![]() di Marco Focchi L’antica saga del Re pescatore mette in relazione la ferita del Maimed King, il Re menomato, con la Waste land, la terra desolata. L’immagine della Waste land riappare poi nei nostri giorni come titolo del capolavoro poetico di Eliot, che costituisce un’icona della modernità e della sua decadenza. La ferita del Re è il motivo per cui i cavalieri partono alla ricerca del Graal, coppa dell’abbondanza in grado di restituire salute al Re e di conseguenza ricchezza alle terre che da lui dipendono. Oggi che la figura un tempo prestigiosa del padre è menomata – come lo è ogni forma di autorità da che si è sciolto il suo nodo con la tradizione e con la religione – i discorsi sono spinti a riconfigurarsi intorno a nuove modalità di legame che ancora non sono chiaramente definite, e che inducono un senso di precarietà sociale e soggettiva. La precarietà è un tema che la psicoanalisi interroga. Lo fa senza andare alla ricerca di un Graal che ridoni salute a forme d’autorità che la nostra epoca ha reso obsolete. Ed è importante e necessario riuscire a farlo senza percorrere vie regressive. Vorremmo forse, di fronte alla paccottiglia d’oggetti di cui il mercato ci satura, proporre la restaurazione degli ideali cari all’epoca disciplinare? O vorremmo, di fronte alle esplosioni di violenza generate da una legge cui non si riesce a rendere promulgativa, rinforzare norme che nessuno avrebbe la forza di applicare? O riaffermare la solidità del trono e dell’altare di fronte ai sintomi di precarietà? O contrastare la standardizzazione delle procedure valorizzando un intuito che affida il governo al grand’uomo della Provvidenza? Andiamo invece al fondo delle cose. L’epoca contemporanea si attacca a oggetti di godimento fuori-relazione – che vanno dalle sostanze, agli iPods, ai sex toys – perché quel che Lacan indica dicendo che non c’è rapporto sessuale è che non possiamo più credere, come al tempo di Dante, che il godimento venga dalla relazione con l’Altro. C’è da una parte il godimento autoerotico, la jouissance qu’il ne faut pas, e dall’altra c’è l’inesistenza del rapporto.
L’antichità rimediava all’assenza di rapporto con la pedagogia, come nella fiaba di Dafni e Cloe, dove i due pastorelli che si desiderano ma non sanno come spegnere la loro arsura, sono debitamente istruiti da maestri di vita che con l’esempio pratico li introducono al giardino segreto dell’eros. Il medio evo metteva tra il soggetto e l’accesso al godimento relazionale, la distanza infinita dell’amor de lohn, evitando la delusione della messa alla prova e prolungando lo struggimento fino allo spasimo mortale che il romanticismo raffigura potentemente in Tristano e Isotta. La nostra epoca, che valorizza il soddisfacimento individuale sopra ogni cosa, per metterci al riparo dalle labirintiche complicazioni del desiderio dell’Altro, cerca di saturare le nostre brame con qualsiasi scadente surrogato d’oggetto. La civiltà tradizionale è fondata su una promessa di godimento che viene dalla relazione con l’Altro: di questo il Paradiso è solo l’espressione più evidente. Certo gran parte delle nevrosi classiche viene dal fatto che questa promessa è necessariamente mancata, e quando si scoprono le carte, quando il trascendente discende dal cielo alla terra, si resta con la bocca amara. Ma proprio perché non è più possibile oggi credere a questa promessa ci troviamo di fronte a nevrosi diverse da quelle classiche. Perché si verificano esplosioni di violenza incontrollata? Quando si credeva che il godimento fosse inaccessibile perché un’autorità lo vietava, la violenza poteva essere alimentata della rivendicazione, e aveva un senso completamente diverso da quella attuale. Sarà capitato a tutti di assistere alla scena pantoclastica di un bambino in preda a una furia che nessuna briglia simbolica è in grado di arrestare, e di percepire la profonda disperazione dell’essere di cui è preda quel bambino. Potersela prendere con qualcuno che vieta un piacere è comunque, se ben dosato, pacificante. Il fatto che sia ormai trasparente che il godimento non è vietato ma impossibile – se quest’impossibile non entra in una precisa costruzione logica – può gettare nei peggiori gironi infernali dell’esistenza. E così va per la precarietà. Il mondo corre a velocità supersonica. Ogni cosa cambia con un dinamismo che insegue l’efficienza a tutto campo. Chi esercita professioni liberali, che si chiamano così anche perché una volta lasciavano liberi di scegliersi gli orari, è precipitato in una rincorsa in cui si amplia sempre più l’orario lavorativo a scapito di tutto il resto. Negli Stati Uniti se si esce in strada alle quattro di mattina – a chi viene dalla vecchia Europa può capitare per effetto del jet lag – si trova pieno di gente che fa jogging prima di andare al lavoro: non è il mattino che ha l’oro in bocca, è la coazione della fitness coniugata al tempo di una giornata risucchiata dagli impegni. Chi non corre così rischia di cadere fuori dai ritmi richiesti, rischia di scivolare nella marginalità, di perdere l’inserimento sociale e andare alla deriva. La precarietà simbolica nasce dalla necessità di tenere la scena su un presente che non riesce a fondarsi sul passato trovandovi un proprio punto di stabilità, e che è al tempo stesso divorato da un futuro in cui si consuma prima ancora di potersi depositare in un momento che è “ora”. Le nevrosi contemporanee hanno cambiato configurazione: non sono più nevrosi dovute alla mancanza, a un soddisfacimento rimandato o negato che porta a inseguire la promessa di un godimento pieno. Esse sono ormai nevrosi determinate dall’eccesso, un eccesso che non sazia, che chiede sempre di più, che impone ritmi incalzanti e una crescita senza limite, un eccesso che spegne il desiderio perché non desiderare è l’ultima barriera difensiva di fronte a un’offerta traboccante che soffoca. Qualche decennio fa i sintomi emergenti erano i disturbi alimentari: anoressia e bulimia. Lo sono ancora naturalmente, tanto che i decessi per starvation di alcune top model hanno riempito le pagine di cronaca costringendo le istanze governative a occuparsene. Ma quando un fenomeno diventa preda dei media e oggetto d’attenzione delle istituzioni è perché ha già superato lo stadio in cui è emergente. Sono molto più attuali oggi gli attacchi di panico, il calo del desiderio o anche la tipologia degli asessuati. Di fronte all’assillo di un’offerta senza limiti il panico è la risposta del soggetto che perde la bussola singolare del proprio sintomo. Di fronte alla pedagogia sessuologica che, dopo il benemerito lavoro di Kinsey, insiste con periodici rapporti a voler cancellare ogni ombra di mistero dal sessuale, il calo di desiderio, più che a un’aggressività latente nei confronti dell’altro sesso, come ritiene Helen Kaplan, corrisponde a un ottundimento della curiosità. Gli asessuati invece sono la risposta alla patologizzazione di ogni comportamento e asseriscono, con fiera sicurezza, di non aver mai subito tempeste ormonali, e che a loro va bene così. Nell’orizzonte della Waste land un compito ragionevole per la psicoanalisi non è la ricerca del Graal per sanare il Nome del Padre – che abbiamo pragmaticamente imparato a usare senza bisogno di crederci – ma è piuttosto il fatto di mettere in rilievo le nervature del paesaggio che ha di fronte, quelle che la nevrosi contemporanea ci mostra come debolezza, fallimento, vanificazione, disperazione, per farle emergere come linee di forza. Se prendiamo gli spunti che Calvino ci dà nella sua lettura del nuovo millennio, la leggerezza non è necessariamente il disimpegno, la deresponsabilizzazione che si diffonde progressivamente in tutti gli strati sociali – e che nella nostra pratica incontriamo come ostacolo alla rettifica soggettiva – perché può essere la forza che sottrae al peso di vivere. La rapidità non è l’inevitabile prontezza postfordiana della lean production, lanciata all’inseguimento delle variazioni di gusto del consumatore, perché può essere la velocità non misurabile di un tempo logico con cui sfuggire alla prigione della nevrosi. L’esattezza non è per forza di cose la precisione della tecnica che ci domina perché può essere la fedeltà icastica del ricordo entro cui scorre il presente proteiforme della vita. La visibilità non è l’ineluttabile deriva verso le sirene della società dello spettacolo perché può esprimersi nella potenza delle immagini indelebili che hanno segnato la nostra esperienza. La molteplicità non è obbligatoriamente l’eccesso che ci satura senza saziarci, perché può essere l’infinita varietà nata dell’inesistenza dell’Altro, che non ha bisogno di essere coordinata dal Nome del Padre per trovare forme locali di coerenza. E, a capo di tutto questo, la precarietà non ha come sola conseguenza l’instabilità che rende ansioso il nostro modo di vivere. Precario infatti, all’origine, è ciò che è ottenuto attraverso la prex, la preghiera, e che proprio in quanto concesso dall’Altro non dura per sempre. La precarietà implica dunque una spinta a riaffermare la domanda, a riconnettersi con l’Altro al di là della sua inesistenza, a uscire dall’autoerotismo dei sintomi contemporanei, dove rimpinzare gli appetiti del desiderio è semplicemente una strategia biopolitica di silenziamento. I confini tra clinica e politica, nel nostro campo, sono sempre più intrecciati, e dobbiamo riuscire a vederlo con sempre maggiore chiarezza.
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Febbraio 2025
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