Conferenza tenuta a Malaga il 31 maggio 2014, presso la sede della ELP di Marco Focchi Il corso in cui Miller ha fatto una lettura del seminario di Lacan Le sinthome, ha come titolo Pezzi staccati. È un titolo che rispecchia in effetti perfettamente il modo di esposizione delle questioni che Lacan affronta nel seminario. Si tratta di un approccio che va al di là del metodo di leggere Lacan contro Lacan, che da un certo momento in poi per Miller ha costituito il metodo di lettura del testo lacaniano, e va al di là di quel che può essere la lettura dei primi seminari dove, come lui si esprime, la fine non è identica all’inizio, perché si tratta di un lavoro in continua evoluzione e in continuo spostamento. I seminari di Lacan degli anni ’70 hanno un carattere discontinuo, frammentario, rapsodico, con illuminazioni aforistiche più che sviluppi argomentativi. Stabilendone il testo, Miller individua all’interno di ciascuna lezione alcuni fili, e un titolo che rende quel che gli sembra essere il tono maggiore della lezione. La decima lezione, che commentiamo oggi, ha come titolo “ La scrittura dell’Ego”, e direi che possiamo prendere questo titolo come filo conduttore: è l’idea del particolare rapporto che si stabilisce per Joyce tra scrittura e l’Ego. Il termine Ego non è abituale in Lacan. È un termine usato piuttosto nel lessico della psicoanalisi anglosassone. Lacan parla di moi e di Je, e attribuisce all’io una funzione immaginaria, che nella fase classica del suo insegnamento è definito come misconoscimento, opaco rispetto alla verità, che può effettuarsi solo sul piano simbolico. L’io ha dunque per il soggetto una funzione di schermo che nell’operazione psicoanalitica si tratta di contrastare. Solo nella misura in cui facciamo cadere le certezze narcisistiche a cui il soggetto si aggrappa per suturare la propria divisione, lo rendiamo alla verità che è verità di una mancanza, la verità della castrazione.
L’io dunque costituisce di solito un ostacolo per la psicoanalisi, ciò che si tratta di aggirare. Nel seminario Le sinthome, le cose sono poste diversamente. La scrittura, per Joyce, ha la funzione di supplire alla carenza dell’Ego, al fatto che l’Ego si è sfilato dalle proprie connessioni e non svolge la propria funzione. Quale funzione? Quella di collegare il soggetto al proprio corpo, di ancorarlo alla realtà del corpo. L’io si sviluppa sul piano narcisistico, mentre l’Ego è quel che dà un’idea di sé come corpo. Questa è la funzione che svolge normalmente, e per Joyce questa funzione si è inceppata. Lacan dice (p. 143) “Gli è capitato qualcosa è [ a Joyce ] che fa si che in lui, quel che si chiama Ego abbia svolto un ruolo completamente diverso dal semplice ruolo – semplice per modo di dire – che svolge nei comuni mortali”. In lui l’ego ha assolto una funzione che posso spiegare solo con il mio modo di scrittura”. Consideriamo come avviene l’ancoraggio del soggetto al proprio corpo. Nell’uomo infatti non è per niente spontaneo né scontato. È un processo che Lacan definisce nei suoi primissimi scritti e che procede dalla premessa di una duplice rottura vitale: rispetto all’adattamento al proprio ambiente, che per l’animale è invece naturale, e rispetto all’unità di funzionamento vitale, che nell’animale subordina l’azione alla percezione in modo immediato. Nell’animale la percezione fa scattare l’azione: c’è un collegamento diretto tra segnale percettivo e scarica motoria. Nell’uomo questo non avviene, e si verifica invece una fase prolungata di scoordinamento degli apparati corporei. Questa fornisce la base di una particolare propriocettività il cui effetto è l’esperienza del corpo come in frammenti. A partire da qui si costituisce la struttura arcaica del mondo umano, con fantasmi di smembramento e di disgiunzione. L’unità che non ha mai avuto luogo viene data nella fase dello specchio, dove la forma si presenta al bambino anticipata dall’immagine dell’altro. Il soggetto vede prefigurata nell’altro, nel simile, l’unità che può così fare sua, e coglierla dà luogo a quel che Lacan chiama una giubilante dissipazione d’energia che è il segno trionfale della nuova acquisizione. È la fase in cui il mondo proprio per il soggetto si forma come un mondo narcisistico. L’immagine narcisistica convoglia la libido sul corpo proprio. Qui però, dice Lacan, il mito di Narciso assume il suo senso pieno, in quanto insieme allo slancio vitale indica anche la morte, portando in sé l’insufficienza vitale da cui il mondo narcisistico è nato. L’unità narcisistica non è dunque in realtà una soluzione, perché rimane una dialettica aperta tra il mondo originario del corpo in frammenti e l’immagine narcisistica, che non spezza l’isolamento affettivo del soggetto. Mentre subisce l’influenza emotiva e motoria dell’effetto unificante, il soggetto non si distingue dall’immagine ma, al tempo stesso, nella fase della discordanza iniziale, l’immagine produce un effetto di intrusione, come l’aggiunta di una tendenza estranea. Lacan la chiama intrusione narcisistica. Mi sembra questo l’aspetto interessante: l’unificazione prodotta dall’immagine narcisistica dà luogo a una coscienza della propria esistenza fisica come unità corporea, ma proprio perché questa funzione unificante viene dall’esterno, introduce al tempo stesso un’alienazione primordiale. È il motivo per cui possiamo dire che l’uomo ha un corpo. Non è un corpo ma lo ha, perché gli appartiene, ma questo corpo gli è al tempo stesso estraneo, non è una dimora in cui sia collocato naturalmente. Il legame con il proprio corpo non è per tutti lo stesso. Può essere più o meno solido. Pensiamo per esempio all’atleta, che s’identifica con la potenza e le prestazioni dei propri muscoli, ma anche al topo di biblioteca, per il quale il corpo è il mero supporto dei suoi pensieri. In un certo senso possiamo dire che l’uomo abita il linguaggio in un modo molto più sicuro di quanto abiti il proprio corpo. Conosciamo fenomeni clinici come la depersonalizzazione, una vacillazione dell’io nelle strutture dell’immaginario, o l’amnesia d’identità, uno sganciamento dal senso di sé, ma ci sono fenomeni dove non è toccato il rapporto dell’io con l’immaginario corporeo, o del soggetto con i propri punti di repere simbolici, ma il rapporto dell’ego con ciò che dà il senso concreto della presenza fisica corporea. C’è infatti lo straordinario fenomeno delle esperienze extracorporee (OBE nell’acronimo anglosassone: out of body experience), in cui si verifica una separazione tra il corpo e la coscienza, dando la sensazione di fluttuare fuori dal corpo o percependosi da un punto esterno al proprio corpo. È un fenomeno noto nelle psicosi, ma non solo. Si può per esempio verificare negli stati ipnagogici, o con l’uso di sostanze allucinogene. Ho avuto pazienti, sicuramente non psicotici, che hanno riferito esperienze di questo tipo. Si può però indurre anche artificialmente. Due diverse equipe di psicologi, una condotta da Bigua Leggenhager a Losanna e un’altra condotta da Henrik Ehrsson a Londra, hanno condotto degli esperimenti dove si faceva indossare a dei volontari un video dispositivo google, e grazie a una telecamera posta alle loro spalle, veniva proiettata di spalle davanti a loro la loro immagine corporea. Venivano poi toccati sulla schiena dallo sperimentatore e il soggetto, che poteva vedere davanti a sé, nella proiezione, la bacchetta con cui veniva toccato, percepiva nell’immagine virtuale la causa della sensazione. In un altro esperimento veniva fatto oscillare un martello attraverso l’immagine virtuale, e per quanto il soggetto vedesse davanti a sé il martello percepiva il senso del rischio di essere colpito sulla schiena. Creando condizioni visive e tattili artificiali è dunque possibile spostare il senso della propriocezione corporea di un soggetto che non presenta nessun tipo di disturbo mentale o di alterazione. Possiamo ora, con queste premesse, considerare l’episodio famoso tratto dal libro di Joyce Ritratto dell’artista da giovane, che Lacan menziona nel seminario Le sinthome. Nell’episodio il protagonista, Stephen Dedalus entra in contrasto con alcuni compagni in merito a una questione di preferenze letterarie. Lui apprezza Byron che i suoi compagni considerano un eretico. La discussione degenera e si viene alle mani, dopo aver palleggiato un po’ la discussione tra Tennyson, favorito dai compagni, e Byron, Stephen viene spinto contro uno staccato e percosso con un cavolo per fargli rinnegare Byron, cosa che Stephen rifiuta di fare finché, con lacrime agli occhi, riesce a divincolarsi e a fuggire. Mentre sta ancora pensando ai maltrattamenti che ha appena subìto, si domanda perché non senta rancore nei confronti di quanti pochi istanti prima lo stavano tormentando. Nulla si è cancellato della loro codardia e della loro crudeltà, ma il ricordo della scena non suscita in lui nessuna rabbia, e tutte le descrizioni di amore e odio che ha letto nei libri gli sembrano irreali e la collera – questo è la frase famosa e spesso citata – era scivolata via da lui staccandosi come la buccia da un frutto maturo. È questo distacco dalle dimensioni affettive del corpo che Lacan nota mettendolo in luce, e trova insolito che ci possano essere “persone prive di affetti nel subire una violenza corporea” (p.145). Lacan si interessa infatti qui al rapporto con il corpo, “un corpo che ci è estraneo” (p.145). Si tratta del rapporto del corpo con l’inconscio. Questo rapporto si realizza attraversa gli affetti -cioè qualcosa “che si agita e reagisce” (p.145). L’affetto è il contrario dell’indifferenza – quella mostrata da Joyce – è reagire al colpo subìto. È interessante il modo spinoziano in cui Lacan indica qui l’affetto, come ciò che si agita e reagisce. Il rapporto immediato di azione e reazione non lascia tempo in mezzo. Le reazioni possono essere rapide o lente, ma non implicano una sospensione. In Televisione Lacan parla per la psicosi di rejet de l’inconscient, e credo che possiamo ritrovare quest’idea nel seminario XXIII, dove Lacan parla dell’estraneità del corpo e del suo legame con l’inconscio. Nel caso di Joyce vediamo in un certo senso, il fenomeno simmetrico rispetto a quello del rigetto dell’inconscio, vediamo un rigetto del corpo. C’è una correlazione tra il rigetto dell’inconscio e il rigetto del corpo. Nella conferenza Joyce il sintomo Lacan non usa la stessa formula, rigetto dell’inconscio, ma ne usa una equivalente, e anche più espressiva, perché parla di Joyce come disabbonato all’inconscio. “Se dico Joyce il sintomo è perché il sintomo abolisce il simbolo, se posso proseguire in questa direzione. Non si tratta solo di Joyce il sintomo, ma di Joyce in quanto, se così posso dire, diabbonato all’inconscio” (p.161). Un simbolo è una sostituzione, è un segno al posto di un’altro. Se prendiamo il linguaggio dal punto di vista del simbolico lo consideriamo a partire dalle sue leggi di sostituzione, ovvero essenzialmente i due grandi assi della metafora e della metonimia, che Lacan ha preso da Jakobson facendone la chiave di lettura in Freud per lo spostamento e la condensazione, i meccanismi attraverso i quali Freud ha descritto il funzionamento dell’inconscio. Il fatto di parlare implica effetti inconsci proprio nella misura in cui il linguaggio trae con sé le innumerevoli sostituzioni rese possibili dai meccanismi della metafora e della metonimia. È perché ci sono queste sostituzioni che si produce senso, ed è perché ci sono risonanze di senso che l’interpretazione analitica può far presa. L’inconscio è strutturato come un linguaggio nella misura in cui il linguaggio è governato dalle leggi della metafora e della metonimia. Ma sono proprio queste leggi che il linguaggio joyciano manda in frantumi. Joyce presenta una dimensione del linguaggio che esce dal binario della metafora e dalla metonimia, dà al linguaggio una piega diversa che non quella in cui produce senso. In fondo possiamo dire che non c’è inconscio che non sia strutturato come un linguaggio, ma al tempo stesso Joyce ci mostra un linguaggio che non produce effetti d’inconscio, e senz’altro questo è uno dei motivi della sua illeggibilità. A questo proposito, il nostro collega Sergio Laia, nel suo interessantissimo libro su Lacan e Joyce Los escritos fuera de si, formula un’ipotesi interessante. Parla chiaramente per Joyce di fallimento della metafora. Joyce, dice Laia, crea una scrittura che non cerca di ripararsi dalla fuga del senso (Laia p.137). Nell’opera di Joyce il fallimento della metafora si verifica nella misura in cui non elude il fatto che il senso sfugga anche se, grazie ad alcune costruzioni creative, si verifica qualche risonanza di senso (Laia, p. 137). Il fallimento della metafora in Joyce non è mascherato, perché per tutto il tempo la sua trama evidenzia che scappare, sfuggire è il modo stesso di essere del senso, e mostra così che “ la fuga è il reale del senso” (Laia p. 138, Miller “La fuga del senso”). Se, per esempio, confrontiamo questa idea con i ricordi di copertura, vediamo che la concatenazione inconscia aggancia il reale imprimendogli un senso, perché il soggetto interviene con le sue marche simboliche, e in questa concatenazione si rende leggibile la trama della vita del soggetto, l’Ego si corporizza e rimane collegato al soggetto che ricorda. In Joyce, con il distacco della relazione immaginaria, il reale del corpo e la trama inconscia sono anelli che non si agganciano, e il senso si presenta nella sua dimensione reale, che è la fuga (p. 140 Laia). L’illeggibilità di Joyce dipende dunque, secondo Laia, dalla caduta della relazione immaginaria e dalla separazione tra corpo reale e inconscio, e questo contrasta con quel che ci si aspetta abitualmente da uno scritto. La lettura esige infatti la composizione immaginaria di una concatenazione narrativa, una cattura del senso in quel che si legge e una soggettività, o qualche forma di riconoscimento di quel che viene riferito, mentre la scrittura joyciana si sviluppa molto al di là di questi parametri (Laia p.140). L’illeggibilità è quindi direttamente collegata al distacco della relazione immaginaria, ed è questo il motivo per cui il linguaggio, nella scrittura di Joyce, si riduce a sintomo. Lacan lo afferma con chiarezza: “Joyce ha detto che l’Irlanda aveva un padrone e una padrona: il padrone era l’impero britannico, e la padrona la Santa Chiesa cattolica, apostolica e romana, ed entrambi erano una calamità nello stesso modo. È proprio quel che si constata in ciò che fa di Joyce il sintomo, il sintomo puro di quel che avviene nel rapporto con il linguaggio quando lo si riduce al sintomo – ovvero a quanto produce come effetto quando questo effetto non lo si analizza – dico di più: quando ci si vieta di far intervenire quegli equivoci che solleciterebbero l’inconscio di chiunque” (p.163). Lacan ci presenta qui in modo ancora diverso l’idea che da una parte c’è l’inconscio strutturato come un linguaggio, dove gli equivoci pullulano, e con essi il senso, mentre dall’altra parte c’è il linguaggio preso nel trattamento joyciano, spogliato di senso non perché privato di equivoci. In Joyce non c’è l’allusivo semidire della verità, c’è piuttosto un iperdire, un montaggio di parole nelle parole, c’è come un elefantiasi delle parole che non entrano in un gioco di sostituzione, ma di concatenazione all’infinito. C’è però qualcosa in più nelle parole di Lacan, c’è un riferimento alla lingua dei padroni, a un linguaggio che si costruisce più come una seriazione di S1 che come un concatenazione tra S1 e S2,. Joyce prende la lingua dei padroni, S1, e la usa per farsi un nome, che possiamo siglare con la stessa lettera S1. Non affianca questo S1 a un S2 per produrre un senso, ma usa la lingua per farsi un corpo fuori-corpo, per farsi una statua – come ha detto il nostro collega Stevens – per farsi uno sgabello – es-ca-beau – uno sgabello che è il piedistallo della statua, e questa scrittura non è una scrittura di senso ma di godimento. Possiamo quindi siglare S1 il nome proprio, e (a) il plusgodere, che uniti danno la formula lacaniana del sintomo quando lo prendiamo nel senso in cui non è interpretabile, in cui è un segno di godimento, quel segno che si tratta, nelle analisi dei nevrotici, di far emergere perché possano fare qualcosa. Seguendo questo filo rosso del rapporto con il corpo, il rapporto con il corpo che si possiede, come un mobile, nell’ultima parte della lezione Lacan indica alcune cose che considera rilevanti. Una di queste, di difficile comprensione è la seguente: “Aggiungo un’osservazione che forse può frenare un po’ la voragine in quel che ci è permesso di stringere della père-version con l’uso del nodo borromeo. C’è qualcosa di cui siamo sorpresi non serva di più il corpo come tale: la danza. Questo ci permetterebbe di scrivere il termine condanzazione”(p.150). È un passaggio così, radicalmente un pezzo staccato, è un’affermazione che non ha altre articolazioni all’interno del testo, che non ha ulteriore sviluppo, e che mette in rapporto, in modo enigmatico: la père-version, il nodo borromeo, il corpo, la danza. Possiamo capire il rapporto del corpo con la danza, possiamo capire il rapporto tra la père-versione e il nodo borromeo, ma non è immediato capire in che modo la danza possa servire il corpo, e sopratutto come possa servire per stringere con il nodo borromeo la voragine della père-version. Il padre della père-version che Lacan introduce l’anno precedente a quello del Seminario XXIII, in RSI, è un padre diverso da quello del seminario XX, che è il padre dell’eccezione, quello che è il solo a sfuggire alla castrazione, l’unico per cui non vale la regola generale “per ogni x c’è castrazione”. Il padre di RSI non è neppure quello della legge, è piuttosto quello dell’esempio, mostra una condotta possibile, ma accanto ad altre, mostra un modo di aver a che fare con l’assenza del rapporto sessuale. È un padre sintomo, diverso dal padre legislatore del seminario V, dove Lacan sviluppa la metafora paterna. Il padre della père-version, di RSI, non essendo l’eccezione, è soggetto come tutti alla castrazione. In francese si usa l’espressione “être dans le gouffre de l’angoisse” e il baratro a cui l’espressione si riferisce, se prendiamo i termini di Lacan, è quello del buco, non della mancanza, la quale si articola piuttosto con il padre della legge. Il buco è un punto di panico, e rispetto a questo il padre della père-version può dare l’esempio di come trattarlo, l’esempio di un desiderio particolare, il desiderio per una donna. L’uscita dal baratro dell’angoscia è attraverso la via del desiderio. Se prendiamo però la questione del nodo, che Lacan presenta in questa frase, il padre RSI è l’equivalente del quarto anello, è l’equivalente del sintomo, non è quindi il significante garante dell’ordine, ma quello che fa segno, segno di godimento. Fin qui sono termini che capiamo, sui quali abbiamo lavorato di più. Ma la danza? Qual’è il rapporto della danza con il nodo? In che modo la danza può servire il corpo, che vuol dire, in questo contesto, legarlo, lasciare che non sfugga come è sfuggito a Joyce? Credo che per capire questo passo occorra riportarsi a un altro testo, di dieci anni precedente, dove Lacan si riferisce, in altro contesto, alla danza. È un contesto particolarmente significativo perché si tratta dell’Omaggio a Marguerite Duras, omaggio resole per il romanzo Le ravissement de Lol V. Stein, un romanzo incentrato intorno a una scena iniziale di danza, dove ha luogo un evento traumatico che si ripercuote lungo tutta la narrazione, e di cui la narrazione è lo sviluppo e il compimento, fino all’esito nella follia della protagonista. Ecco quel che scrive Lacan nel passaggio menzionato. Lacan si sta domandando chi abbia rapito chi. Lol è stata rapita guardando la scena dove Michael Richardson e Anne-Marie Stretter ballano e spariscono prima dal suo sguardo e poi dalla sua vita. Ma noi siamo rapiti da Lol, dice Lacan. Sentiamo il suo passo dietro di noi senza averla incontrata, e in fondo, chi ha davvero incontrato Lol, nel romanzo? Forse siamo in uno spazio sdoppiato? Oppure ci siamo traversati? E allora chi ha traversato chi? “On voit que le chiffre est a nouer autrement car pour le saisir, il faut compter trois. Lisez plutôt. La scène dont le roman n’est tout entière que la remémoration, c’est proprement le ravissement de deux en un danse qui le sonde, et sous les yeux de Lol, troisième, avec tout le bal, à y subir le rapt de son fiancé par celle qui n’a en qu’à soudaine apparaître”. La scena del ballo si rovescia alla fine: Lol attira a sé Jacques Hold che è l’amante di Tatiana Karl, la sua amica. È lei questa volta a insinuarsi tra due amanti, dopo averne spiato gli incontri in un campo di segale di fronte all’hotel dove si danno appuntamento. Si può dunque pensare a una ripetizione a parti rovesciate : l’evento traumatico, la scena osservata dall’inizio del romanzo, viene agita alla fine, quando Lol è in posizione di entrare nel triangolo in cui gli altri due vertici sono Tatiana e Jacques Hold. Lacan rifiuta però l’idea della ripetizione, non si tratta di un evento che si ripete, dice, ma di un nodo che si rifà. In quest’epoca Lacan non ha ancora la nozione del nodo borromeo, ma parla di un nodo in cui sono presi i personaggi della storia, e di un nodo che lega all’inizio nella danza Michael Richardson Anne-Marie Stretter. Il tema del ballo è il filo a cui, nel romanzo, tutto si annoda fino a quando Lol e Jacques Hold tornano al luogo in cui si è svolta la prima scena, cercano la balera dove c’è stata la danza, e qui Lol incontra la follia. Jacques Hold si è avvicinato troppo, la spoglia, osserva il suo corpo nudo, lo percorre con le mani, ma non doveva essere questa la sua funzione. La situazione si sbilancia, e Lacan dice di aver avuto dalla bocca stessa di Marguerite Duras l’ammissione che nel finale del racconto per Lol c’è la follia, giacché nel testo il fatto non è completamente reso esplicito. D’altra parte, la scrittura di Marguerite Duras è talmente rarefatta da lasciare ampi margini di ambiguità, è esattamente il contrario dell’iperdire di Joyce. Jacques Hold si è avvicinato troppo perché la sua funzione doveva essere di far ritrovare a Lol un corpo, quello che ha perduto nella scena del ballo. La Duras dice chiaramente come “il ballo, murato nella sua luce notturna, li avrebbe contenuti tutti e tre in una cosa sola”. Manca invece una parola, e questo diventa assenza. E Lol non può essere assente dal luogo in cui questo gesto è avvenuto. Quale gesto? Quello di spogliare l’altra donna - perché Michael Richardson e Anne-Marie Stretter spariscono dal suo sguardo e dalla sua vita e tuttavia “questo gesto non potrebbe aver luogo senza di lei. Perché Lol è con l’altra donna, carne con la carne, forma con la forma, gli occhi fissi al suo cadavere. È nata per vederla. Il corpo lungo e magro dell’altra donna sarebbe apparso un po’ alla volta. Viene sostituita da questa donna per un soffio e Lol trattiene il soffio di questo respiro e man mano che il corpo della donna appare a quest’uomo, il suo si cancella”. Nel suo commento Miller sostiene che questo è ciò che non si è compiuto, il fatto di assistere all’apparizione del corpo denudato dell’altra, denudato dall’uomo. Per questo resta carente di questo corpo che le avrebbe dato corpo. Lol, possiamo dire, non ha compiuto la propria identificazione narcisistica, e per questo ha bisogno del corpo dell’altra. Il romanzo denuncia fin dall’inizio una carenza di presenza in Lol. “Al collegio, dice Tatiana, che non era la sola a pensarlo, mancava qualcosa a Lol per essere qui. Dava l’impressione di permanere in una noia tranquilla”. È interessante anche notare che, all’inizio del romanzo, il legame tra Lol e Tatiana è costituito dalla danza. Restavano sole, non uscivano con gli altri, una radio trasmetteva una danza fuori moda, e loro danzavano sole. La danza costituisce un legame con l’immagine dell’altro, e cattura il corpo in una figura, che è figura di ritmo, ma che è anche una figurazione del corpo. Possiamo forse allora capire cosa intende Lacan quando dice di essere stupito che la danza non serve di più non al corpo, ma il corpo. La danza è quel che mette il corpo, l’esistenza bruta del corpo, in quella che Deleuze avrebbe chiamato un’immagine-movimento, e in questo modo, la danza, direi serve il corpo facendolo entrare in un corpo-desiderio. In questo possiamo vedere un motivo per cui Lacan l’accosta al padre RSI, il padre père-version: il padre è un padre che desidera, che indica la via del desiderio, che fa uscire dall’autoerotismo dell’Uno, dall’isolamento dello hikikomori. In un momento in cui Lacan non ha ancora il concetto del nodo, la danza, ripresa dal romanzo della Duras, svolge una funzione analoga, sottrae il corpo alla propria inerzia, per farlo entrare nel dinamismo del desiderio.
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