dell’hedione, una sostanza il cui nome deriva dal termine greco hedoné, piacere. La sostanza è un’essenza assoluta di gelsomino contenuta in alcuni profumi commercializzati, facilmente reperibili sul mercato, che sollecita nell’ipotalamo, ovvero nella parte più primitiva del cervello, la produzione di feromoni. Il fatto puro e semplice consiste dunque nella scoperta di un gruppo di ricercatori in Germania che una sostanza prodotta artificialmente sollecita nel cervello una determinata reazione dell’ipotalamo. Com’è tradotta la notizia in termini giornalistici? Abbiamo scoperto la sostanza della seduzione. I feromoni sono sostanze biochimiche che innescano specifici comportamenti, in questo caso erotici. L’hedione risveglia infatti le attività correlate al piacere. Bisogna poi sapere che l’hedione si trova in alcuni profumi tra i più commercializzati, e i giornali citavano in particolare con grande risalto l’Eau Sauvage, profumo usato da Steve McQueen. Emblema di una maschilità sexy e aggressiva, l’attore è associato con la potenza dei motori, con le le moto, le auto che nelle scene pericolose guidava lui stesso facendo a meno di controfigure. Steve McQueen è l’icona ideale per attrarre sia il desiderio femminile sia l’identificazione maschile. Vien persino troppo facile pensare che il prof. Hans Hatt, coordinatore del gruppo di ricerca di Bochum, si sia messo d’accordo con le maestranze della Dior, casa produttrice dell’Eau Sauvage per un lancio pubblicitario internazionale, ma non è questo l’interessante. Dando tutto il credito di buona fede al prof. Hatt, quel che ci trasmette, con la mediazione interpretativa dei giornali, è che abbiamo scoperto la sostanza attraverso cui possiamo automaticamente innescare la seduzione. Posta in questi termini è evidentemente un’affermazione che appartiene ai giornalisti, e non possiamo imputare al gruppo di ricercatori di Bochum i termini in cui le loro ricerche vengono divulgate. Il punto saliente è però proprio nella concatenazione tra ricerca e divulgazione, che mostra come certe frasi, certi segmenti di ricerca scientifica diventino notizia e come, filtrati attraverso i giornali, diventino opinione, si trasformino in credenza sociale. Che cosa diventa credenza? Lo diventa ciò che si appoggia sulle certezze della scienza. L’idea subliminare che praticamente ci viene trasmessa con questa notizia, data dal Daily Telegraph e ripresa su tutti i giornali internazionali, è che l’uomo è una sorta di robot le cui attività si possono innescare o disinnescare con dei segnali chimici, e che c’è un funzionamento robotico nell’umano. La conclusione, che costituisce anche la premessa necessaria perché il comportamento umano rientri nel dominio scientifico, è che l’umano è una sorta di oggetto funzionante in modo inerziale, come per l’appunto gli oggetti di cui si occupa la scienza. Questo è il grande travisamento del campo della soggettività. La scienza, da Galilei in poi, si occupa degli oggetti inerti, e il principio fondamentale con cui inizia la scienza, il principio formulato da Galilei, è il principio di inerzia. Un corpo sta dove lo si è messo. Se un corpo è in situazione di stasi resta fermo finché non viene colpito da un altro corpo che lo mette in movimento. Se un corpo si sta muovendo rispetto a un sistema di riferimento, continuerà a muoversi finché non trova qualcosa che lo arresti, o finché l’attrito non lo freni, questo è il principio d’inerzia. Qual è allora il problema di trasferire tutto questo nel campo della soggettività, nel campo dell’umano? Che l’umano si muove spontaneamente, di propria volontà, che non funziona in base al principio di inerzia. Trattare l’umano con i concetti appartenenti al campo scientifico implica una potente scelta ideologia, e richiede di assumere che l’umano funzioni in modo inerziale. Devo considerare allora che se mi innamoro di Giulietta o di Isotta, non è perché qualcosa mi ha sedotto in quel che lei dice, o per come si muove, o perché trovo qualcosa di speciale nel suo carattere, o perché mi attraggono le sue fattezze, ma è perché si innesca il feromone e le sue molecole cominciano ad agire su di me. La riduzione dell’uomo a funzionamento bio-robotico è la grande seduzione della ricerca attuale. Tutta la ricerca delle neuroscienze, di per sé utilissima, viene spesso declinata nel senso di cercare i meccanismi, i circuiti del cervello che provocano determinati comportamenti. È un salto epistemologico inconcepibile. Non dico che lo facciano gli scienziati, o almeno non sempre, ma la deriva verso questa conseguenza perversa parte dalla concatenazione tra la scienza e la notizia dei suoi ritrovati, tra la scoperta scientifica e la sua divulgazione. Il libro di cui vi stavo parlando, “Imposture intellettuali” – e le imposture sarebbero quelle dei grandi pensatori che vi ho menzionato – termina con un capitolo che, curiosamente, è stato tolto nell’edizione inglese, sulla grande disputa che ha avuto luogo negli anni Venti tra Einstein e Bergson. Einstein espone la teoria della relatività, che ha conseguenze fortemente controintuitive rispetto al nostro modo abituale di pensare. Una di queste è che non esiste la simultaneità: eventi che possono sembrare simultanei in un sistema di riferimento, non lo sono in un altro sistema di riferimento che si muove rispetto al precedente. Bergson non è d’accordo su questo punto. Viene organizzato un dibattito pubblico durante il quale i due pensatori mettono a confronto i loro argomenti. Bergson è il filosofo il cui pensiero consiste nel sostanzializzare il tempo in una durata. La sua idea è che il tempo non sia una serie di istanti, comparabili a dei punti sulla retta, ma qualcosa che dura, e ogni durata è specifica. Il tempo di un volo d’uccello è scandito dal battito dell’ala, non dall’orologio dell’osservatore. Il tempo del passo di Achille è dato dai suoi piedi veloci, e non è commensurabile con il passo della tartaruga come nel famoso paradosso di Zenone. I tempi e le durate sono diversi, il che vuol dire che il tempo è qualcosa di sostanziale. Questo contrasta completamente con la teoria di Einstein, dove il tempo risulta semplicemente essere la quarta dimensione dello spazio, senza alcuna sostanzialità, semplicemente un un insieme di istanti individuabili come punti su uno spazio geometrico. Einstein in quegli anni era una star. Nel 1922 era già diventato lo scienziato più famoso del mondo, era letteralmente idolatrato. Anche Bergson era una star della filosofia. Quando teneva una conferenza, in una sala dieci volte più grande di quella in cui ci troviamo oggi, il pubblico si scatenava in applausi al punto che una volta è uscito a dire: “Non sono mica una ballerina!”. Abbiamo quindi due grandi astri del pensiero a confronto in una straordinaria sfida di pensiero, e stando alla percezione degli osservatori dell’epoca la disputa era stata vinta da Einstein, il quale aveva dichiarato Bergson incompetente sulle questioni inerenti la sua teoria – affermazione, bisogna dire, di una certa arroganza se consideriamo che si tratta di uno dei filosofi più aggiornati della sua epoca in campo scientifico. In un certo senso Einstein non lo aveva considerato suo interlocutore, anche se il dibattito in realtà è proseguito poi ancora per anni. Bergson non ha più voluto ristampare il libro da cui è partito il dibattito, libro intitolato “Durata e simultaneità”. Non credo lo abbia deciso perché si sentisse sconfitto, non ha mai sentito il dibattito come una sconfitta. Semplicemente era un dibattito che non aveva ragion d’essere, perché investiva due campi concettuali costituiti a partire da premesse completamente diverse. La difesa di Bergson fatta da Deleuze è consistita nel dire che tanto Einstein quanto Bergson utilizzavano il concetto di molteplicità di Riemann, ma che Bergson aveva aperto questo concetto non solo alle molteplicità reali, ma anche a quelle virtuali. Non entriamo nel merito di questo dibattito e di questi termini. L’ho menzionato solo per la cronaca. Cosa vuol dire però? Che la scienza opera su un campo di riferimento, le molteplicità reali. Queste però non sono le sole cose che esistono, e nella psicoanalisi lo verifichiamo quotidianamente. Quando parliamo della verifica dei risultati della psicoanalisi, della verifica degli effetti della psicoanalisi, quando vogliamo mettere alla prova se la psicoanalisi funziona oppure no, dobbiamo domandarci innanzi tutto cosa vuol dire “produrre dei risultati”. Nell’esperimento scientifico sappiamo cosa vuol dire. Formuliamo la previsione di un certo esito, e questo si verifica oppure no. In un’esperienza psicoanalitica che cosa intendiamo invece per raggiungere un risultato? Potreste dire che si raggiunge un risultato quando il paziente guarisce, ma cosa vuol dire guarire in questo caso? È chiaro che per il paziente significa liberarsi del sintomo, liberarsi di qualcosa che gli impedisce di vivere. La particolare esperienza che si fa però in analisi è che il paziente viene e inizialmente vuole liberarsi del sintomo. Quando poi si entra nel merito delle questioni soggiacente alla domanda di guarigione, molte cose cominciano a bloccarsi. Appare allora che il paziente vuole liberarsi del sintomo, ma non di certe sue implicazioni, perché – l’esperienza freudiana ce lo mostra molto bene – il sintomo ha dei tornaconti. Il sintomo non è solo ciò che impedisce di vivere, è anche ciò che in una certa misura soddisfa la pulsione. Il paziente vuole quindi liberarsi del sintomo, ma non della fonte di soddisfacimento che vi è collegata. I due versanti, impedimento e soddisfacimento sono però inscindibili, non si possono tagliare, non si possono separare come il grano dal loglio. Occorre quindi non tanto liberarsi dal sintomo, ma procedere in un dettagliato percorso per far emergere le risorse implicite nel sintomo e metterle a frutto. Al mio libro “Il trucco per guarire” ho dato un sottotitolo che indica come la psicoanalisi sia una “terapia non soppressiva del sintomo”, perché non si tratta di eliminare il sintomo, ma di farlo lavorare in modo che non sia in contrasto con il soggetto. Quando parliamo di risultati della psicoanalisi, che cosa dobbiamo quindi aspettarci come risultati? Cosa dobbiamo prevedere? Non lo sappiamo assolutamente. Quando prendete una persona in analisi non sapete dove la condurrete, ed è molto meglio così, perché così potete consentirgli di ritrovare le sue possibilità, di sviluppare le potenzialità che non conosce in sé. Se volessimo condurre il paziente in una direzione che abbiamo in mente prima, lo metteremmo su un binario dove le cose sono già scritte, già segnate, gli costruiremmo un destino, ma non è questo che abbiamo ambizione di fare con la psicoanalisi. Piuttosto con la psicoanalisi liberiamo il soggetto dalle catene di una via forzata che gli appare come un destino. È anche il motivo per cui non c’è una psicoanalisi preventiva. Non c’è la previsione di dove vogliamo portare il soggetto. Costruiamo man mano un tracciato fatto di singolarità. Nel nostro campo abbiamo l’idea che la verifica della psicoanalisi avviene attraverso il dispositivo costruito da Lacan come “passe”. Si tratta di una testimonianza che il soggetto dà della propria analisi non davanti a dei giudici, ma davanti a dei pari, che riferiscono poi a una commissione, un cartello allo stato attuale dei fatti. Si tratta di una valutazione, è però il soggetto che parla della propria esperienza, che racconta il percorso che ha fatto, dove è potuto arrivare, le sorprese che ha incontrato, perché un’analisi non segue la via di realizzare una previsione, di svolgere un programma. Mette piuttosto di fronte a degli imprevisti, perché in fondo quel che chiede il soggetto all’inizio dell’analisi è di aggiustarsi all’ideale, vuole corrispondere all’ideale. Il problema è che sforzarsi di corrispondere all’ideale è proprio ciò che genera tutte le complicazioni prodotte dai sintomi. Finché tutto è commisurato all’ideale, i sintomi sono un impedimento. Questo è un po’ il paradosso della psicoanalisi: un soggetto viene a chiedervi di coincidere con l’ideale, e per aiutarlo dovete fargli prendere la strada contraria, quella di decostruire gli ideali in cui si trova costretto, che sono la fonte stessa della sua sofferenza. Allentare il controllo dell’ideale è il compito della psicoanalisi, non eliminare il sintomo. Il controllo è pienamente corrispondente all’ideologia contemporanea. Una delle definizioni della società contemporanea è società del controllo. Lo si può constatare molto facilmente, basta guardarsi intorno per vedere telecamere dappertutto. Quando si verifica un attentato, la ricostruzione dell’identikit dei sospetti si fa vagliando le migliaia di volti registrati dalle telecamere di sorveglianza. Le telecamere sono veramente onnipresenti. Ho trovato oggi un’applicazione che consente di collegarsi con telecamere sparse in tutto il mondo e permette di vedere quel che succede per esempio a San Francisco, o a Città del Capo. È un po’ come Google Earth, ma più intrusiva. La società del controllo è questo: tutti siamo sorvegliati, e al tempo stesso tutti vogliamo controllare ogni minimo passo della nostra vita. La scienza va in questo senso: siamo affezionati alle scoperte, alle possibilità che la scienza e la tecnologia ci offrono proprio perché la tecnologia esprime al massimo grado questa volontà di controllo. Il problema ideologico non viene dalla scienza in quanto tale, ma quando si pretende la scienza possa esaurire tutta la la realtà. La scienza governa molto bene il reale, attraverso gli apparati e i dispositivi. Ma che cosa vuol dire reale? Perché non possiamo considerare quel che per noi è reale nella psicoanalisi come lo stesso reale di cui si occupa la scienza? La risposta è che la psicoanalisi lavora su un piano diverso, che non è il piano di riferimento cui si rivolge la scienza, dove ogni formula corrisponde a degli oggetti, a dei movimenti o a delle traiettorie nella realtà. Per noi si tratta di moti che non corrispondono a formule, di oggetti che non hanno una formalizzazione nel simbolico. Avevo cercato di inquadrare il problema in uno dei miei libri, che si intitola “La mancanza e l’eccesso”. La mancanza e l’eccesso sono i due modi in cui si manifesta il reale nella nostra esperienza. L’esemplificazione migliore secondo me di cosa significano la mancanza e l’eccesso si trova in un libro che credo che dovrebbe essere obbligatorio in tutti gli istituti di psicoanalisi, “Il mago di Oz”. Non so se lo da bambini lo abbiate letto, ma siete ancora in tempo, e vale la pena, perché è straordinario. Avrete almeno visto il film con Judy Garland, sono sicuro. Dorothy, la protagonista, si trova risucchiata in un ciclone che la porta in un paese strano dove trova tre strani compagni di viaggio, che sono il leone, il taglialegna di latta e l’uomo di paglia. All’uomo di paglia manca il cervello, al leone manca il coraggio e all’uomo di latta manca il cuore. Quando però si trovano in situazioni critiche dove servono cervello, coraggio o cuore, ciascuno di questi personaggi dà il suo meglio con quel che non ha. L’uomo di latta, che non ha il cuore, si mostra il più generoso, il leone, che non ha il coraggio, si mostra il più coraggioso, e l’uomo di paglia, che non ha cervello, si mostra il più intelligente. Ciascuno risolve delle situazioni in cui tutti si trovano in panne proprio con ciò che non ha. La virtù del libro è mostrare come si fa qualcosa con ciò che manca, non con i mezzi che si hanno a disposizione, neppure con un bricolage, ma proprio con ciò che manca. Poi, su un altro piano, ci sono risorse che non si sa di avere, c’è qualcosa di più, in eccesso rispetto a quel che sappiamo, c’è qualcosa di troppo. Dorothy vede infatti a un certo punto che ciascuno dei suoi compagni di viaggio ha trovato la propria sistemazione nel paese di Oz, mentre lei vorrebbe tornare da dov’è venuta, ma non sa come fare. Il Mago di Oz non è un vero mago, e non può aiutarla. Qualcuno però le fa notare che sta calzando i sandali d’argento sottratti a una delle streghe incontrate nel suo viaggio. Questi sandali sono magici, e basta che fare un balzo per ritrovarsi dove si vuole, un po’ come gli stivali delle sette leghe. Dorothy allora spicca un balzo e si ritrova nella casa in cui era prima del ciclone. Cosa vediamo qui? Qualcosa che non si sa di avere diventa una risorsa, e questo dipinge perfettamente quel che succede nell’esperienza analitica, dove non si tratta solo di scoprire verità dimenticate, ma risorse, mezzi per agire, possibilità che non si potevano mettere frutto solo perché non si sapeva di averle. La cosa determinante non è il ricordo ritrovato, ma una possibilità che diventa attivabile quando si diradano le nebbie dell’ideale, quando si allentano gli impedimenti che prendono forma di inibizione. Si mettono allora all’attivo risorse che non si sapeva di avere. In generale quindi, nella nostra esperienza, non abbiamo a che fare con ciò che abbiamo di fronte; Lacan fa una differenza tra reale e realtà, che è utile, è didattica, ci aiuta a capire. La scienza, come vi dicevo, si occupa del piano di riferimento, lavora con gli oggetti della realtà, gli oggetti che abbiamo di fronte, che si possiamo rappresentare, anche se sono piccoli, microscopici, come gli elettroni, gli atomi, le onde, o le interazioni della meccanica quantistica. Sono comunque oggetti che cadono sotto un rimando referenziale, sono ob-iectum, ciò che è posto di fronte a noi. Il reale con cui ci troviamo ad avere a che fare nella nostra esperienza non è posto di fronte a noi, lo abbiamo piuttosto tra i piedi – a Lacan infatti piaceva dire: “Penso coi piedi” – lo abbiamo tra i piedi perché ci fa inciampare. Una delle definizioni che Lacan dava del reale è che lo si incontra quando si batte la testa contro i muri, quando si trova un ostacolo. Il reale è l’ostacolo, qualcosa con cui ci si scontra, contro cui si batte il naso. Questa formula, “Il reale è dove batto il naso, dove batto la fronte”, è molto espressiva. Se lo prendessimo alla lettera, diremmo: “Allora, che cos’è il reale? È un muro?” Evidentemente no, è un’immagine, perché possiamo farci rappresentazioni solo sul piano estensivo. Non è però semplicemente un’analogia. Diciamo che piuttosto è un’omologia, ci fa vedere un sistema di relazioni, ci dà un’immagine di qualcosa che non ha immagine. Mentre il reale scientifico può sempre entrare nel gioco delle rappresentazioni, qui abbiamo qualcosa che non entra nella rappresentazione. È un ostacolo che non è fuori di me, sono io stesso il mio ostacolo. Quando si vede un nevrotico, è chiaro, è la prima cosa che si vede che l’ostacolo del nevrotico è se stesso. Perché si parla di rettifica soggettiva nella psicoanalisi? Perché in effetti la prima cosa che incontriamo è che ciascuno è l’ostacolo di se stesso, ma questo ostacolo è proiettato fuori, e dà origine ai lamenti: “Mi impediscono di fare, mi perseguitano, c’è qualcuno che mi tormenta”. Quando si vede una coppia, per esempio, il più delle volte ciascuno dei due partner viene perché considera che l’altro sia da “aggiustare”. “Mi metta a posto mia moglie dottore per favore”, dice il marito. “No, è lui che è da mettere a posto” replica la moglie. Lo stesso accade con i figli: “Mi sistemi questo ragazzo che non ha la testa a posto!”. Il fatto è che non è così semplice, perché per fare un ragazzo che non ha la testa a posto ci vogliono dei genitori che riversano su di lui qualche problemino fuori posto. Viene spontaneo immaginare l’ostacolo fuori da sé, perché quello dentro è l’ostacolo che non vediamo. Inconscio vuol dire anche questo: non siamo consapevoli dell’ostacolo, non lo vediamo, non lo abbiamo davanti agli occhi, e per darci una ragione di quel che non va lo proiettiamo fuori. Ci sembra così che sia il mondo a non funzionare, e una prima parte del lavoro analitico consiste proprio nel portare alla rettifica soggettiva, perché il soggetto possa riconoscere che non è il mondo a essere contro di lui, ma che è lui a impedirsi di interagire nel mondo. Lo si vede bene per esempio nei sogni ripetitivi, che sono molto particolari, perché riconducono il soggetto a qualcosa di incompiuto, qualcosa che deve essere portato a termine, ma come un compito che non riesce mai ad arrivare fino in fondo. Il soggetto ritorna allora all’infinito sul compito che non riesce a esaurirsi, che non riesce a svolgersi. Questo tipo di sogni si disinnesca quando il soggetto è venuto a capo del problema espresso dal sogno. L’ostacolo, possiamo dire, si manifesta nella ripetizione. Perché c’è una ripetizione nevrotica? Perché il soggetto si ritrova incarnato nell’ostacolo che il sintomo costituisce per lui, e appare qui la dimensione di ripetizione nel sintomo, come un’insistenza. Si tratta allora di collocare bene le cose. Per tornare al libro di Sokal e Bricmont di cui parlavo prima, l’errore di prospettiva in cui incorrono questi studiosi nell’analizzare l’uso della matematica di Lacan, è di pretendere che sia referenziale. Dire che non ha nessun riscontro nell’esperienza o che non ha nessun senso, cioè nessun riferimento, significa credere che il solo uso legittimo della matematica sia referenziale. L’uso che Lacan fa della matematica – non consideriamo, per ora, gli altri filosofi presi di mira dai due autori, per ognuno di essi ci sarebbe un discorso da fare – l’uso che Lacan fa della matematica non è referenziale, è molto diverso. L’uso referenziale della matematica nella scienza la rende applicabile alla realtà, e la grande potenza della tecnologia che ne consegue, dipende dalla calcolabilità. Possiamo, attraverso il calcolo, gestire gli oggetti della nostra realtà. Il calcolo presenta sempre delle imprecisioni, non si adatta mai perfettamente al reale, ma la potenza di calcolo raggiunta coi mezzi elettronici dà una possibilità infinitamente maggiore di applicazione della tecnica. Nella costruzione delle macchine elementari – una leva è una macchina elementare – il calcolo è molto semplice, e la forza applicata sul braccio lungo, il braccio potenza, si moltiplica nel braccio corto, il braccio resistenza. Pensate invece alle macchine termiche, che sono alimentate da un carburante, le macchine a vapore, o i motori a scoppio, come le nostre automobili, che convertono l’energia primaria in lavoro meccanico: qui il calcolo è ingegneristico. Ci sono poi le macchine di terza generazione, quelle che gestiscono l’informazione, che aumentano enormemente la potenza di calcolo e quindi di intervento sulla realtà. La potenza della matematica, lo strumento matematico nel discorso scientifico, non sono relativi soltanto al fatto che, come diceva Galilei, la natura è un libro scritto in lingua matematica e che noi la decifriamo. Non si tratta solo di decifrazione, perché la potenza d’intervento passa attraverso il calcolo. Ebbene, l’uso della matematica che fa Lacan nella psicoanalisi non passa attraverso il calcolo. Prende per esempio la topologia, le matematiche qualitative. La topologia è quel ramo della matematica dove si dice che si può confondere un anello con una tazzina da caffè, perché dal punto di vista topologico hanno la stessa struttura: una tazzina da caffè ha infatti un solo buco, proprio come l’anello, e con le dovute trasformazioni sono lo stesso oggetto. La topologia è una matematica duttile, ed evidentemente c’è una grossa formalizzazione algebrica, che Lacan non usa. Sokal e Bricmont gli imputano di non entrare in questo tecnicismo. È una critica assolutamente vacua. Neanche i fisici usano tutta la tecnica matematica, ma quello che Sokal e Bricmont vietano, nella loro critica, è di estrarre un concetto dalla matematica per farne un uso che non sia applicativo. Ed è invece esattamente quel che fa Lacan. Potremmo dire che fa un uso sovversivo della matematica rispetto a come la usa il discorso scientifico, ma non per questo è un uso meno legittimo. Quando Lacan dice che la struttura della nevrosi è come la struttura del toro, cosa significa? Che un nevrotico è fatto come una ciambella? Evidentemente no, ma ci dà un’idea di determinate relazioni, ci fa capire intorno a cosa girano. Usa questa definizione per esempio per mostrare come la domanda si avviti intorno alla superficie del toro delineando il desiderio, e fa apparire come la ripetizione segni il tracciato del desiderio. Attraverso queste figure Lacan presenta una serie di relazioni. Capire l’articolazione tra domanda e desiderio è una delle cose fondamentali nella conduzione della cura. Quando Sokal e Bricmont si interrogano sulla base empirica per ironizzare dicendo che se un nevrotico è come un toro è fatto a ciambella, semplicemente immaginarizzano proprio quel che Lacan vuol sottrarre all’immaginario. Se pensiamo alla figura del toro per definire la nevrosi pensiamo alle relazioni che questo presenta, ed è questo l’uso della matematica che fa Lacan: evidenzia certe relazioni per mostrare, attraverso esse, qualcosa che non è rappresentabile. Come usiamo queste relazioni? Che funzione ha la matematica in questo diverso senso? Si tratta rendere percepibili relazioni che non hanno rappresentazione. Perché non hanno rappresentazione? Perché non riguardano oggetti che ci stanno di fronte, perché riguardano questioni in cui siamo implicati. Parlavo prima di potenzialità, e credo sia un termine ben scelto. Si tratta di passare dal piano di riferimento a quello virtuale, nel senso di Bergson, a cui una prospettiva limitata come quella di Sokal e Bricmont non ha nessun accesso. Prima parlavo della possibilità che si ha senza conoscerla e che si tratta di mettere all’attivo, come i sandali d’argento di Dorothy. Risvegliare le possibilità che non si sapeva di avere permette di inventare soluzioni inedite, e il sintomo diventa allora come i sandali di Dorothy, perché non è solo l’impedimento della nevrosi, ma il tramite dell’invenzione. La nevrosi appare allora semplicemente come un cortocircuito del sintomo che si avvita su se stesso, imprigionando il soggetto in un vicolo cieco che gli fa cercare disperatamente la via d’uscita. Per questo la psicoanalisi funziona al contrario di quel che il soggetto chiede, perché il vero problema non è uscire dal sintomo, ma entrarvi in un modo diverso.
2 Comments
Susana Tillet
1/6/2015 07:01:22 am
Molto Interessante Marco, grazie!
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marco focchi
1/6/2015 07:06:09 am
Grazie a te Susana. Un saluto e un abbraccio.
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