Intervento tenuto il 10 maggio via zoom presso Kliné Associazione per la cura e la ricerca sui disturbi alimentari e i legami di dipendenza Marco Focchi Prendendo a tema il posto del desiderio nel mondo contemporaneo, non posso non ricordare il titolo di un libro che ho scritto qualche anno fa: Sintomi senza inconscio di un’epoca senza desiderio. Chiaramente era un titolo ironico: dal punto di vista psicoanalitico non esiste sintomo senza inconscio come, per altro verso, è impossibile negativizzare il desiderio, nel senso di annullarlo. Il titolo evidentemente si riferisce alle particolari caratteristiche del mondo contemporaneo, anzi, alla particolare ideologia del mondo contemporaneo che è rappresentata dal pensiero scientista. Qui il sintomo non è interrogato come enigma, come senso, ma è preso piuttosto come intoppo della macchina produttiva, quindi come qualcosa che va semplicemente eliminato. Per altro verso il desiderio viene interrogato oggi a partire da un’angolatura che fino a qualche anno fa era considerata esclusivamente femminile, ma che sempre più investe anche il mondo maschile: parliamo del calo del desiderio, che viene categorizzato nell’etichettatura del DSM come disturbo da desiderio ipoattivo.
È chiaro come in questa definizione venga assolutamente cancellata l’idea di un desiderio inconscio, e come il desiderio sia piuttosto considerato come una sorta di somma di reazioni fisiologiche. Credo che queste particolari espressioni della vita contemporanea siano relative alla cancellazione della mancanza, o meglio alla riduzione della mancanza a mero artificio. La mancanza viene infatti creata surrettiziamente come sfondo di una possibilità di colmamento attraverso i prodotti di consumo che la pubblicità promuove. Il positivismo scientista che domina la nostra epoca tende così a cancellare la mancanza, a sovrasaturarla con attività intrattenenti, promozioni, informazioni. Un esempio di questa situazione l’ho proposto nel libro Manca sempre una cosa parlando dei bambini che vengono inseriti in una catena ininterrotta di attività formative o di intrattenimento. Questi bambini diventano giocoforza “iperattivi”, perché la sollecitazione continua fa perdere loro la capacità di attendere. Se tutto si traduce in azione, lo spazio della riflessione, che implica dei vuoti, dei momento di sospensione, delle pause, viene completamente annullato. Il desiderio, per altro verso, implica un’attesa, nasce dalla mancanza, è correlato a un’insoddisfazione. Il desiderio è anzi fondamentalmente insoddisfatto. Il cosiddetto “disturbo da desiderio ipoattivo” è un indice particolare di come in questa epoca il desiderio sia preso come positivizzato, come entità che può diventare oggetto di scienza, e la sessuologia, deputata a occuparsene, rivendica di essere una scienza. È infatti necessario, perché qualcosa diventi oggetto di scienza, che sia un elemento positivo, che sia positum, e che come tale sia riconducibile a un dato. Qualcosa di essenzialmente sottrattivo, come il desiderio, o di evasivo, come l’inconscio, non sono fattori riconducibili a dati, e quindi non possono essere strumenti di studio scientifico. Il desiderio, per essere preso come trattabile scientificamente, deve essere isolato, autogenerato, identificato per sé, certamente non articolato nel senso in cui noi definiamo il desiderio come desiderio dell’Altro. Se sganciamo il desiderio da questa connessione con l’Altro, lo facciamo ricadere nell’Uno, nella saturazione autoerotica, gli facciamo prendere la forma dell’Uno autartico. Se non manteniamo l’apertura del desiderio verso l’Altro annulliamo in quella saturazione di godimento che ha la forma della dipendenza. Ora: il punto non è liberarsi della dipendenza, perché il suo contraltare è l’io autonomo. Sappiamo che l’ideale dell’Io autonomo non è solo espressione degli obiettivi terapeutici della psicologia dell’io, e non è neppure un particolare carattere della contemporaneità. In fondo già gli stoici promuovevano un’etica della padronanza di sé, altro nome dell’autonomia, e prima ancora ne si narra in un aneddoto in cui si incontrano Aristippo e Diogene. Aristippo è il fondatore della scuola cirenaica, una delle scuole post-socratiche nella Grecia del IV secolo AC, e promotore dell’idea che il fine dell’esistenza è il piacere, un piacere dinamico, a differenza di quello ricercato da Epicuro che è statico. Diogene è il noto filosofo cinico che si priva di tutto e che l’unica richiesta che fa ad Alessandro Magno è di spostarsi per non fargli ombra. Nell’aneddoto Diogene sta mangiando un cibo modesto, un piatto di lenticchie, mentre Aristippo vive negli agi alla corte del tiranno. Aristippo dice a Diogene: “Se tu imparassi ad adulare il tiranno non dovresti ridurti a mangiare lenticchie”. E Diogene ribatte: “Se tu imparassi a mangiare lenticchie non dovresti ridurti ad adulare il tiranno.” L’interesse di questo apologo è che induce domandarsi chi sia, per ciascuno, il proprio tiranno, cosa sia, per un verso, ciò di cui non possiamo fare a meno, o chi sia, per altro verso, colui o colei di cui non possiamo fare a meno. Perché in fondo l’apologo è sempre stato presentato su uno sfondo moralistico. L’idea sottostante e sempre data per scontata è che sia meglio mangiare lenticchie che adulare un tiranno. Il punto è: se non consideriamo l’io autonomo come la vetta di ogni realizzazione analitica, se l’inconscio ha la struttura del discorso del padrone, se devo riconoscere che c’è qualcosa più forte di me, come nell’apologo della rana e dello scorpione, se la bella che amo ha il mio cuore in sua balia e sono felice così, chi è, allora, per ciascuno, il proprio tiranno? Non c’è anche la tirannia di un godimento delle lenticchie, cioè una forma di godimento della rinuncia, come ha ben mostrato Freud ne Il disagio della civiltà? Lo stilita gode allora delle erbacce di cui si nutre e deve rinunciare sempre di più per raggiungere gradi di perfezione sempre maggiori. Non è anche questa una tirannia? Non ci ha mostrato già Platone, ne La repubblica, che la tirannia da cui è necessario liberarsi per fondare la città è l’epithymia, cioè il desiderio nella sua selvaggia violenza? La dipendenza in realtà è la dipendenza di tutti noi, e Jacques-Alain Miller ha definito il sintomo come la forma generalizzata della dipendenza. Il punto è: quando questa dipendenza diventa tossica? Possiamo dire che diventa tossica quando slitta all’infinito. La soddisfazione pulsionale non ha infatti un punto d’arresto, un segno di sazietà naturale. Diventa quindi divorante in un modoche consente alla pulsione di morte di prendere la mano. Questo accade quando il circuito della domanda pulsionale si sgancia dalla domanda d’amore, che è domanda non di un oggetto ma di un segno. In questo senso credo sia importante considerare le nuove condizioni del lavoro psicoanalitico. Noi parliamo spesso di declino paterno, ma siamo in un momento in cui questo è un aspetto del più ampio declino dell’autorità, correlato alla caduta degli ideali rispetto all’assunzione di una centralità del corpo nell’estetica, nella salute, nello sport. È però un’attenzione che si rivolge al corpo come corpo-cosa, che non lo prende in conto come corpo-parlante. Questo implica anche una riflessione sulle modalità della relazione analitica di cui la traslazione è la chiave di volta. La traslazione è legata a una certa configurazione simbolica, a una certa posizione d’autorità. In fondo Freud poteva sostenersi con i suoi pazienti anche su un credito preliminare attribuito alla sua autorità medica. Il discorso medico implicava un certo riferimento all’autorità personale del singolo medico, perché occorreva un occhio clinico, una sensibilità che non si riduceva ai parametri misurabili della medicina di oggi. La medicina era certamente già ingranata nel discorso scientifico, ma oggi è diventata una medicina dei numeri, e non parliamo del disastro avvenuto, certo per altre ragioni, nell’assistenza sanitaria della Regione Lombardia. Cambiano le condizioni della traslazione perché è cambiata la configurazione simbolica in cui trova posto l’autorità. Oggi l’autorità è sempre più messa alla prova. Da questo punto di vista il soggetto supposto sapere è sempre più un soggetto esposto sapere. Dobbiamo farci una ragione del fatto che l’autorità non è la stessa di quella vigente in un mondo dove esisteva un impero come quello Austro-Ungarico, il mondo in cui viveva Freud. In una democrazia avanzata del tipo di quelle che troviamo nel paesi europei in cui viviamo il riferimento all’autorità prende una piega sicuramente diversa. Credo quindi che la traslazione trovi sempre più appoggio sul suo versante erotico che non sul versante epidemico, ovvero più sul versante del desiderio che non sul versante simbolico, quello del supposto sapere. Una delle ultime pazienti dalla quale ho sentito dire: “Dottore mi affido a lei, mi metto completamente nelle sue mani”, veniva da un paese dove le relazioni tra le persone non sono disegnate nello stesso modo in cui lo sono nell’individualista e burocratica Milano. In Lombardia stiamo poi entrando nella prospettiva di istituire la figura dello psicologo delle cure primarie, una sorta di equivalente psicologico del medico di base. Questo, credo, avrà due effetti: da una parte un rafforzamento istituzionale. Se lo psicoanalista diventa una figura istituzionalmente più appoggiata l’effetto sarà certo di un consolidamento simbolico del suo ruolo. Per altro verso però dobbiamo prevedere che il contraccolpo nei confronti delle psicoterapie possa essere di produrre l’aspettativa di un distributore automatico di cure, di spingere verso lo statuto medico, e questo può indurre a una modalità di relazione che invita sempre più a tentare di rispondere alla domanda. Sappiamo invece che la risorsa della psicoanalisi è di non rispondere alla domanda, ed è questa la molla che permette di far emergere il desiderio. Non credo debba tuttavia impressionarci il fatto che vedremo messi alla prova alcuni orientamenti fondamentali della nostra pratica. Dobbiamo semplicemente prepararci a farli funzionare nelle nuove figure simboliche che si stanno disegnando, come ci siamo sempre sforzati di fare in questi anni nel Campo freudiano.
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