Marco Focchi Presentazione della tavola rotonda tenutasi a Milano il 24 gennaio 2020 presso l'Istituto freudiano per il ciclo: La psicoanalisi: per una politica dell'inclusione Quando parliamo di legame sociale nel contesto psicoanalitico sappiamo che ci rifacciamo innanzitutto a una struttura di discorso. Non dobbiamo però perdere di vista il senso comune del termine discorso, ovvero l’espressione ordinata di un pensiero, perché in fondo è proprio a partire da questo ordine che possiamo parlare di una struttura discorsiva. Siamo poi informati del fatto che l’ordine del discorso viene pensato come una precisa modalità di controllo delle verità enunciate, come un modo di determinare quel che si può dire e quel che invece non si può dire. Attraverso la definizione dell’ordine del discorso si passa quindi a un controllo della verità e a una regolata distribuzione del potere.
Quando Lacan ripensa e concettualizza a suo modo la nozione di discorso, non è il potere che tuttavia gli interessa, anche se certamente si tratta di esplorarne le articolazioni, ma il godimento e il problema della sua distribuzione. Nell’isteria il rapporto con il godimento è di costante insoddisfazione e rivendicazione. Il padrone invece sa far lavorare l’altro, il servo, che ha i mezzi per estrarre il godimento di cui lui potrà fruire. È noto poi che Lacan produce, come variante del discorso del padrone, il discorso del capitalista. Ne parla piuttosto estesamente negli anni tra il ’69 e il ’72, anche se ne scrive la struttura una volta sola, nella sua conferenza a Milano nel maggio del ’72. Il discorso del capitalista ci interessa questa sera in modo particolare, perché è quello che dà forma al mondo in cui viviamo. Naturalmente non si tratta affatto di un discorso immobile, e vediamo come si è plasmato differenziandosi attraverso le epoche e le modalità di gestione del potere. Se prendiamo la suddivisione classica di Foucault, c’è stata prima una società della sovranità. Era già una società capitalista ma governava sui territori. Era il tempo dell’enclosure capitalism, che recintava le terre fino ad allora comuni sottraendole all’uso di tutti per creare grossi latifondi. Poi ci sono le società disciplinari che non innalzano recinzioni intorno alle terre ma intorno alle persone: nelle prigioni, nelle caserme, nelle scuole, ma soprattutto nelle fabbriche. Se prima il capitalismo si appropriava di terre gratuitamente per trasformarle in merce, si è successivamente appropriato del lavoro, che apparteneva naturalmente a chi lo esercitava, trasformandolo e quantificandolo come forza-lavoro, e anche qui appropriandosene gratuitamente una parte. La fase attuale è quella che Deleuze ha individuato come società del controllo. Non servono più recinzioni, ma la logica dell’appropriazione gratuita di disponibilità naturali trasformate in merce continua. Sin dal ’90 Deleuze aveva visto le potenzialità di controllo che si potevano esercitare attraverso lo sviluppo socio-tecnologico di macchine in grado di dare in ogni momento la posizione di un elemento in un ambiente aperto. Non occorrevano più dunque né recinzioni né reclusioni. Oggi questa logica ha raggiunto l’apice grazie alla svolta di Google tra il 2000 e il 2001, quando il colosso di Mountain View ha cominciato a raccogliere quelli che prima erano solo i prodotti di scarto per trarne plusvalore. Google raccoglieva infatti i dati delle ricerche che ciascuno inseriva per migliorare i risultati e renderli più precisi, più mirati. Ma i dati che raccoglieva erano sovrabbondanti e non tutti utilizzabili per questo scopo. Poiché però l’impresa di Google aveva coinvolto grosse somme di capitali di rischio per sostenere la sua attività, e non produceva profitti, venne l’idea di raccogliere questo surplus di dati contenenti indicazioni sul comportamento degli utenti, per creare schemi di previsione del comportamento e vendere agli inserzionisti pubblicità mirate con una precisione fino ad allora impensabile. Questo in pochi anno ha moltiplicato i profitti di Google di oltre tremilacinquecento volte la somma iniziale, cioè di un’enormità. Subito dopo Facebook si è accodato nel mettere a profitto questo modo di sfruttamento dei dati comportamentali. Tale logica, nei vent’anni che sono seguiti, si è sviluppata in un modo gigantesco, e non si limita più a seguire le tracce dei nostri click, ma segue fisicamente i nostri passi. Per esempio vengono raccolti dati sono raccolti con le auto messe in giro nel progetto di Street Views, o con i giochi tipo Pokemon Go, dove i mostriciattoli da inseguire guidano gli utenti verso gli esercizi commerciali che hanno pagato la pubblicità. Non c’è nessuna forma di protezione possibile contro questa invasine della nostra privacy, e le dichiarazioni su cui dobbiamo cliccare per firmare il nostro consenso sono notoriamente una solenne presa in giro. Tutto questo straordinario meccanismo di raccolta dati non si limita alle finalità commerciali. Edward Snowden già ci aveva allertato sulle tecniche di controllo messe in atto dalla National Security Agency statunitense, ma Chris Wylie ci ha rivelato l’uso politico dei dati raccolti da Facebook e girati a Cambridge Analytica . Non si tratta più di vendere prodotti, ma concretamente di modificare i nostri comportamenti reali e le nostre intenzioni di voto. Il capitalismo, che trovava il proprio ambiente naturale nelle libertà accordate dalla democrazia, si trasforma allora nella più pericolosa minaccia per la democrazia. Nella misura in cui modifica i nostri comportamenti, la logica del controllo attraverso i big data incide anche sul legame sociale, lo modella. Durkheim a suo tempo sosteneva che, nel capitalismo industriale la divisione del lavoro modella nuove forme di relazione sociale man mano che spariscono le unità famigliari come organizzazioni autonome del lavoro. Nello stesso modo, nel capitalismo di internet, si ritaglia una divisione del sapere dissimetrica. Da una parte stanno i pochi in grado di gestire i processi informatici nascosti nelle app che usiamo tutti i giorni, e dall’altra la massa di chi li utilizza, dove i dati diventano gratuitamente preda di un mercato sempre più rapace. Consideriamo ora i presupposti di questa gestione totale della sfera intima della nostra esistenza, costituita da dati estratti. Lo spiegano chiaramente gli attori di questa predazione in larga scala. Chris Wylie, in un’intervista, dice come attraverso i dati gli scienziati dell’informatica sono in grado di creare un clone di noi stessi e di modificare con questo i nostri comportamenti. Un esempio può essere il Contagion experiment condotto da Facebook nel 2014, quando a 700.000 utenti, senza il loro consenso, sono stati alterati i newsfeed per verificare la possibilità che un “contagio” emotivo potesse avvenire anche senza presenza fisica, e potesse fattivamente modificare il comportamento dei soggetti cavia. Attraverso il nostro clone informatico, Google, Facebook e gli altri giganti della rete che man mano si affacciano a questo mercato, ritengono dunque di poter regolare la nostra condotta e le nostre emozioni guidandoci come robot. Proprio in questa supposta equivalenza tra clone e vita reale sta però la crepa nell’apparentemente solido sistema della società del controllo fondato sui big data. In questa equivalenza non è messa in conto infatti la possibilità della menzogna. Che non consiste solo nel fatto di mentire agli altri. La prerogativa che il soggetto umano ha è di poter mentire a se stesso: in questo consiste il fatto di avere un inconscio. Sia Lacan sia Freud hanno messo in luce lo stupore del bambino quando, proferendo la prima menzogna, si rende conto di non essere scoperto, si accorge che il suo pensiero non è un cristallo trasparente agli occhi dell’adulto, che c’è un schermo dietro cui può rifugiarsi e celare la sua intimità più intima, il nucleo inconfessabile di sé, dei suoi desideri, dei suoi fantasmi. La crepa nel progetto del controllo computazionale sta nell’impossibilità per esso di mettere in conto l’inconscio, l’inconfessabile, il fantasmatico, l’elusivo, il détournement che ciascuno di noi esercita su se stesso. In questo senso la psicoanalisi è il polmone verde, l’Amazzonia di un mondo stritolato dal marketing, pedinato dalle lusinghe populiste fatte per accalappiare le preferenze elettorali. La psicoanalisi è oggi l’ecologia del pensiero e delle relazioni sociali, che lascia spazio all’incontro non programmato dal match di Tinder, al delirio che diventa musica in Schumann, alle visioni di di Van Gogh che diventano pittura, alla poesia splendida e folle di Dino Campana, all’evento imprevisto, alla sorpresa da cui parte la trasformazione del mondo sia sul piano individuale sia su quello sociale. Sono queste le forze non computabili che la psicoanalisi può coltivare per resistere al progetto di clonazione dell’esistenza, per opporsi alla gabbia illusoria, al sorriso accattivante che la propaganda tesse e ritesse e che noi, come notturna Penelope, possiamo ogni volta in segreto disfare.
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