Marco Focchi Conferenza tenuta a Genova il 19 maggio 2017 nell'ambito del ciclo "Una nuova clinica per i sintomi contemporanei", organizzato dal Centro Moebius. Che cosa è il corpo nella società dello spettacolo? Nella dimensione spettacolare il corpo prende naturalmente un ruolo di primo piano, viene esibito, ostentato, innalzato. Possiamo dire in prima battuta che, nella società dove domina lo spettacolo, il corpo che mi rappresenta, e mi deve rappresentare nella forma migliore: l’immagine del corpo nella società dello spettacolo, da questo punto di vista, va in parallelo con l’aspetto che avevo studiato in un articolo di qualche anno fa con il titolo: “La salute spettacolare”. Il punto cruciale nell’idea di salute così intesa è la nozione di benessere, che nell’uso spettacolare non riguarda semplicemente il buon equilibrio con cui si compensano gli aspetti positivi o negativi della vita, ma piuttosto una spinta alla massimizzazione, a una crescita continua una progressione praticamente senza limite sintetizzata dal concetto di Wellness, introdotto da Halbert L. Dunn. Il Wellness è qualcosa di diverso dalla buona salute, che può essere definita come uno stato di libertà dalle malattie, in cui l’individuo si trova in relazione non conflittuale con il proprio ambiente, in una condizione omeostatica. Il Wellness è concettualizzato come dinamico – una condizione di cambiamento continuo nel quale l’individuo si spinge avanti scalando potenziali sempre maggiori di funzionamento. Ed ecco la definizione che ne dà Dunn: “L’High-level Wellness è un metodo integrato di funzionamento orientato verso la massimizzazione del potenziale di cui l’individuo è capace nell’ambito in cui funzione.” (High-level Wellness Means” – In Canadian Journal of public Health – vol.50 - n°11 – November 1959) I termini chiave sono qui “massimizzazione” e “funzionamento”, che riflettono l’ideologia utilitarista soggiacente, e che fanno saltare il rapporto con l’ideale come limite. In modo analogo alla salute, la rappresentazione del corpo spettacolare è proiettata in un’utopia migliorista che tende non verso un corpo ideale, come potrebbe essere quello della statuaria greca, ma verso il migliore dei corpi possibili. È interessante allora notare a questo proposito il divergente trattamento del corpo fatto dalla chirurgia estetica e dalla body art.
La chirurgia estetica, una volta riservata alle élites, si è popolarizzata e mediatizzata, diventando oggetto di numerose serie televisive, alimentando il mito della bellezza intramontabile e dell’eterna giovinezza. La versione ironica ed esasperata del movimento di mitizzazione della bellezza e dell’eterna giovinezza la troviamo in un film del ’92 di Robert Zemeckis La morte ti fa bella (Death becomes her), dove Goldie Hawn e Meryl Streep si contendono il prestante Bruce Willis grazie a un elisir prodigioso fornito da una sorta di misteriosa maga interpretata da Isabella Rossellini. Sottratte alla morte e all’invecchiamento con l’aiuto delle sue arti le due rivali sopravvivono all’oggetto della loro contesa, sostenute da corpi ormai continuamente in riparazione. La chirurgia estetica si fonda su un concetto stereotipo, tradizionale di bello, e lo esaspera, lo tende, lo espande fino a farlo scoppiare. La popolarizzazione della chirurgia estetica è passata in Italia attraverso numerose trasmissioni televisive, la prima delle quali è stata “Il brutto anatroccolo”, di Amanda Lear nel 1998. Poi c’è stata “Bisturi! Nessuno è perfetto”, condotta da Irene Pivetti e da Platinette nel 2004. Poi “Cambio vita mi sposo”, condotta da Natasha Stefanenko nel 2009. Si è trattato di un vero e proprio bombardamento mediatico che ha imposto nelle coscienze la “necessità” di adeguarsi ai canoni di una bellezza ricostruita chirurgicamente. Nella body art abbiamo invece l’esempio di Orlan, che usa il proprio corpo sottoponendolo a svariati interventi di chirurgia estetica, ma assumendo un presupposto diverso, partendo dalla decostruzione della nozione acquisita di bello per mostrare che la bellezza del corpo è invece qualcosa da creare, da inventare. “Lotto contro un’identità unica e unilaterale. Mi piacciono le identità molteplici e nomadi. Tutto quel che faccio si erge contro gli standard della bellezza femminile inscritti nelle carni femminili, metto in questione lo statuto del corpo attualmente e nella società futura, attraverso manipolazioni genetiche e le nuove tecnologie.” La stessa critica decostruttiva viene, in modo diverso, da Cindy Sherman nel suo lavoro Untitled film stills, dove l’artista s’insinua invece nelle immagini stereotipate della femminilità, posando come generico personaggio femminile di film, come lavoratrice, come vamp, come casalinga solitaria. Cindy Sherman recita la parte di attrici che stanno recitando, raddoppia la finzione e, rendendoci riconoscibili con un senso di familiarità dei fermo-immagine che in realtà non sono in nessun film, ci fa così sentire quanta forza questi stereotipi abbiano esercitato nella nostra vita. Il carattere della società dello spettacolo non consiste solo nell’uso di immagini che perdono il rapporto con la realtà. La perdita di contatto con la realtà è un aspetto fortemente sottolineato da Guy Debord, quando dice che lo spettacolo cancella i limiti del vero e del falso in quanto subordina l’esperienza della verità all’organizzazione dell’apparenza. In fondo però possiamo dire che già il barocco spettacolarizza l’arte, coinvolge l’osservatore dal punto di vista sensoriale per stupirlo, convincerlo, rapirlo, spiazzarlo e prenderlo nell’illusione. Il carattere che si aggiunge nella società dello spettacolo – come nota il filosofo Riccardo Fanciullacci – è l’atomizzazione del tempo, la disaggregazione della continuità dell’esperienza. Se la spettacolarità barocca congiunge con l’eterno – come mostra significativamente e in modo teatrale la straordinaria Santa Teresa di Bernini – la spettacolarità della società capitalista offre invece atomi di tempo che non si soffermano sul godimento, e che rilanciano incessantemente da un desiderio a un nuovo desiderio. La capacità di confondere desiderio e rappresentazione nell’illusionismo barocco porta verso la sospensione estatica. La cancellazione del limite tra vero e falso nella spettacolarità capitalistica rifugge invece la sospensione, per inseguire lo scivolamento metonimico del desiderio. Il falso senza replica e il presente perpetuo sono i caratteri combinati, individuati da Debord, che insieme alla costante innovazione tecnologica, rafforzano l’autorità spettacolare nell’oblio del passato e nell’indifferenza per l’avvenire. Bisogna osservare tuttavia che la critica della società dello spettacolo mossa da Debord – osserva Fanciullacci – resta nell’ambito della logica della rappresentazione, del rapporto tra copia e originale. La posta in gioco è per lui quella della verità, anche se non intesa come verità oggettiva, come bisogni veri a fronte di bisogni falsi indotti dall’organizzazione spettacolare, ma verità come resoconto più comprensivo e più ampio di quello desumibile dall’organizzazione spettacolare e in cui abbia senso riconoscersi. Quel che dobbiamo chiederci ora non è se sia possibile retrocedere dalla logica spettacolare – che producendo rappresentazioni della realtà contraddittorie finisce per inghiottire e annullare la discriminazione tra realtà e apparenza – ma se sia interessante farlo, se sia opportuno, se sia proponibile fare un passo indietro ripiegando sui vacuoli di resistenza all’organizzazione spettacolare, oppure se non sia necessario prendere slancio dall’organizzazione spettacolare per situarsi nel vuoto stesso di rappresentazione che la società dello spettacolo produce confondendo la linea del vero e del falso. Credo che contrastare la società dello spettacolo in nome della verità sia una partita perdente. Occorre piuttosto partire dal vuoto per ritrovare non la realtà della cui versione la società dello spettacolo si è impossessata, ma il reale che permette di far emergere in un precipitato di scrittura. Nel vuoto che la società dello spettacolo delinea e fa emergere si rifrangono tutti i sintomi contemporanei, quelli che abbiamo studiato in questo ciclo di incontri. La depressione, per esempio, che viene dal rifiuto dell’Altro e dal misurarsi con un ideale con il quale è impossibile identificarsi. La depressione — secondo i dati del Ministero della Salute – ha un’incidenza piuttosto importante nel nostro paese, e colpisce in Italia l’11,2% della popolazione. È chiaro che l’utopia migliorista, l’impeto efficientista, la brillantezza forzata dello spettacolo hanno delle ricadute su persone che non riescono a sintonizzarsi su questo tipo di richieste, e che tuttavia mantengono l’ideale come un dovere. Sentirsi di fronte a un compito senza la possibilità di realizzarlo è un aspetto della depressione, e il soggetto che perde l’aggancio con il dinamismo imposto dalla logica spettacolare senza rifiutarne il concetto, diventa esposto per questo alla depressione. Consideriamo poi il problema della dipendenza. In una società fondata sul consumismo e sul godimento, con la frustrazione che induce, il cortocircuito della sostanza è a portata di mano, e ci sono quasi tre milioni di consumatori di sostanze stupefacenti in Italia. Prendiamo il panico, che è stato senz’altro in crescita negli ultimi anni, e che possiamo vedere correlato al declino dell’autorità che sostiene il legame sociale. Analizziamo il problema dell’apprendimento e della caduta dell’attenzione, fenomeno che si riscontra sempre nelle scuole. Una difficoltà di concentrazione e di stare sui concetti è senz’altro correlativa alla rapidità del consumo di informazioni e alla nebulizzazione in cui il flusso d’informazione ci raggiunge. Il rifiuto inconscio del femminile e la violenza che provoca sono poi relativi alla ridefinizione sociale dei ruoli sessuali che – in conseguenza alla degerarchizzazione dei ruoli sessuali realizzatasi nel XX secolo – indebolisce la figura maschile con l’uscita dello schema patriarcale tradizionale.
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