Conferenza tenuta il 27 settembre 2011 presso il Comune di Trezzo di Marco Focchi Ringrazio l’associazione Psiche Lombardia per l’invito che mi ha rivolto a parlarvi questa sera. Psiche Lombardia è un’associazione particolarmente attenta al problema della salute mentale, e se ne occupa sul territorio. Ringrazio anche il Comune di Trezzo, perché ospita questo incontro in cui cercheremo di scambiarci alcune idee su un problema che possiamo pensare di conoscere, ma che vale senz’altro la pena di approfondire da diverse angolature. Può sembrarci infatti di sapere che cos’è la salute mentale, e se non ci facciamo troppe domande sicuramente lo sappiamo. Abbiamo un’idea, intuitivamente, di cosa significhi stare bene, o stare male, o avere un disagio. Sia Canzian sia il sindaco però, in apertura, si sono riferiti agli specialisti della salute mentale, che sono molteplici. Ci sono infatti un certo numero di figure, diversificate tra loro, che si occupano di salute mentale. Ci sono in primo luogo gli psichiatri, ci sono gli psicologi, ci sono poi gli psicoterapeuti, gli psicoanalisti, ci sono anche importanti figure di sostegno, che senza essere terapeuti hanno tuttavia un ruolo essenziale, come gli assistenti sociali, gli infermieri, i volontari. Sono molte le prospettive da cui questo tema può venire affrontato, perché in realtà, sul piano della gestione, è un problema complesso. La sua complessità non riguarda però solo l’aspetto pratico. Se ci addentriamo nel merito dell’argomento, cercando di riflettere su che cosa la salute mentale significhi, ci troviamo, in un certo senso, come di fronte a delle scatole cinesi, e quando abbiamo aperto l’ultima possiamo avere l’impressione che sia vuota, e che quel che cercavamo ci sia sfuggito di mano. Quali sono i confini della salute mentale?
Vorrei inquadrare il punto di vista di quello che può essere il contributo della psicoanalisi. Dovrei quindi cercare questa sera di articolare il problema della salute mentale da un’angolatura che include l’inconscio, e vedremo che crocevia ci sono su questa strada. Se prendiamo tale prospettiva, dietro una definizione di salute mentale apparentemente scontata, vediamo subito alcune complicazioni. Viviamo infatti in un’epoca in cui diventa sempre meno evidente la frontiera tra la salute mentale e ciò che non è salute mentale. Che cosa non è salute mentale? Da parecchi decenni, viene pubblicato un manuale, il DSM, promosso dall’Associazione Americana di Psichiatria, che è diventato un punto di riferimento internazionale, conosciuto e utilizzato da tutti gli operatori del settore. La sigla DSM sta per Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders. Si tratta di un manuale che ha l’ambizione di classificare i disturbi mentali in tutto lo spettro delle loro possibilità. Ne sono state fatte diverse versioni nel corso di alcuni decenni. Siamo arrivati alla quinta, che è attualmente in preparazione. Nelle prime edizioni le categorie di disturbi mentali classificati erano erano circa centottanta. Nelle ultime si è arrivati a trecentocinquanta. C’è stata quindi una crescita esplosiva di ciò che viene considerato come disturbo mentale. Per la quinta edizione del DSM, non ancora pubblicata, si sta ora discutendo nelle sedi specializzate, ma si prevede un ulteriore incremento. E dall’altro lato, dalla parte del pubblico? Che cosa viene considerato disturbo mentale? Per che cosa vengono consultati gli specialisti? Quali sono i disturbi comunemente lamentati? Stando ai risultati di un’inchiesta recente sembra che i medici vengano consultati per i problemi apparentemente più inverosimili. Il male di cui le persone si lamentano di più è l’età, e potremmo dire che è sempre stato così, ma non è mai stato considerato un problema medico. Oggi invecchiare è un disturbo in cerca di una diagnosi. Poi ci sono la noia, le borse sotto gli occhi, i capelli grigi, la rabbia. Un altro problema che da sempre assilla il pubblico maschile è l’angoscia per le dimensione del pene. Una volta era considerato un destino, come qualsiasi altra caratteristica fisica, ma dopo l’era della sessuologia diventa un disturbo, a cui non si è disposti a rassegnarsi. Ci sono poi sindromi generiche come la fatica cronica, che adesso ha trovato accoglienza nel DSM, le vampate di calore, l’inadeguatezza e il senso di emarginazione, la disforia, l’ansia da procrastinazione, cioè l’ansia derivante dal fatto di rimandare sempre le cose da fare, fino a sentirsi svuotati. Ci sono disturbi spesso lamentati dai pazienti, e che i ricercatori non considerano ancora come malattie. Non le considerano tali perché sono problemi ai quali non c’è per ora una risposta medica. Non sono considerate malattie semplicemente perché non esiste un farmaco per trattarle, non perché si ritenga facciano parte di un’altra sfera dell’esistenza rispetto a quella relativa alla malattia e alla salute. Ci sono comportamenti che cambiano significato sotto lo sguardo dell’osservazione psichiatrica che classifica i disturbi mentali. Pensiamo per esempio, alla collera dei bambini. Una volta l’esplosione di collera in un bambino era il segnale di qualcosa da ascoltare. Un bambino che si stizzisce fino a diventare furioso non sta solo facendo i capricci, ma vuole dirci qualcosa, esprime un’insofferenza, un disagio interiore, è preso da una forma d’angoscia che si traduce in collera. Dobbiamo quindi fare attenzione, e vedere cosa vuol dire il bambino in preda alla collera. Oggi si tende a diagnosticare l’esplosione di collera di un bambino come una sindrome, e a trasformarla quindi in un problema medico. Capite allora che la frontiera tra salute mentale e ciò che non è salute mentale risulta mobile, e il rapido succedersi, in pochi decenni, delle edizioni del DSM, del manuale diagnostico, contribuisce a rendere piuttosto incerta questa frontiera. Consideriamo quel che riguarda il campo della sessualità. C’è stato, non molto tempo fa, negli anni Ottanta, un importante dibattito sull’omosessualità, che allora veniva considerata, era luogo comune, come un disturbo, un problema mentale. Oggi siamo di opinione completamente contraria. L’omosessualità è stata depennata dal manuale diagnostico americano e si considera che sia una scelta, uno stile di vita piuttosto un disturbo. Pochi decenni bastano a trasformare completamente la visione, la considerazione sociale di un comportamento umano, e la valutazione scientifica si adegua a questo cambiamento. Questo dovrebbe già far cadere qualche sospetto sui criteri scientifici che orientano la classificazione di questi comportamenti. Quando parliamo di salute mentale vediamo dunque che l’oggetto di cui parliamo non è poi così scontato, come potrebbe sembrare di primo acchito. Per questo motivo quando mi è stato proposto di parlare sulla salute mentale ho chiesto se il titolo fosse “Il problema della salute mentale”, perché considero non si tratti di un argomento già definito, ma di un problema da esaminare, in cui addentrarsi. Chi definisce la salute? Che cos’è la salute in quanto tale? La medicina non ha una definizione della salute. Potremmo immaginare che la medicina sia la disciplina più appropriata a dirci che cos’è la salute. A cosa altro si dedica la pratica medica infatti se non a restituire la salute? La medicina invece in realtà non ha una nozione di salute. La medicina sa che cos’è la malattia: la considera come lo scostamento da uno stato di normalità, come un’anomalia sulla quale intervenire ripristinando lo stato precedente al momento della sua insorgenza. Se vogliamo dire che cos’è la salute per la medicina, dobbiamo dedurne la definizione dalla malattia, e dire che è la non malattia. La medicina sa che cos’è la malattia, e la salute è lo stato di non malattia o, come diceva un famoso chirurgo francese, la salute è il silenzio degli organi. Quando gli organi del nostro corpo non si fanno sentire, quando non ci sono dolori, fastidi, impedimenti, quando gli organi del corpo tacciono, non mandano segnali, possiamo allora considerare che tutto va bene. La medicina non sa cosa sia la salute, sa cos’è la malattia. Questo è il punto importante da cui partire. Per la medicina c’è prima la malattia, e si tratta di intervenire ristabilendo la stato anteriore, operando una restitutio ad integrum, come si diceva classicamente. Occorre cioè restituire alla propria integrità lo stato che la malattia ha menomato. Come era lo stato precedente all’insorgenza della malattia? Non importa come fosse prima: prima la persona stava bene, compito del medico è di ristabilire le cose come erano prima. Capite che qui c’è una variabilità enorme, è impossibile definire uno standard. Lo stato di benessere di una persona prima dell’insorgere della malattia è fatto di molte cose, non cade sotto una precisa definizione scientifica. Noi parliamo tuttavia continuamente di salute mentale: definiamo strategie per ottenere la salute mentale, stabiliamo politiche per perseguire la salute mentale, raccogliamo fondi per intervenire a favore della salute mentale. Tutto questo vuol dire una cosa precisa: vuol dire che la salute mentale è qualcosa che non viene definito dalla medicina, ma dagli amministratori e dai politici. Il sindaco si presentava prima come un amministratore, dobbiamo dunque dire che ha una specifica competenza in questo settore. Sono i politici e gli amministratori che definiscono positivamente la salute. Quando si ha infatti una definizione positiva delle salute? Nel 1948, tramite l’Organizzazione Mondiale della Sanità, durante la prima conferenza dopo la seconda guerra mondiale, quando si cercavano valori positivi per uscire dal momento storico drammatico che l’Europa aveva vissuto. La definizione positiva di salute è molto nota, speso ripetuta, e si riferisce a uno stato di totale benessere fisico, psichico e sociale, e non solo ad assenza di malattia. Questa definizione è stata oggetto di un grande dibattito e di grandi polemiche, soprattutto di grandi critiche. Si è detto di questa definizione che è quanto meno piuttosto esigente, parla infatti di totale benessere. Poi che è molto generica, e che è decisamente ambiziosa. Chi di noi, in quest’aula, potrebbe dirsi in uno stato di totale benessere, in tutte le sfaccettature e gli aspetti di questa definizione? Una medicina senza limiti In questa definizione c’è però qualcosa che è interessante notare. Salta agli occhi infatti che non c’è nessun riferimento a una normalità. Classicamente la medicina parla di malattia come di uno scostamento da una norma, e ci sono dei parametri. Cos’è infatti la normalità? Bisogna misurarla: se facciamo gli esami del sangue è perché vogliamo rilevare dei valori che devono contenersi entro certi parametri di riferimento. La norma è determinata da un intervallo di oscillazione, è una questione di numeri e di limiti. Nella definizione dell’OMS invece non c’è riferimento a una norma, perché quando parliamo di totale benessere fisico, psichico e sociale, qual è la misura della totalità? Dove bisogna arrivare perché il benessere sia totale? Non c’è più attinenza a una norma perché il punto di mira è uno stato ideale che si raggiunge quando? A che punto potrò definirmi in una situazione di totale benessere fisico, psichico e sociale? In fondo il soggetto non è mai completamente appagato e, come diceva Pessoa in un suo verso, “manca sempre una cosa”. Certo, si può stare bene, ma a ben pensarci qualche fastidio si trova, qualche insoddisfazione si presenta. Difficilmente, se ciascuno di noi pensa alla propria situazione – tranne in rari momenti di rapimento, di slancio estatico, o nelle prime fasi di innamoramento – nella propria soggettiva condizione può considerarsi in uno stato di totale benessere. La differenza tra curare e potenziare Questa differenza tra norma, con i suoi limiti, e totalità, che invece è illimitata, ha conseguenze importanti perché crea una divaricazione tra due concetti: il concetto di cura da una parte, e dall’altra il concetto di ciò che gli americani chiamano enhancement, cioè un miglioramento, un accrescimento. C’è una medicina della cura, quella che affronta la malattia, la debella e riporta allo stato precedente, e c’è una medicina del enhancement, che è una medicina del miglioramento, dell’incremento dell’attività e dell’efficacia, dell’ottimizzazione delle prestazioni fisiche e psicologiche, e questa non ha un limite intrinseco. Il confine tra medicina che cura e medicina migliorativa è certamente molto delicato, molti temi della medicina migliorativa nascono all’inizio come cura, e poi diventano medicina migliorativa. Per esempio si fa ricerca sull’Alzheimer e si tenta di produrre farmaci che possano aiutare la persona che perde la memoria a recuperare o a fissare la capacità di ricordare. Immediatamente nasce in parallelo l’idea di applicare queste possibilità a una memoria, per così dire, normale. Nella medicina sportiva c’è qualcosa di analogo, l’assunzione sotto controllo medico di farmaci finalizzati a migliorare le prestazioni atletiche, ovvero non un tentativo di riparazione del corpo danneggiato, ma di intensificazione, di miglioramento, di rafforzamento delle capacità abituali dell’individuo. La scoperta del testosterone, qualche decennio fa, ha portato l’industria farmacologica a investire nella produzione di farmaci che riportino l’uomo nelle fasi culminanti delle sue possibilità sessuali grazie all’assunzione di questa sostanza. Questa fase oggi è superata perché abbiamo il Viagra, che consente all’uomo prestazioni sessuali in un’età in cui la funzione sessuale declina. Possiamo chiederci se il Viagra sia un farmaco nello stesso senso in cui diciamo che lo è l’aspirina, o l’insulina. La definizione di salute dell’OMS quindi, che potrebbe sembrare di primo acchito ragionevole, ma determina conseguenze che sono poi difficili da gestire. Perché?Consideriamo questa medicina migliorativa: cosa c’è di male a volere più memoria, o a volere prestazioni migliori sul piano fisico, o a voler debellare la vecchiaia prolungando l’attività sessuale fino a tarda età? Potremmo dire non che c’è niente di male. Domandiamoci però: è proprio questo che la gente vuole? Se ci pensate vedete che, seguendo questa linea di sviluppo, la medicina colonizza un territorio che prima non era di sua pertinenza. È costretta infatti a occuparsi della felicità e dell'infelicità. Le persone sono infelici per molte ragioni. Una donna può sentirsi infelice perché le sembra di avere il corpo non ben modellato, e la liposuzione può sembrare una soluzione. Un uomo può sentirsi infelice perché gli sembra che la sua statura sia troppo bassa. Si è pensato che la somatotropina, l’ormone della crescita, somministrato in età adeguata, potesse prevenire questo problema. Negli anni Novanta, negli Stati Uniti, il National Institutes of Healh, con l’approvazione della Food & Drugs Administration, organizzò in effetti un esperimento su circa quindicimila bambini che non presentavano carenze patologiche di somatotropina, per verificare l’effetto migliorativo che l’ormone poteva avere in un organismo normale. Un difetto fisico può diventare un apparente fattore di infelicità, e si cerca allora di intervenire per eliminarlo. Anche qui potremmo chiederci: cosa c'è di male? Una ragazza non si sente bella perché ha il naso storto, non le piace, va dal chirurgo estetico, se lo fa correggere, e con un semplice colpo di bisturi raggiunge l’ideale che desiderava essere. È proprio così semplice? La psicoanalisi ci può dare qui alcuni chiarimenti. Nelle cure analitiche vediamo che quel che le persone domandano non è mai quel che cercano effettivamente di ottenere. Una giusta posizione di ascolto sul piano analitico, se un analista sa tenere il suo posto, è di accogliere, evidentemente, la domanda, sapendo però, e tendendo conto del fatto che quel che il soggetto chiede non è effettivamente quel che desidera, che c'è un piano latente, inconscio, che la persona non percepisce, ma che non appena la cura inizia viene fuori con forza, che sposta il fuoco del discorso rispetto alla prima domanda, facendo emergere man mano i veri temi, e delineando un lato inizialmente nascosto. Un’impotenza che salva dall’angoscia Perché questo non vi sembri astratto vorrei proporvi un esempio tratto dalla mia esperienza. Molti anni fa, prima dell'invenzione del Viagra, ebbi come paziente un uomo che lamentava una forma d’impotenza primaria: non aveva mai potuto avere rapporti sessuali penetrando una donna. Una delle prime cose che mi disse però fu: "Dottore, se dal trattamento analitico deve saltare fuori che sono omosessuale, non mettiamoci neanche e lasciamo stare". È una dichiarazione che già anticipa il seguito, e infatti, dopo alcuni colloqui, emergono con chiarezza alcuni fantasmi omosessuali inconsci. Nello stesso periodo questa persona conosce un chirurgo che fa innesti di protesi per il pene. Prima che il Viagra sbancasse il mercato c'era infatti una chirurgia un po' cruenta – credo peraltro che ci sia ancora, anche se con minore espansione – che inseriva nel pene alcune particolari protesi. Ne esistevano diversi tipi: alcune erano semirigide, e consistevano in cilindri di silicone impiantati nei corpi cavernosi, altre erano malleabili, e si potevano flettere, altre ancora, le più avanzate, erano idrauliche, e avevano dei cilindri gonfiabili azionati da una micropompa. Un interruttore invisibile inserito nell’area peritoneale permetteva di produrre erezioni a comando. Il paziente di cui vi parlo si sottopone all’intervento d’innesto, e apparentemente il problema è risolto, almeno dal punto di vista della funzionalità meccanica. L’uomo prima fa le sue prove da solo, vede che il dispositivo funziona, dopo di che incontra la donna che frequentava da anni per consumare finalmente con lei il rapporto da sempre fantasticato. Nel momento però di realizzare la penetrazione è preso da un crescendo d’angoscia che lo porta a una crisi di panico devastante. Non può più restare accanto alla donna. Fugge al colmo della disperazione e torna da me. Si sente completamente fuori controllo, e torna dal chirurgo per farsi disinnestare il dispositivo, sottoponendosi quindi un'ulteriore operazione pesantemente invasiva. Dal punto di vista analitico il problema è chiaro: il sintomo è un bastione contro l’angoscia, e se rimuoviamo di forza il sintomo senza aver sciolto i problemi che generano l’angoscia, abbiamo solo lasciato il soggetto senza difese. Così il paziente di cui vi parlo, che aveva terrore di incontrare i propri fantasmi omosessuali, si trova messo di fronte senza difese ai propri impulsi omosessuali inconsci. Il sintomo dell’impotenza raramente ha davvero cause organiche. Può accadere, certo, possono esserci problemi neurologici, può esserci un diabete, o disfunzioni vascolari, o ancora disturbi endocrini. Sono tutti problemi però che appaiono chiaramente da un’indagine medica, e se non c’è evidenza di causalità organica, l’origine del sintomo, come nella maggior parte dei casi, è psicologica. Solo che non è rassicurante per un soggetto sentirsi dire questo, e preferisce mille volte farsi raccontare la storia di qualche causa organica oscura che gli esami medici non rilevano. Il paziente che al primo incontro mi dice: "Se sono omosessuale non parliamone neanche!", si fa una sorta di autodiagnosi sotto forma di diniego. In realtà non era omosessuale, non sarebbe mai andato con un altro uomo, ma aveva chiari fantasmi omosessuali, come la maggior parte delle persone, solo che lui non poteva sopportarli. I fantasmi omosessuali si traducevano per lui in una decisa omofobia, e l’eccitazione erotica che questi fantasmi sollecitavano in lui si trasformava direttamente in angoscia. Era quindi una persona in un forte conflitto con se stessa, e un conflitto di questo tipo è la definizione stessa della nevrosi. Sciogliere meccanicamente il conflitto, senza considerare le implicazioni di desiderio che questo aveva, l'ha gettato nella situazione di angoscia che poi ho visto quando è tornato da me. Questo esempio, che mette di mezzo la chirurgia, mostra l’aspetto più drammatizzato della questione, ma con il Viagra è la stessa cosa, solo che in questo caso, quando il conflitto con il desiderio si fa sentire in modo marcato, semplicemente il farmaco non funziona, e non occorre impiantare ed espiantare nulla con il bisturi e con grande spargimento di sangue. Quel che si domanda e quel che si desidera Ho preso l’esempio di un sintomo che mette il problema sotto la lente di ingrandimento, ma possiamo estendere questa logica a tutto un certo tipo di medicina. Una donna si lamenta della linea del suo naso, non si vede bella perché la considera deformata, e si sente infelice. In realtà: è la forma del naso, o c’è una serie di circostanze, di esperienze che l’hanno fatta sentire non desiderata, non amata, e il naso è soltanto la manifestazione di superficie di un tema più profondo? Tutto ciò che le persone chiedono come intervento migliorativo, come rafforzamento delle prestazioni è velato dall’ombra del sospetto che il punto debole per cui il soggetto chiede un intervento sul corpo sia l’oggettivazione, la reificazione, il punto di cristallizzazione organica di un conflitto. Nella Corea del Sud c’è un ramo fiorente della medicina che prospera sul fatto che per gli orientali è difficile pronunciare la “r” presente nelle lingue occidentali. Parlare un buon inglese in Corea, come nel resto del mondo, è ormai indispensabile, ma in Corea parlarlo con perfetto accento è anche un segno di distinzione sociale. Si è affermata l’idea che il difetto di pronuncia dipenda dalla conformazione della lingua, e molti genitori sottopongono i figli a una dolorosa operazione chirurgica finalizzata a modificarla. Naturalmente il fatto che i figli di immigranti coreani nati in America parlino inglese senza nessuna difficoltà non basta a smentire la teoria del difetto fisico. È anche questo un esempio di medicina migliorativa: si esercita la chirurgia non per necessità terapeutiche ma per migliorare la pronuncia dell’inglese. La medicina dell'enhancement, la medicina migliorativa, è stata oggetto di molte critiche. Alcuni argomenti, ritengo, non hanno grande fondamento. Non trovo rilevante, per esempio, l’obiezione che fa ricorso all’idea della naturalità. Cercando di produrre qualcosa che va al di là della normale costituzione umana – si dice – violiamo un equilibrio naturale del corpo. In realtà qualsiasi protesi di cui ci forniamo, il semplice fatto di portare gli occhiali, come molti di noi questa sera, è un’alterazione del nostro stato naturale. Non è questo tipo di obiezioni, a mio avviso, ad avere peso. Ci sono anche critiche a sfondo sociale. Alcuni – viene detto – che hanno i mezzi economici per interventi migliorativi sul corpo, potrebbero diventare una specie di superumani, e la differenza di classe si trasformerebbe allora in differenza biologica. Sono congetture di carattere un po’ fantascientifico, esercizi astratti sui mondi possibili. La verità di fondo, che ci deve rendere dubbiosi su questo tipo di sviluppi, su questo spostamento della frontiera della salute mentale dal campo terapeutico a quello migliorativo, è piuttosto l’intrinseca contraddittorietà che sappiamo esserci nelle richieste delle persone, quando nella loro domanda facciamo emergere il punto di fondo della soggettività, la peculiarità, la singolarità. La salute come ricchezza Qui, direi, c’è un altro aspetto importante da considerare quando cerchiamo un’articolazione tra il problema della salute mentale e la psicoanalisi. Poiché, prima che della medicina, la salute mentale è una questione di pertinenza della classe amministrativa e della classe politica, non ha come proprio obiettivo gli individui, ma la popolazione. La salute mentale è un problema di strategie sul territorio. Prima ancora che di terapia, si parla infatti di prevenzione, e soprattuto di promozione della salute mentale. Il termine che più si sente è quello di “promozione”. Bisogna notare che gli studiosi che se ne sono occupati se ne sono accorti subito. Nel diciottesimo secolo, il fondatore dell’economia politica, Adam Smith, si era subito reso conto di come la salute fosse un fattore determinante per la crescita economica. Il suo libro più famoso, La ricchezza delle nazioni, indica la salute come parte del capitale che forma questa ricchezza. Oggi i sociologi hanno ulteriormente ampliato la gamma di quel che fa parte del capitale, non delle nazioni, ma personale. Ho sentito infatti qualche giorno fa un’intervista alla BBC dove alcuni sociologi sostenevano la tesi che il potenziale erotico incrementa la realizzazione economica, e questo accade per mille ragioni: sostanzialmente perché se una persona sa esercitare un’influenza, un’attrazione su quanti gli stanno intorno, ha maggiore facilità nel trattare affari, e il suo reddito si accrescere di conseguenza. La salute come diritto Sta di fatto che sin dall’inizio gli studiosi si sono resi conto che la salute era correlata con l’economia. Questo fece sì che durante l’Illuminismo, a partire dal diciottesimo secolo, i sovrani si interessassero alla salute dei loro sudditi. In molti paesi europei, per esempio, fu istituita una polizia medica che vigilava sulla salute pubblica, ed è da quel momento che si comincia a parlare di salute pubblica. Con la rivoluzione francese poi, la salute diventa un tema amministrativo. I sudditi diventano cittadini: non ci sono più i sudditi di un sovrano ma i cittadini di una repubblica. La salute pubblica diventa allora un problema di gestione dei cittadini presi nel loro insieme, presi come popolazione. È a partire da qui che la salute si può articolare con i diritti dell’uomo, e diventa essa stessa un diritto. Il primo a parlare della salute come di un diritto negli anni Quaranta fu William Beveridge, estensore del rapporto sulla sicurezza sociale da cui è nata la riforma dello stato sociale in Gran Bretagna. In Italia il diritto alla salute è garantito dalla Costituzione, ma la riforma sanitaria e le leggi che istituiscono il Servizio Sanitario Nazionale risalgono alla fine degli anni Settanta. Resta il fatto che dichiarare il diritto alla salute è una cosa, renderlo effettivo naturalmente è poi cosa più complessa. Amartya Sen, l’economista che ha vinto il premio Nobel nel 1998, ha fatto alcune osservazioni su questo tema. Possiamo parlare di un diritto, ha affermato, solo se possiamo garantirlo, e possiamo garantire un diritto solo se esistono legislazioni in grado di tutelarlo. Possiamo per esempio parlare di diritto alla libertà dei popoli che si rivoltano contro i dittatori nei paesi arabi. L’ONU ha però potuto dare un sostegno militare in Libia, ma non ha potuto fare lo steso in Siria, per mille ragioni: militari, economiche, diplomatiche. C’è un esempio di grande attualità della comunità analitica. In Siria è stata arrestata una psicanalista, Rafah Nached, che ha fondato la prima società di psicoanalisi nel suo paese. È una donna molto attiva, di pensiero libero. Doveva recarsi in Francia per assistere a Lione la figlia che stava per partorire. È stata arrestata all’aeroporto. È sparita, ed è attualmente in carcere. Ne è nata una grande mobilitazione nella comunità analitica per chiedere la liberazione di questa donna coraggiosa, di questa intellettuale prestigiosa. A questo scopo occorre darsi i mezzi adeguati, e con l’attuale mobilitazione stiamo tentando di far valere il diritto alla libertà per questa donna, ma questo vuol dire per tutte le persone che in Siria vogliano esprimere senza restrizioni il loro pensiero. Abbiamo quindi sollecitato le autorità dei governi europei con cui siamo in contatto perché facessero pressione sul governo siriano*. Questo è un esempio, ma seguendo la riflessione di Amartya Sen dobbiamo dire che per garantire la salute mentale occorre un sistema sanitario funzionante, che però non basta. Sul sistema sanitario è possibile legiferare ma servono anche una serie di condizioni collaterali, che vanno dall’alimentazione allo stile di vita, all’educazione, all’attenzione per la condizione femminile, all’ampiezza della disuguaglianza tra ceti sociali presente in un paese, alla presenza o alla mancanza di libertà politica. Si tratta insomma di condizioni sociali e politiche importanti, e per garantire un diritto è necessaria una costellazione di più fattori. Serve una buona legislazione, ed è la prima gamba su cui il diritto si regge, ma ci vogliono anche altri correlati, ci vuole un’altra gamba su cui far appoggiare il sistema per rendere possibile un diritto. A costituire quest’altra gamba sono la politica sociale, lo sviluppo economico, la ricerca scientifica, l’azione culturale. Popolazione e individuo Ora cosa significa tutto questo? Quali azioni e quali strategie bisogna attuare a questo scopo? Se n’è cominciato a parlare in una conferenza a Ottawa, a metà degli anni Ottanta, quando per la prima volta sono state definite le strategie per la salute mentale. Poi c’è stata un’importante conferenza a Helsinki nel 2005, e ce ne sono altre ancora. Le politiche d’intervento mano mano elaborate nel corso di queste conferenze, bisogna dire, appaiono un po’ generiche. Vanno dall’attenzione relativa allo stigma e alla discriminazione sociale, alla prevenzione del suicidio, alla sensibilizzazione degli ambienti famigliari, scolastici e lavorativi. Sono tutte ottime cose, ma come si realizzano? Come mettiamo in pratica questa carta dei desideri? Come riduciamo la discriminazione? Come preveniamo i suicidi? Consideriamo per esempio gli interventi che sono stati fatti negli anni Settanta. Dalla fine degli anni Settanta fino agli anni Ottanta le politiche nazionali intraprese per prevenire la dipendenza dalle sostanze puntavano su un’informazione gestita con mezzi tecnologicamente avanzati. È stata una strategia che non ha dato risultati. Le politiche che puntano sull’informazione, in questo campo non producono nessun effetto. Lo vediamo anche nelle campagne di prevenzione del fumo. Le grandi compagnie del tabacco sono costrette a stampare sui pacchetti di sigarette immagini sinistre con minacce devastanti, ma la gente fuma lo stesso, e non legge le avvertenze, oppure le legge e semplicemente le ignora. All'informazione, con il suo carattere generale, l’individuo reagisce pensando che questa non lo riguarda personalmente. Il fumo fa male, lo sappiamo tutti, è vero che provoca il cancro, ma non lo provoca direttamente, è solo uno dei fattore che lo favoriscono. Incide in una percentuale molto alta, ma... a me non capiterà! “Mio nonno – pensa l’uomo in tabaccheria – ha sempre fumato e ha vissuto benissimo fino a novant’anni! Le percentuali non sono la mia storia”. Le campagne d’informazione sono rivolte alla popolazione, non al singolo, quindi, ragiona ciascuno, possono valere nella totalità dei casi, ma non nel mio. Le politiche basate sull’informazione sono quindi state abbandonate perché inefficaci. Il sottile lavoro del negativo Alla fine degli anni Ottanta l'OMS ha cambiato la propria strategia, e invece che sui processi di informazione ha cominciato a puntare su quelli di formazione, da realizzare a tutti i livelli scolastici, dalle scuole elementari fino all'università, con l'obiettivo di prevenire la causa dell'assunzione delle droghe. Si sa che i fattori che portano all’uso di sostanze sorgono nella prima età. Il momento critico è nell'età dello sviluppo. Si è allora cercato in particolare di investire la fascia adolescente della popolazione. Come? Puntando a far acquisire ai ragazzi alcune specifiche competenze, alcune capacità che permettono di affrontare i compiti della quotidianità. I documenti programmatici riportano elenchi abbastanza standardizzati delle competenze in questione: si tratta della capacità di risolvere i problemi, il problem solving, della capacità di pensare in modo critico e creativo, di sapersi esprimere, di comunicare in modo efficace, di interagire positivamente con gli altri, di essere consapevole delle proprie forze e delle proprie debolezze, di immedesimarsi empaticamente con gli altri, di saper gestire le emozioni e lo stress. Sono ottimi propositi. Come li realizziamo? Con la formazione naturalmente. Anche qui c’è però uno scoglio su cui si incagliano queste iniziative. È lo stesso intoppo per cui quando ci fanno leggere a scuola I promessi sposi lo troviamo noiosissimo, e quando lo leggiamo da grandi, al di fuori dell'obbligo scolastico, ci accorgiamo che è un libro straordinario. Le politiche di formazione, passando attraverso la scolarità, passano attraverso forme di obbligo, che in quanto tali vengono rifiutate, o si scontrano con delle difese preventive. Possiamo cercare di convincere i ragazzi che stiamo proponendo loro cose belle e utili: interagire in modo efficace è bellissimo! Saper riconoscere le emozioni degli altri è fantastico! Essere operativi e critici è splendido! Chi non vorrebbe essere così? La negatività insinua però il suo veleno sottile, e si prova gusto a parlar male del vicino, si prova invidia di quello più bravo, si rispetta magari il portatore di handicap, ma il ragazzo non riesce a sopprimere in sé una vena di disprezzo per il femminile, e la ragazza non riesce a soffocare un sentimento di rancore per il maschile. Non è che questi piani benintenzionati siano in sé inattuabili, ma la loro inefficacia dipende dalle premesse. Salta agli occhi che queste premesse partono da una sorta di totalizzazione del positivo. La definizione della OMS della salute mentale, come ho ricordato, è la prima definizione positiva della salute, e le strategie che ne conseguono si basano sull’idea di una totalizzazione del positivo: tutto è creativo, tutto è pensiero positivo, tutto è favorevole, ma il mondo non è fatto così, le persone non sono fatte così. Questo appare subito quando dalla scala di massa, dalla scala della popolazione, passiamo alla scala del singolo, dell'individualità. Soggetto responsabile e soggetto rivendicativo L'individuo è complesso, non è prevedibile, non sappiamo mai a quali sollecitazioni risponde, e proprio per questo per poter interagire con lui occorre entrare nell'intimo dei suoi processi, per produrre un cambiamento occorre avere il suo consenso. Le politiche di massa, pensate sulla scala della popolazione, funzionano per le necessità di prevenzione medica in generale. Abbiamo ridotto l'incidenza di molte malattie infettive grazie alla prevenzione. Un conto è però la prospettiva preventiva quando parliamo della salute fisica, dell'organismo. Se togliamo di mezzo i fattori infettivi, batteri, virus, la malattia non si sviluppa perché abbiamo eliminato l’agente patogeno. Per le problematiche mentali lo scenario cambia completamente. Possiamo fare un TSO, un trattamento sanitario obbligatorio, per una malattia organica, basta dichiarare una persona incapace di intendere e di volere. Tecnicamente la medicina può esercitare un trattamento sanitario obbligatorio su una malattia fisica anche se non c'è il consenso della persona. Non vale lo stesso per le problematiche mentali. In questo caso occorre entrare nei meandri della soggettività, occorre inoltrarsi nei labirinti e nelle antinomie del desiderio per capire quali conflitti sono in gioco, quali forze controbilanciano e contrastano la volontà di guarigione e bisogna entrare in questi conflitti per capire cosa vuol dire guarire per quel determinato soggetto. Non possiamo dare per scontato il punto in cui dobbiamo arrivare, perché il soggetto domanda qualcosa e desidera qualcos'altro. Ogni obiettivo ha infatti un costo, ha delle conseguenze collaterali, e non sappiamo mai quale presso il soggetto sia disposto a pagare per raggiungere quel che dice di desiderare. Questo si percepisce chiaramente quando una persona comincia ad avvicinarsi ai suoi obiettivi dichiarati, perché comincia a sentire anche, con molta più forza, i fattori collaterali a questi obiettivi e tutte le forze di contrasto che lo tengono lontano dal raggiungimento di questi obiettivi. Non possiamo guarire nessuno se non abbiamo il suo intimo consenso, non un consenso formale, che è superficiale, che il soggetto dà facilmente quando chiede di guarire: con quello non facciamo niente. Intimo consenso vuol dire quell’assenso che nasce dal fatto che il soggetto, avendo toccato con mano tutti i fattori del suo conflitto, sa decidere cosa vuole, perché sa cosa può perdere. Occorre però portare il soggetto al punto in cui può decidere, e può farlo perché ha attraversato a fondo tutte le forze che lo lavorano dentro. Può scegliere allora consapevolmente, ma non nel senso del consenso informato, cioè di un’informazione che gli viene dall’esterno, ma perché ne ha avuto l'esperienza interiore, ne ha attraversato tutte le implicazioni. La grande discriminante che vedo in gioco è quindi la differenza tra scala di massa, la scala misurata sulla popolazione, e la scala del singolo, del soggettivo. Il contributo che la psicoanalisi può dare al dibattito sulla salute mentale è mostrare come il soggetto con problematica mentale è, in un certo senso, il soggetto giuridico, il soggetto responsabile. Quando si parla di diritto alla salute si entra a volte in un clima di rivendicazione. La salute è qualcosa che si pretende, come si pretende di essere felici. C’è a volte il piacere della rivendicazione in quanto tale. Il soggetto responsabile non è il soggetto rivendicativo. Lavorare sul soggetto responsabile, e non sul soggetto della rivendicazione, è mettere in gioco, far emergere un soggetto che si implica nel sintomo da cui vuole uscire, che non chiede un diritto, ma che esercita una possibilità, che necessita di una risorsa che lo aiutiamo a trovare in lui. C’è un’importante differenza tra il soggetto giuridico, che si fa responsabile, partecipe di ciò che vuol conseguire, e il soggetto rivendicativo, che si rende passivo. Il contributo che la psicoanalisi può dare nel dibattito sulla salute mentale è di far emergere il soggetto responsabile. Torniamo brevemente sulla medicina migliorativa, quella che si stacca dal riferimento alla normalità e prende una deriva senza limite, come se tutto fosse possibile. È una tendenza che risponde a una forte corrente dell’ideologia contemporanea. Lo si sente in certi slogan americani: sky's the limit, il limite è il cielo, che vuol dire: possiamo spingerci oltre ogni limite. La psicoanalisi porta il soggetto invece a fare i conti con un punto impossibile. Freud usava il termine “castrazione”, che può suonarci forse desueto, ma che è un modo di esprimere una demarcazione invalicabile. In un'esperienza di analisi occorre che il soggetto possa concretamente toccare questo impossibile. Se vogliamo definire la salute mentale dal punto di vista psicoanalitico, dobbiamo dire che consiste nel fatto che non tutto è possibile, che per ciascuno c’è uno specifico punto di arresto, un punto d’arresto che è anche un margine di sicurezza, e si tratta di prenderne le misure per potervi girare intorno. A partire da questa demarcazione si aprono molte possibilità, ci sono risorse a nostra disposizione, ma solo se teniamo ben presente qual è la frontiera intraversabile, qual è la Cosa indisponibile. *Nel momento in cui pubblico questo testo nel blog è giunta la notizia che Rafah Nached è stata liberata. La mobilitazione del mondo psicoanalitico ha avuto successo!
1 Comment
Giuseppe
15/7/2014 08:35:20 am
Ho trovato equilibrato, concreto ed esplicativo il contenuto di questo intervento. Il senso di consapevolezza del limite e la presa di responsabilità difronte alle lusinghe di un'ideologa attuale che ostracizza la normalità mi sembrano gli elementi più interessanti.
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