Marco Focchi Conferenza tenuta via zoom venerdì 16 dicembre 2022 per la comunità della Escuela lacaniana de psicoanalisis a Vigo Il seminario Encore, segna la svolta dell’ultimo insegnamento di Lacan. La suddivisione del suo insegnamento in diverse fasi appartiene a una cronologica messa in risalto da Jacques-Alain Miller diventata ormai standard nel Campo freudiano. Cosa consideriamo come ultimo insegnamento di Lacan? Senz’altro quella parte in cui, accanto a tutte le strutture del significante costruite e messe in evidenza negli anni Cinquanta, prende spazio la nozione di godimento. Per approfondirne la lettura possiamo individuare tre assi principali che si sviluppano già a partire dalle prime lezioni del seminario: il primo e fondamentale asse riguarda l’introduzione del godimento, che si ripercuote sugli antri due, cioè: la necessaria riformulazione della nozione di Altro, e la ridefinizione del rapporto tra significante e significato Una divisione nel godimento
Nel seminario Encore vediamo innanzi tutto apparire l’idea di una divisione interna al godimento: da una parte c’è il godimento fallico, che è delimitato, numerabile, circoscritto, dall’altra c’è il godimento femminile, aperto e illimitato. Il primo è connotato da un significante, il significante fallico per l’appunto, il secondo non è correlato a nessun significante. Vediamo in questa fase venire a maturazione i semi gettati molti anni prima, potremmo risalire fino allo scritto degli anni Sessanta, Appunti direttivi per un Congresso sulla sessualità femminile, dove la donna, in contrapposizione alla dialettica fallo-centrica, viene definita da Lacan come l’Altro assoluto. Lacan non cade mai, infatti, nella trappola di pensare la femminilità come simmetrica al maschile. Se nel maschile funziona infatti, come suggerisce Alfredo Zenoni, “un regime di emblemi e di identificazioni simmetriche” (“La donna non esiste/L’Altro assoluto” in Attualità lacaniana n°31, p.248), la femminilità è proprio ciò che sfugge a questo regime, non quel che a esso contrappone una batteria di emblemi a far da contrappeso. L’Altro assoluto L’Altro, preso in questo senso, è messo in una prospettiva fuori confronto, è inteso a indicare ciò che non è lo Stesso, ciò che non sta nella serie in cui si può dire: “dammene ancora un altro”. L’Altro, da questo punto di vista, è l’opposto dello Stesso, e non è lo stesso nemmeno di se stesso. Quando Lacan dice, sempre negli Appunti direttivi “l’alterità del sesso si snatura”, lo afferma per prendere distanza dall’idea di un’alterità femminile naturale, che sarebbe intesa sì come altro genere, ma pur sempre come genere identificabile. Lacan parla invece di un’alterità Altra (Zenoni, pag. 249) e prefigura quello che, anziché alterità naturale, si precisa in Encore come alterità di godimento. Questi temi, che entrano in modo potente nel seminario Encore, implicano al tempo stesso uno spostamento d’accento rispetto a quel che Lacan chiamava negli anni Cinquanta il tesoro del significante. Con questa espressione negli anni cinquanta Lacan definiva l’Altro. Il tesoro è qualcosa che si può accumulare, che si può raccogliere e chiudere in un forziere, o in uno scrigno. Questo scrigno era quel che al tempo Lacan chiamava Altro, con la lettera maiuscola, ma si tratta di un Altro in un’accezione evidentemente molto diversa da quella che connota l’Altro assoluto e l’Altro godimento. Ci sono in gioco infatti in queste definizioni due logiche molto diverse. Il tesoro del significante, l’Altro cioè che può raccogliere i propri elementi, è un insieme che necessariamente implica un elemento in deroga rispetto alla proprietà caratterizzante l’appartenenza. L’elemento infatti che denomina l’insieme, e che quindi lo costituisce, non può appartenere all’insieme stesso. Perché vi sia coerenza, perché non si incorra in paradossi, in contraddizioni, in incoerenze, occorre vi sia l’eccezione che non soggiace alla stessa proprietà di tutti gli altri elementi. Nell’insieme maschile, dove l’uomo è segnato dalla castrazione – quel che Lacan scrive: ∀xΦx e che si legge: per ogni x vale la proprietà phi, che è la proprietà di soggiacere alla castrazione – occorre, perché l’insieme stia insieme, che ci sia almeno un elemento che non soggiace alla castrazione indicato con Ǝx¬Φx, che si legge: esiste un x che non soggiace alla proprietà phi. C’è quindi un padrone che ha la funzione di tenere insieme il gregge. Per questo Lacan dice che è necessario che nel sapere si produca la funzione del significante padrone. In fondo la logica maschile, da questo punto di vista, è necessariamente segnata dal carattere patriarcale. La dispersione delle donne L’altro lato, quello femminile, sappiamo invece che non costituisce un insieme. Qui non c’è l’esigenza di un tutto, di un principio unificante, di una totalizzazione che proceda da un tratto identificativo, da una proprietà comune. Qui gli elementi sono presi nella loro singolarità, non c’è il ricorso a una nozione di universale che renda le donne identiche a sé (Zenoni pag. 251). Questo vuol dire che non solo gli elementi non fanno uno tra loro, ma non lo fanno neppure tra se stessi, sono differenti da sé. Vediamo un riflesso di questa caratteristica quando le donne vengono accusate di essere incoerenti, volubili, quando si canta che “la donna è mobile, qual piuma al vento”. Direi tuttavia che sul piano dell’enunciazione sociale, almeno nel mondo occidentale, tutto questo appartiene sempre più al passato. In un certo senso tuttavia possiamo dire che l’avanzata del femminismo, nelle sue nuove forme, sfemminilizza le donne, o meglio: tende a neutralizzare la differenza sessuale, anche quando la vuol valorizzare accentuandone il carattere, come nel pensiero della differenza. Infatti per un verso una donna può acquisire posizione sociale e potere vestendo l’abito delle durezza e della forza maschili, e in genere accentuandole, oppure nel pensiero della differenza si crea una controbilanciamento identificante che fa del femminile un insieme coerente come un contraltare costituito del maschile. La botte bucata Nel momento invece in cui Lacan entra nella prospettiva di pensare la logica della sessuazione, l’Altro subisce una radicale ridefinizione, e non è formulato come insieme unitario, viene privilegiata la forma logica dell’Altro incoerente, l’Altro che non fa insieme, l’Altro sparpagliato. Lo vediamo in particolare nella seconda lezione del seminario, quando Lacan dialoga con Jakobson riferendosi per esempio alla botte bucata della significanza. Lacan usa questo termine significanza per indicare l’effetto di significato. Se c’è una barra tra il significante e il significato, se il significato non appartiene in modo specifico a un determinato significante, è perché il significato zampilla dai giochi e dalle contorsioni del significante. Lacan prende l’esempio dell’espressione francese à tire-larigot, che si applica in particolare all’idea del bere e soprattutto di bere in abbondanza, smodatamente. Potremmo renderlo nell’italiano “bere a garganella”. Non si sa esattamente come si siano combinati questi termini per dare questo effetto di significato. Tirer nel francese del XV secolo significava far uscire del liquido da un recipiente per berlo tutto d’un fiato. Ma larigot? Questo termine indica la canna di un piccolo organo, ma è impossibile sapere come i due termini si siano associati nella fantasia popolare per dare il senso che hanno attualmente. Di fatto, l’idea che vuol rendere Lacan è che il senso viene giù “a garganella” dalle svariate combinazioni possibili del significante. Proprio perché non c’è un legame definito e determinato con il significato possiamo dire che insito nella definizione di significante è il fatto non di avere un significato, ma di produrlo. Linguisteria = linguaggio + soggetto Per cominciare quindi Lacan prende distanza dalla linguistica in quanto tale, dalla linguistica studiata dai linguisti, cioè gli scienziati del linguaggio. Lascia così la linguistica per far sua quella che chiama linguisteria. In cosa si distingue la linguisteria dalla linguistica? Lacan lo dice chiaramente: nella linguisteria il linguaggio ci interessa, o meglio, interessa la psicoanalisi, solo nella misura in cui fonda il soggetto. Dobbiamo qui pesare attentamente le parole che usa Lacan, perché naturalmente “fondare” è un termine decisamente impegnativo e, di solito, almeno da Cartesio in poi, l’idea è che sia il soggetto a fare da punto fondativo per tutto il resto della costruzione del pensiero. Con Lacan vediamo che questa struttura risulta sovvertita, che il linguaggio viene prima, e che se la linguistica lo studia sotto l’angolo del detto, la psicoanalisi lo prende invece dal punto di vista del dire. È qui infatti che Lacan ricorda la frase con cui si apre L’étourdit: “Che si dica resta dimenticato dietro ciò che si dice in quel che si intende". Ovvero: quando parliamo intendiamo dire qualcosa, e in questo abbiamo l’impressione di mettere il linguaggio al servizio di quel che vogliamo dire. È la concezione spontanea del linguaggio come mezzo. Il soggetto si sente padrone di quel che dice e usa il linguaggio per esprimerlo. Da questo punto di vista naturalmente è il soggetto a fondare quel che dice, a essere quel che dice, se riprendiamo la frase di Miller che ha dato il titolo alle cinquantaduesime Giornate dell’ Ecole de la cause freudienne nel novembre 2022. Da questo punto di vista il soggetto usa il linguaggio per esprimere quel che è. Se invece non dimentichiamo che nel linguaggio sgorga un dire – e la psicoanalisi non lo dimentica – allora il linguaggio diventa la sorgente di effetti soggettivi, di un soggetto che deriva dal linguaggio, che non lo domina, che è portato dalla sua corrente e che è in balia di tutti i suoi equivoci. Il principio dell’associazione libera può in fondo ricondurci a questo, perché il suo enunciato è: “Dì tutto quel che ti passa per la mente”. Più precisamente però potremmo formularlo: “Lasciati dire” ovvero: “Abbandonati al fluire del linguaggio, parla senza porti come autore di quel che dici, senza cavalcare l’intenzione di dire, ma esponendoti a tutte le rifrazioni, a tutti i contraccolpi, a tutte le correnti che traversano il linguaggio”. Il soggetto che si abbandona all’associazione libera è in effetti un soggetto che si disancora dall’intenzione di dire per poter ascoltare quel che il linguaggio dice di lui. La modalità dell’associazione libera non subordina il linguaggio alla logica, cioè a una concatenazione governata dal principio di non contraddizione, dall’implicazione, dalla deduzione, ma spinge piuttosto all’esposizione del linguaggio nei suoi elementi, in un quadro dove gli elementi sono ciascuno uno, slegati e quindi disponibili a nuove ricombinazioni. Cos’è un significante? Lacan si domanda infatti cosa sia un significante, e sottolinea questo “un”, questa presa dalla singolarità dalla quale è difficile riportarsi a un “il”, è difficile cioè dire cos’è “il” significante, qual è il suo concetto. Per un verso infatti il significante non è il termine, il vocabolo, giacché i vocaboli sono ciò che viene raccolto dal vocabolario e messo in ordine, generalmente un ordine alfabetico. Lacan si riferisce, possiamo dire, a gradi di lunghezza diversi, possiamo già trovare il significante nel fonema, ma anche la frase può essere presa come unità significante, persino il proverbio, per il quale Lacan si riferisce a un articolo di Jean Paulhan, L’expérience du proverbe. Paulhan si trova in Madagascar e sta tentando di imparare il malgascio. Ha acquisito padronanza del lessico e della grammatica, ma si scontra con delle frasi che pronunciate dai malgasci hanno un peso che lui, con le stesse parole, non riesce a rendere. Queste frasi sono proverbi, e si rende conto che non ammettono variazioni o trasformazioni, che vengono pronunciate come tutto d’un fiato catalizzando l’attenzione degli ascoltatori, e il loro senso dipende dal discorso in cui sono incastonate, e ne conclude alla fine: “È la frase proverbiale intera che dovevo ricordare, come fosse stata una sola parola” Lacan mette dunque in evidenza che l’unità del significante può andare dai segmenti verbali isolati che possiamo prendere in considerazione, fino a quel che definisce come significanza, cioè dall’effetto di significato che si produce. In altri termini: è un significante ciò che produce significato. Mi sembra interessante mettere a confronto questa definizione con quelle precedentemente addottate da Lacan, enunciate per esempio in Sovversione del soggetto, dove dice che la definizione di significante – e aggiunge che non ce n’è altra – è che un significante rappresenta un soggetto per un altro significante. Se prendiamo queste due definizioni salta agli occhi che significato e soggetto sono messi dalla stessa parte, cioè dalla parte degli effetti, e che il significante in quanto tale è invece preso come causa. In particolare il significante è preso qui da Lacan come causa del godimento. Miller ha messo particolarmente in risalto questa formulazione che qualifica uno dei pilastri nella svolta dell’ultimo insegnamento, perché ricongiunge, riavvicina, il significante al godimento, marcando una netta differenza rispetto alla sua posizione precedente, espressa per esempio nell’Etica dove Lacan mette la Cosa, cioè la prefigurazione della nozione di godimento, in un punto centrale e allo stesso tempo irraggiungibile dall’Altro. Nell’Etica, godimento e significante sono nettamente separati e si ricongiungono solo con la svolta dell’ultimo insegnamento. Bisogna notare inoltre che quando Lacan parla del significante come causa di godimento prende appoggio sulle cause aristoteliche. Il significante viene quindi indicato causa materiale del godimento, perché è “una parte del corpo che viene significata”. (Encore p.24). Un punto d'arresto al godimento Al tempo stesso è causa finale perché è “ciò che dà l’alt al godimento” (id. p.24). Questo è un punto particolarmente interessante: che ci sia un punto d’arresto al godimento. L’etologia ci insegna infatti che nell’animale ci sono stimoli d’avvio di un comportamento, ma anche stimoli di cessazione, e sono sempre stimoli corporei. Nell’uomo, che possiamo dire traumatizzato dal linguaggio, non abbiamo la stessa spontanea regolazione istintuale, ed è quindi interessante che Lacan indichi nel significante quel che viene a essere l’omologo su un altro piano, per quanto riguarda il godimento, di uno stimolo di cessazione. Sappiamo peraltro, e la clinica ce lo mostra in modo diverso in diversi quadri, che quando non c’è questo alt al godimento il soggetto ne è travolto, e il godimento gli si presenta nel suo volto mortale. Si può vedere nella bulimia, può apparire nelle diverse forme di tossicodipendenza, può manifestarsi nella psicosi, ma anche nella fobia: per esempio, per non essere portato in un trascinamento infinito di godimento, il piccolo Hans è costretto ad inventarsi la fobia dei cavalli. Se Lacan può aprire la riflessione a questo tipo di funzionamento del significante, è perché si sgancia dalla concezione più comune del significante, che lo intende come latore di un messaggio, come tramite di comunicazione. Il presupposto per pensare il significante come un mezzo è di considerarlo come arbitrario. Se il significante è solo un tramite, è assolutamente indifferente il suono con il quale indica il contenuto che trasmette. Nelle prime lezioni del seminario Encore, infatti, Lacan critica proprio questa idea dell’arbitrarietà, da cui assolve persino De Saussure, che ne è l’autore, cercando di valorizzare i quaderni in cui il linguista ginevrino studia gli anagrammi. De Saussure infatti, nei suoi quaderni sugli anagrammi, formula l’ipotesi che tutta la poesia antica, nella tradizione letteraria del mondo indoeuropeo, parta dal nome emblematico di un eroe o di un Dio che diventa un tema fonico in modo da risuonare, scomposto in sillabe, in tutti i versi della poesia e da funzionare come una sorta di significato nascosto. Senso e referente Il passo acquisito dalla linguistica isolando il significante implica la sua divisione dal significato, da ciò che il significante intende dire, ma non è arbitrarietà il termine adeguato per indicare questa separazione. Secondo Lacan si tratta piuttosto del fatto che il significante non ha rapporto con il suo effetto di significato (Lacan p.28). Questo significa che l’articolazione di significante e significato non collima in modo adeguato tale da cogliere un referente. Il problema del referente è stato ampiamente studiato dalla logica, a partire da Gottlob Frege che per primo ha distinto Sinn e Bedeutung, senso e denotazione. Il senso descrive delle proprietà, mentre la denotazione indica l’esistenza dell’oggetto di cui si parla. La questione è stata ripresa da Russell nel 1905 con il suo articolo On Denoting, dove si trova il suo famoso esempio: l’attuale re di Francia è calvo. Naturalmente nel 1905 non esiste nessun re di Francia perché da un pezzo la Francia è tornata ad essere una repubblica, ma ciò non toglie che la frase abbia senso, come ha senso parlare di un cerchio quadrato, anche se è impossibile disegnarlo, o parlare dell’ippogrifo con cui Astolfo va sulla luna, anche se non esistono né l’ippogrifo né Astolfo. Se scriviamo f(x), la funzione denotativa, la f riguarda la proprietà, essere calvo per il re di Francia, essere un cavallo volante per l’ippogrifo, e la x, la variabile, sta per l’oggetto denotato, che però può essere un posto vuoto, perché l’insieme delle proprietà in questi casi definiscono un oggetto che non esiste. Lacan imposta il problema del riferimento in modo completamente diverso, perché lo considera in relazione al discorso. La sua tesi è che il significante in quanto tale non si riferisce a nulla se non a un discorso (p.28). Sappiamo che “discorso” per Lacan è un termine concettuale, e rimanda ai quattro discorsi che ha introdotto nel seminario L'envers de la psychanalyse solo due anni prima. Cos’è il discorso? È una struttura che collega certe posizioni e certe funzioni, e l’elenco dei discorsi è limitato, poiché Lacan lo circoscrive al discorso del padrone, quello dell’isterica, quello universitario e quello dell’analista. Il significante si riferisce dunque a un discorso come a un modo di funzionamento, a una messa in opera del linguaggio come legame piuttosto che come comunicazione. Quando parliamo di discorso, tuttavia ci riferiamo a un regime diverso rispetto a quello dell’associazione libera., La virtù dell’associazione libera, che abbiamo visto, è anzi di sganciare il linguaggio della logica – che può essere la logica del padrone, o quella universitaria o quella isterica – per rendere libero il linguaggio e per farlo entrare in un’altra logica, più serrata, quella dell’inconscio, in cui lo dispone il discorso dell’analista. La scrittura Su questo punto Lacan innesta il tema della scrittura giacché, come chiosa Miller nei suoi titoli a inizio capitolo, l’inconscio è ciò che si legge. In che senso? Lacan lo precisa subito: è evidente – dice – che nel discorso analitico si tratta solo di questo, di ciò che si legge al di là di ciò che avete incitato il soggetto a dire (Encore p.25). Cosa significa? Che sollecitiamo il soggetto a parlare senza badare a quel che dice e che, in un certo senso, lo espropriamo dalla sua intenzione di dire, andiamo al di là di quel che il soggetto ha intenzione di dire e leggiamo quel che si è lasciato dire, senza necessariamente volerlo fare. Ciò di cui si tratta, nel discorso analitico è sempre questo: di quel che si enuncia di significante dare una lettura diversa da quel che significa sul piano del discorso corrente. Si tratta quindi di fare entrare il linguaggio nel dispositivo dell’associazione libera, dove il significante viene separato dal significato, ed è questo a permetterne una lettura. La funzione della scrittura entra in gioco a partire da qui. Miller ha particolarmente accentuato questa funzione della scrittura, che appare in Lacan nel seminario XVIII in una sorta di confronto con Derrida, e che viene ripresa con forza nelle prime lezioni del seminario XX, dove Lacan promuove una sorta di autonomizzazione dello scritto dal linguaggio. Per un verso c’è infatti la scrittura che annota la parola, come la dettatura, la stenografia, o la registrazione. Oggi abbiamo un grande possibilità dal punto di vista tecnologico, di creare annotazioni della parola. Sui nostri stessi siti circolano le registrazioni delle conferenze dei nostri colleghi, ci sono dei video, ci sono dei podcast. Sembra in questo momento che il rapporto tra la scrittura e la parola si stia sbilanciando sotto la massa di materiale verbale che passa attraverso internet. Ma credo che possiamo renderci conto della differenza tra scrittura e parola se facciamo l’esperienza degli audiolibri, che inducono un modo di ascolto assolutamente diverso da quello di una diretta radiofonica, dove la parola fluisce senza essere prima preparata, senza che il discorso sia costruito preliminarmente. Per altro verso c’è infatti la parola scritta, o meglio la scrittura tout court non preceduta dalla parola, quella che Miller chiama scrittura d’esistenza, accentuando molto la differenza tra ascolto e lettura. Nell’ascolto – dice – entrano in gioco elementi di senso che evocano la comprensione, perché vi è sempre implicato il godimento. Evidentemente qui Miller gioca sull’equivoco, o meglio sulla parola composta costruita da Lacan quando, fondendo “senso” e “godimento” scrive: j’ouis sens. Il senso nasce dove si risveglia un’eco di godimento. Per questo, aggiunge Miller, occorre fare uno sforzo per separare il significante dal senso. Scrive così la differenza in due formule, che mi sembrano molto chiare: quando si ascolta – dice – si parte da un significato e si tenta di isolare un significante, mentre la lettura è qualcosa di completamente diverso: parte da un significante per eventualmente dare luogo a un senso. Mi sembra che anche in questo l’esperienza degli audiolibri sia illuminante. Il senso del libro ci penetra quando il lettore sa dare le intonazioni giuste, il senso ci raggiunge a partire dalle declinazioni della voce. Un cattivo lettore ci trasmette una carcassa di significanti svuotati di ogni valore emotivo, quindi svuotati di senso. Per andare dall’ascolto alla lettura bisogna passare per lo scritto – dice Miller – e nella psicoanalisi dobbiamo occuparci della lettura piuttosto che esaltare l’ascolto, perché l’interpretazione è una lettura. Si ha così la dimensione del significante come lettura. Ci sono infatti due statuti del significante: uno è quello che esprime le parole, ma che dal punto di vista di Lacan viene in secondo piano. L’altro è il significante in quanto tale, che viene prima del significato. Per questo nella pratica psicoanalitica dobbiamo esercitarci in una lettura, perché se ascoltiamo il significante nel suo valore comunicativo, nel suo valore di trasmissione di informazioni, lo prendiamo e lo ascoltiamo in una pre-comprensione, sappiamo già cosa vuol dire, anticipiamo il senso. C’è un contesto sociale che pre-condiziona l’ascolto, che fa da sfondo, che ci proietta in un supposto bacino semantico comune. Questo senso comune naturalmente è necessario, perché altrimenti non potremmo mai capirci, è necessario che noi si abbia, come dice Nietzsche, la possibilità di passarci le parole come monete consumate dall’uso. Dove le cose non vanno da sé La pratica psicoanalitica implica tuttavia una messa in gioco diversa delle parole. Se non realizziamo il preliminare distacco tra significante e senso non facciamo che ricadere nelle riserve del senso comune dietro il quale l’inconscio si opacizza. È il motivo per cui, per esempio, Lacan nelle sue presentazioni dei malati, quando qualcuno gli parlava della Formula uno – e tutti sappiamo cos’è la Formula uno, non occorre precisare che si tratta di una categoria di macchine da corsa – interrogava il paziente, insisteva sul termine, chiedeva precisazioni, domandava cosa intendesse con Formula uno. Direi che questo è esemplare per tutti noi rispetto a che cos’è la pratica psicoanalitica se vogliamo davvero far emergere l’inconscio. Non ci interessa molto che la Formula uno siano macchine da corsa, ci interessa separare l’espressione che questo termine assume nell’inconscio del soggetto, e per capirlo dobbiamo far virare la nostra attenzione dal fondo di senso comune in cui è pre-compreso all’assoluta singolarità letterale del termine. Lacan esprime questo punto di vista in modo incisivo. La linguistica non si è limitata a distinguere il significante e il significato. Forse ci sembra che la cosa vada da sé. Ma appunto, è perché si ritiene che le cose vadano da sé, che non si vede nulla di ciò che tuttavia si ha davanti agli occhi, davanti agli occhi per quanto riguarda lo scritto. La linguistica non ha soltanto distinto l’uno dall’altro il significante e il significato. Se c’è qualcosa che può introdurci alla dimensione dello scritto in quanto tale, è l’accorgerci che il significato non ha niente a che vedere con le orecchie ma soltanto con la lettura, la lettura di quel che si intende di significante. Il significato non è quel che si intende. Quel che si intende è il significante. Lacan insiste quindi su questa separazione tra significante e significato e vorrei concludere sulla sua osservazione relativa al fatto che le lettere dell’alfabeto fenicio sono state trovate dagli archeologi su alcune terrecotte egizie. Questo indica secondo Lacan l’indipendenza della lettera, che non ha niente a che vedere con il significante, che tutt’al più la rielabora e la perfeziona giacché inizialmente queste lettere fenice fungevano semplicemente da marchi di fabbrica. In fondo possiamo prendere quest’apertura del seminario Encore, considerato complesso, come tuttavia un’apertura luminosa, una schiarita sulla pratica analitica che esemplifica nel modo più concreto quel che deve e può essere il nostro modo di operare nella clinica.
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