Conferenza tenuta a Milano il 20 gennaio 2018 presso la Sezione Clinica dell'Istituto freudiano Marco Focchi Il tema di lavoro che abbiamo previsto per quest’anno è la psicosi. Bisogna dire che nella psicoanalisi la psicosi non ha avuto posto da subito. La scoperta freudiana, come è noto, ha preso le mosse dell’isteria, e tutta la definizione delle nevrosi procede dalle strutture che Freud, inizialmente con Breuer, ha trovato nel lavoro con le sue pazienti isteriche. Nell’esperienza freudiana la psicosi ha avuto tutto sommato un ruolo marginale. Freud la definiva a partire da un conflitto che, secondo lui, per questi pazienti si stabilisce con la realtà. Se le nevrosi mettono in evidenza un conflitto tra l’io e le forze pulsionali, un conflitto intrapsichico, nella psicosi Freud vedeva invece l’io entrare in contrasto con la realtà, ritirando da essa la propria libido per reinvestirla su un piano puramente narcisistico. Le psiconevrosi si dividevano infatti per Freud in nevrosi di traslazione – che consentono un investimento oggettuale, a partire dal quale si creano le condizioni che rendono possibile la traslazione analitica – e in nevrosi narcisistiche o psicosi, che proprio per il ritiro narcisistico della libido non consentono la produzione della traslazione e non sono di conseguenza accessibili alla cura. Nella bibliografia freudiana non troviamo infatti casi di psicosi. C’è qualche osservazione sparsa, come quella su un caso di paranoia che contraddice la teoria psicoanalitica, ma non c’è nessuna esposizione di casi psicotici dell’ampiezza e dell’importanza che troviamo con il caso di Dora, con l’Uomo dei Lupi, con l’Uomo dei Topi, con il piccolo Hans. Abbiamo naturalmente il caso Schreber ma, come è noto, il caso Schreber è un libro. Non è un paziente che Freud abbia avuto in trattamento, è un libro che gli è stato messo in mano da Jung, il quale lavorando al Burghölzli era invece quotidianamente a contatto diretto con pazienti psicotici.
La teoria freudiana della psicosi non procede così da un’esperienza clinica, ma da una lettura. Possiamo dire però che si tratta di una lettura penetrante, assolutamente illuminante, che per la prima volta riesce a entrare nel meccanismo della follia e a mostrarlo dall’interno. La psichiatria ottocentesca, infatti, aveva certamente studiato con attenzione il fenomeno della follia in tutte le sue manifestazioni, e aveva raccolto una quantità importante di osservazioni, di fenomeni, di quadri clinici. Aveva sviluppato una straordinaria classificazione a cui si erano dedicate la psichiatria tedesca e francese, e anche quella italiana. La psichiatria di quell’epoca appartiene tuttavia a una medicina segnata dal fondamentale contributo di Claude Bernard, cioè dell’autore che ha determinato l’inscrizione della medicina nel discorso scientifico. Dopo Claude Bernard la medicina si appropria del metodo della scienza. Cosa implica il metodo scientifico? Un’attenta osservazione, una meticolosa raccolta di dati, e un intervento razionale basato sul calcolo. La psichiatria ottocentesca, figlia della medicina scientifica, si vuole dunque a suo volta scientifica, e ha come proprio oggetto il folle, o la follia che si manifesta nel folle. Prende così il folle come oggetto di osservazione. Lo studia, lo classifica, cerca di capirne le varietà e le manifestazioni. Ne coglie e ne analizza le ricorrenze, le espressioni tipiche. Fa, insomma, delle tipologie della follia. La psichiatria è una scienza sostanzialmente classificatoria e, ai suoi esordi, non ha nessuna ambizione o possibilità di intervento sulla malattia mentale, che analizza tuttavia e definisce nei minuti dettagli. La situazione degli studi psichiatrici rimane così fino agli anni Cinquanta del Novecento, fino alla scoperta dei primi farmaci psicotropi. È infatti uno psichiatra militare francese, Henri Laborit, il primo a utilizzare la cloropromazina su pazienti con disturbi mentali, e la sua scoperta è un tipico caso di serendipity. Stava infatti collaborando con un anestesista nel tentativo di ridurre lo choc post-chirurgico nei casi in cui si poteva scatenare una reazione neuroendocrina, che rischiava di essere fatale. Stava tentando di realizzare un cocktail litico, quando si rese conto che la prometazina, insieme a un altro ingrediente del cocktail litico, ha un particolare effetto analgesico e che, somministrato a pazienti con disturbi mentali, ha l’effetto di ridurre le allucinazioni. Questo mette in grado i pazienti schizofrenici che sentono delle voci non di silenziarle, ma di distanziarsene e anche di ignorarle. Quando Laborit pubblica i risultati delle sue osservazioni, l’industria farmaceutica che produceva la sostanza usata dallo psichiatra francese brevetta il farmaco che la contiene col nome di Largactil, cioè “farmaco a largo spettro d’azione”. Per la psichiatria si apre allora una nuova era, quella che arriva fino ai giorni nostri, fino alle ultime edizioni del DSM, che hanno spinto all’estremo la patologizzazione e la medicalizzazione dei comportamenti in una classificazione reticolare, dove a ogni manifestazione corrisponde un farmaco per il trattamento di quel che viene considerato un disturbo. La psichiatria dunque, nell’ambizione di raggiungere lo stesso statuto scientifico riconosciuto alla medicina, mette prima tutta la propria attenzione al compito classificatorio, prendendo la malattia come oggetto d’osservazione, e poi si concentra sulla terapia farmacologica quando diventano disponibili le sostanze adeguate. Si tratta quindi sempre, in questa prospettiva, di vedere la follia dall’esterno. Freud, sulla traccia di Schreber, segue una via completamente diversa. Il libro di Schreber “Le memorie di un malato di nervi” viene pubblicato nel 1903. Il testo di Freud su Schreber è del 1911. Siamo quindi nell’epoca della psichiatria prefarmacologica, nell’era della psichiatria che osserva il malato, ma non ha nessun mezzo d’intervento. Anche Freud, nel suo lavoro, non prospetta delle possibilità d’intervento, ma c’è un rovesciamento completo nella modalità di approccio. Se lo psichiatra osserva dall’esterno la minima manifestazione del delirio e i segni della patologia, Freud entra nel delirio, nelle sue strutture interne, tenta di penetrare il significato che il delirio ha per il soggetto. La straordinaria innovazione dello studio di Freud su Schreber è proprio questa: che per la prima volta il malato non è preso come oggetto d’osservazione, non è visto dall’esterno, ma è preso come interlocutore – seppur in absentia – e come soggetto. Il delirio è visto dall’interno. Prendere il paziente come soggetto è il punto di vista che caratterizza la psicoanalisi, ed è l’angolo d’approccio di Lacan nella descrizione delle psicosi, in particolare nel suo caso più famoso, quello su cui ha costruito la sua tesi, il caso Aimée. Sin dai suoi primi seminari Lacan metteva fortemente l’accento sul tema dell’intersoggettività, che implica il fatto di prendere l’altro, il paziente, come soggetto, e non come oggetto della cura. Sappiamo che poi Lacan criticherà l’idea dell’intersoggettività, l’idea cioè che l’esperienza psicoanalitica sia fatta dall’interazione tra due soggetti. La sua critica non nasce però dalla destituzione del paziente dalla posizione di soggetto. Questo, al contrario, rimane saldamente al suo posto e continua a essere così. Se la psicoanalisi non è un’esperienza intersoggettiva è perché è lo psicoanalista a non entrare in gioco come soggetto, e occupare piuttosto la posizione di oggetto. Il rapporto con il paziente resta invece sempre il rapporto con un soggetto. La svolta che Lacan mette chiaramente a punto elaborando la nozione di soggetto dell’inconscio, nozione chiave per definire inizialmente l’intersoggettività, deve comunque fondamentalmente il suo primo impulso al lavoro di Freud. Come abbiamo detto, Freud non vede Schreber come paziente, ma si trova davanti a un libro, però attraverso il libro interroga il soggetto Schreber. Facciamo quindi conoscenza più da vicino di questo straordinario personaggio, seguendo la traccia del prezioso libro di José Maria Alvarez La invencion de las enfermedades mentales, uno dei testi di orientamento psicoanalitico più ricchi e più completi sull’argomento delle psicosi Schreber nasce a Lipsia il 25 luglio 1842. Da quel che si sa gli Schreber avevano sempre vissuto a Lipsia, in Sassonia, e Schreber, come ogni buon psicotico, si occupò di ricostruire meticolosamente la propria genealogia. Gli antenati di Schreber hanno sempre vissuto in Sassonia e sono stati universitari, medici, avvocati, professori, e pare che i maschi della famiglia siano stati tutti scrittori prolifici. Il padre, Moritz, dirigeva una clinica ortopedica, probabilmente insieme a Fanny Haase, che era la sorella minore di sua moglie. Medico e specializzato in ortopedia, Moritz si occupava in particolare di riabilitazione della colonna vertebrale, ma estendeva la sua pratica al di là del mero terreno clinico, abbracciando il campo educativo e su questa congiunzione tra pratiche ortopediche e filosofia educativa ha realizzato diverse pubblicazioni. Per un periodo accettò la proposta di un aristocratico russo, certo Stackovich, di essere suo medico privato, cosa che lo portò, seguendo l’aristocratico, a Vienna e a Berlino, dove poté approfondire i suoi studi. Sua moglie, Pauline Haase, proveniva da una famiglia colta, con una lunga tradizione melomane. Moritz e Pauline ebbero cinque figli, di cui Paul è il terzo. Accanto alle sue attività professionali e intrecciato con esse, Moritz sentì l’impegno di rafforzare la salute fisica e mentale attraverso le discipline della ginnastica e creò, insieme ad altri, la Società della Ginnastica. Ne parla nel suo libro più famoso, il “Manuale popolare di ginnastica da camera”, dove espone la sua passione per questa attività. In questa passione per l’educazione fisica Moritz si inventa una serie di apparecchiature destinate a favorire l’esercizio. Tra queste figura un corsetto che Lacan ha definito come “destinato a mantenere dritto ciò che per qualche ragione si trova a essere leggermente storto” (Sem.VIII p.282). In Schreber, padre probabilmente questa vocazione a raddrizzare ciò che è storto raggiunge intensità particolari, ma in molti genitori di adolescenti problematici che vedo s’incontra la stessa passione di raddrizzare le cose, costi quel che costi. Trovo significativo infatti nella frase di Lacan che quel che è storto si trova a esserlo “per qualche ragione”. A questa ragione bisognerebbe dare udienza, ma la vocazione al raddrizzamento, per l’appunto, non sente ragioni, non segue la curvatura dell’inconscio, ma applica un corsetto. Il padre di Schreber è il padre del raddrizzamento, cioè quel tipo di padre che diventa tossico, per via dell’ossessione che lo abita di prosciugare il godimento residuo lasciato indietro dalla castrazione. È un padre – ma può benissimo essere anche una madre – che non lascia spazio di ritirata, che non lascia via d’uscita, e la preclusione, nel senso di Lacan, è la risposta alla sua pressione educativa. All’età di quarantatré anni Moritz ebbe un incidente che segnò il corso della sua vita: una pesante scala di ferro gli cadde in testa, e dopo breve tempo cominciò a soffrire di un mal di capo che si trasformò in cefalea cronica. Questo lo portò a ridurre drasticamente le sue funzioni ufficiali e a isolarsi nella propria abitazione, dove diede impulso alla sua attività intellettuale e letteraria. Molti commentatori vedono in questa reclusione tra le mura di casa ciò che lo avrebbe portato a diventare un tiranno domestico assillato da rappresentazioni ossessive e impulsi assassini. Franz Baumeyer, William Nederland, Ida Macalpine, Octave Mannoni vanno in questo senso, descrivendo il padre di Schreber come un malato, che irregimentava i figli in modo autoritario sottoponendoli a misure disciplinari costrittive. Anche le pubblicazioni di Moritz Schreber sono viste da questi autori come indicazioni di un temperamento eccentrico, per non dire anche un po’ svitato, fino a riconoscere in lui il vero paranoico della famiglia. I più estremisti, come Morton Schatzman, giungono a considerare una relazione tra la filosofia educativa esposta nelle opere di Moritz Schreber e le idee all’origine del nazismo, che uccideva in nome dell’igiene e della razza. La vita della moglie di Moritz non ha generato tanti studi come quella del marito. Visse novanta anni e dopo la morte del marito continuò a utilizzare l’appellativo Schrebervereine per le associazioni che andavano costituendosi in suo nome, dando come sola condizione che venisse riconosciuta e onorata la memoria del suo sposo. Come il marito anche lei è stata fatta oggetto di valutazioni psicologiche, che restano basate su punti di vista estremamente soggettivi dei commentatori, considerata la scarsità di dati clinici a disposizione. Alcuni osservarono, a partire da alcune fotografie di Pauline, che si trattava di una donna passiva e gravemente depressa. Ma sono appunto impressioni più che diagnosi fatte con qualche fondamento. È interessante anche considerare, almeno di scorcio, la vita dei fratelli di Schreber. I cinque figli di Moritz e Pauline sono Daniel Gustav, Anna, Daniel Paul, Sidonie e Klara. Gustave e Sidonie rimasero single, Paul e Klara si sposarono, ma senza discendenza, Anna invece ebbe sei figli. Gustav, il primogenito, può essere interessante per chiarire le crisi psicotiche di Paul, in particolare per la vicenda del suo suicidio. Gustav inizialmente studiò chimica, ma si laureò in filosofia. Mise in piedi un piccolo commercio di prodotti chimici. Abbandonò poi l’attività commerciale per laurearsi in diritto ed entrare nella Magistratura di Lipsia. Salì rapidamente i gradini della carriera, che però s’interruppe quando si sparò in testa all’età di trentotto anni. È interessante notare, e risulta documentato, il fatto che poco prima di suicidarsi Gustav era stato nominato per un incarico di alto rango a Berlino. Questo evidentemente è significativo, dato che la crisi di esordio di Paul Schreber è collocabile con precisione al tempo in cui fu nominato presidente alla Corte d’Appello di Dresda, carica giuridica particolarmente di alto livello. Con tutte le cautele del caso potremmo inferire che anche Gustav fosse psicotico. Possiamo notare infatti tra l’altro la precarietà delle identificazioni immaginarie su cui si sosteneva: dai diversi cambi di facoltà, a quelli di occupazione, avendo iniziato a lavorare come fabbricante di prodotti chimici, come suo cognato, e avendo proseguito come giudice, come il fratello minore. Sappiamo per altro che anche Paul tentò diverse volte la via del suicidio, e la catastrofe delirante giunse proprio con la sua nomina elevata. La differenza tra Paul Schreber e il fratello, è che Paul ha potuto elaborare un delirio, e questo lo ha messo a distanza dal rischio del passaggio all’altro. Vediamo ora la vita di Daniel Paul Schreber. Segue gli studi all’Università di Lipsia in modo brillante, e inizia la pratica presso lo studio di un avvocato. Passa con buon risultato un concorso con cui entra nella carriera giuridica e comincia man mano a salire i gradini gerarchici previsti all’epoca. A trentasei anni si sposa con Ottilie Sabine Behr, continuando la carriera con il vento in poppa, fino a che viene nominato Consigliere di Corte d’appello. La sua competenza giuridica, la sua eloquenza, la sua posizione brillante lo spinsero a candidarsi per le elezioni del Reichstag per l’Unione dei consumatori nazional-liberali. Suoi rivali erano un avvocato, Hermisch, e soprattutto il socialista Geiser, grande favorito giacché la città di Lipsia era da tempo un feudo socialista. Schreber fu sconfitto, aveva quarantotto anni. Sfinito partì con la moglie per lo stabilimento balneare di Sonnenberg, dove sperava di riprendersi rapidamente. Non riuscì però a trovare sollievo e ritornò a Lipsia per entrare nella clinica del famoso neurologo e neuroanatomopatologo prof. Paul Flechsig. La permanenza nella clinica di Flechsig è quella che Schreber rievoca nelle sue memorie come il periodo della sua prima malattia nervosa. A Sonnenberg Schreber rimane per quaranta giorni e viene trattato con diverse sostanze, dal bromuro ai sedativi, cloralio, morfina. Non migliorava tuttavia, stentava nel parlare, presentava una fragilità emotiva e tentò due volte il suicidio. Permanendo nel suo stato senza benefici, Schreber consulta il prof. Flechsig, con una cartella clinica che menziona disforia, iperfagia, astenia, un nuovo tentativo di suicidio, iperestesia auditiva. Flechsig fa una diagnosi di ipocondria cronica. I commentatori hanno poi considerato questi dati in modo molto eterogeneo, e il dibattito verte soprattutto sul fatto se considerare o no questa prima crisi come l’inizio clinico della psicosi o un mero episodio depressivo con sintomi ipocondriaci. È difficile in effetti fare una diagnosi precisa stante la scarsità di dati clinici in questa prima fase. Ci sono solo alcuni fenomeni di smembramento dell’immagine del corpo, una convinzione irrealistica di perdita di peso, la sensazione che gli si menta intenzionalmente, la sensazione di essere incurabile e di imminenza di morte del soggetto, che sembrano configurare il genere di certezze che prenderà corpo nell’assioma delirante caratteristico della crisi maggiore. Può quindi essersi trattato dell’inizio clinico della psicosi senza ancora la costituzione del delirio, e i fenomeni relativi al corpo e ipocondriaci possono girare intorno alla certezza, che apparirà più tardi, di dover essere trasformato in donna. Uscito dalla crisi, Schreber trascorse comunque otto anni sereni con la moglie, e riprese il lavoro come funzionario del Tribunale di Lipsia, dove la sua carriera proseguì fino all’annuncio della sua imminente nomina a Presidente di Corte d’Appello di Dresda. Dopo tale annuncio Schreber fece alcuni sogni a cui cercò di non dare importanza, ma che non poté dimenticare. Sognava che la sua malattia ricominciava e tanto si sentiva infelice nel sogno, tanto era felice al risveglio. Un giorno, tuttavia, svegliandosi viene colto dallo strano pensiero che sarebbe bello essere una donna nel momento in cui viene penetrata da un uomo. Considera che, data la stranezza dell’idea, se fosse stato completamente sveglio l’avrebbe respinta, ma pensa che può esserci stata un’influenza esterna a indurre in lui tale rappresentazione. In questa fantasia ipnopompica riconosciamo la matrice primordiale dei successivi sviluppi deliranti e di tutte le esperienze xenopatiche. Dopo aver assunto, nell’autunno del 1893, la funzione di Presidente di Corte d’Appello, Scherber comincia a sentire segni di affaticamento e di esaurimento mentale. Inizia a soffrire di insonnia, a sentire un’intrusione di tipo xenopatico, una sorta di scricchiolio che assume presto un carattere minaccioso. Torna allora a farsi visitare dal prof. Flechsig, che gli raccomanda una cura del sonno con sonniferi di nuova concezione. Quando però Flechsig si rende conto della gravità della situazione di Schreber, lo ricovera di nuovo nella sua Clinica Universitaria. Schreber resta cinque giorni insonne in preda a una tristezza infinita, dopodiché di nuovo tenta il suicidio, cercando di impiccarsi con delle lenzuola. Rimane poi ricoverato per sei mesi nella Clinica psichiatrica e neurologica dell’Università di Lipsia. Flechsig era adepto dell’orientamento organicista, che aveva cominciato a dominare la psichiatria universitaria a partire dal 1880. Convinto, come i professori dell’epoca, dell’incurabilità delle malattie mentali, non si dedicava in modo particolare alla clinica e alle terapie. Schreber intanto sprofondava nella fase più schizofrenica della sua psicosi, restando nella clinica dove riceveva regolarmente le visite della moglie. Quando quest’ultima fa un viaggio di quattro giorni a Berlino a casa del padre per prendersi un breve riposo, Schreber ha una nuova crisi depressiva. Da quel momento cerca di evitare le visite della moglie perché lei, come il resto dell’umanità, si erano ormai trasformati in “uomini fatti fugacemente”. Decisiva per il suo crollo spirituale fu una notte in cui ebbe un numero spropositato di polluzioni. Da quel momento cominciarono gli scontri con le forze soprannaturali e soprattutto con una connessione nervosa che il prof. Flechsig aveva stabilito con lui, e cominciò da quel momento a sentire che le intenzioni del prof. Flechsig nei suoi confronti non erano pure. Parte da questa connessione nervosa la costruzione del gran delirio schreberiano, con le prime allucinazioni auditive e il processo, destinato a realizzarsi nei secoli, di trasformazione in donna. Con l’affioramento dei due elementi di base imprescindibili per l’edificazione del delirio – la certezza di essere oggetto di manipolazioni nel proprio corpo e la localizzazione di un Altro malvagio – Schreber si mette al compito di costruire un delirio esplicativo e, alla lunga, stabilizzatore. Man mano infatti che il delirio prende corpo, si attenua la perplessità enigmatica iniziale. Considerato incurabile da Flechsig, dopo sei mesi viene trasferito nel manicomio di Sonnerstein, dove trascorre otto anni. Durante gli anni di permanenza di Schreber a Sonnerstein, che era considerato un centro d’avanguardia e attrezzato per i fini terapeutici – Guido Weber, esperto di psichiatria forense, che ne era il direttore, inviava regolarmente al Ministero di Giustizia dei resoconti sullo stato di salute del suo paziente. Nel primo resoconto sottolinea lo stato allucinatorio di Schreber, e la sua situazione delirante. Al momento del ricovero si considerava morto e in stato di putrefazione. Immaginava che il suo corpo fosse oggetto di abominevoli manipolazioni, e che lo avevano trasformato in donna. Passava ore completamente immobile, in stato stuporoso, perplesso e pietrificato. Man mano poi il delirio ha acquisito un carattere mistico e religioso. Schreber restava inaccessibile e rifiutava di nutrirsi, e fu uscendo un po’ dal suo sprofondamento in sé che cominciò a riferire alcuni aspetti del suo fantastico sistema delirante. Era convinto che alcune persone che aveva conosciuto in passato si trovassero lì nel manicomio, era poi convinto che il mondo avesse subito una completa trasformazione, considerava necessario si ristabilisse la pace con Dio. Tutti i fenomeni descritti, conclude Weber, fanno parte del delirio allucinatorio. Contrariamente a Flechsig, Weber considerava però che se le idee deliranti non si fossero fissate e consolidate in un sistema chiuso, e si poteva secondo lui sperare che il decorso della malattia prendesse una china favorevole. Schreber riassunse il primo periodo di permanenza nel manicomio dicendo che per il primo anno di internamento al Sonnerstein i miracoli erano di carattere così inquietante che temeva costantemente per la sua vita, la sua salute, la sua ragione. Nel 1894 ci fu un cambiamento di posizione soggettiva. Fino a quel momento si era drasticamente battuto contro l’ignomignosa necessità di trasformarsi in donna. Ora invece si era come riconciliato con il destino sacrificale che l’Altro divino esigeva per saziare la propria brama di godimento. Schreber accetta il destino che gli è assegnato, e questo lo spinge ulteriormente verso la stabilizzazione. Non appena cambia la sua politica con Dio, torna alle sue vecchie abitudini: riprende a fumare, a giocare a scacchi, a suonare il piano. Poiché non c’è altra soluzione che accettare di trasformarsi in donna, si predispone a essere fecondato dai raggi divini per generare una nuova razza. Comincia a prendere appunti delle sue esperienze, e poi, a partire dal 1897, a pianificare la stesura delle sue Memorie. Nelle Memorie Schreber fa una selezione dei fatti che gli interessa raccontare, quelli che sono Denkwürdig, degni di essere raccontati, e sono quelli che riguardano le sue straordinarie esperienze xenopatiche, le sue rivelazioni religiose, la sua lotta titanica con Dio, le sue reazioni al destino impostogli di trasformarsi in donna. In primo luogo, man mano che Schreber costruiva il suo delirio, riusciva a modulare la sua relazione con l’Altro malvagio, cosa che ridusse molto l’orrore delle manifestazioni xenopatiche di cui era oggetto in modo continuativo. In secondo luogo, sia il pubblico a cui le memorie erano destinate, sia gli obiettivi si rinnovarono e cambiarono. All’inizio Schreber voleva convincere i medici e i colleghi che il suo stato era assolutamente compatibile con le sue responsabilità professionali e personali. Dopo l’interruzione del processo per cui era stato internato, le Memorie si rivolgeranno piuttosto alla moglie, alla famiglia, al pubblico in generale. Schreber uscì dal Sonnerstein grazie a un processo che curò lui stesso e che vinse, malgrado il parere contrario degli esperti consultati, tra cui il dott. Weber. Uscito dal Sonnerstein, Schreber si stabilì nel domicilio di sua madre, provvisoriamente, poi a Lipsia, Quindi si trasferì a Dresda con la moglie e una giovinetta di tredici anni che lui e la moglie avevano trovato all’orfanotrofio e che poi adottarono. I rapporti con la moglie si erano cominciati a deteriorare dopo il viaggio di lei a Berlino. Dopo qualche mese Schreber rifiutò di firmare i documenti con cui Sabine, la moglie, avrebbe potuto incassare il suo stipendio di giudice. Lei tuttavia non intraprese mai nessun processo, malgrado avesse il sostegno del superiore di Schreber, e Scheber non chiese mai il divorzio. Negli ultimi anni Schreber non tornò più a parlare dei suoi deliri, anche se sentiva sempre un ronzio dentro la testa. Dopo la morte della madre, a 92 anni, a distanza di sei mesi Sabine ha un attacco apoplettico, e per Schreber si scatena un’ultima crisi. Ha ormai 65 anni. A differenza che nelle sue due crisi precedenti non chiede però di tornare da Flechsig, va invece nella clinica di Dösen, dove trascorre gli ultimi tre anni della sua vita. Le cartelle cliniche riferiscono una sua chiusura, uno stato di inaccessibilità, un suo mormorio di frasi che si riferiscono a cadaveri. Mangia poco – perché dice di non avere stomaco – sta continuamente a letto, scrive ogni tanto traccianoo lettere a stento decifrabili. Muore il 14 Aprile 1911 con sintomi di dispnea e di insufficienza cardiaca. Sua moglie, per quanto molto più giovane, gli sopravvive solo di un anno.
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