![]() Intervento alla tavola rotonda tenutasi a Milano il 16 aprile presso il Centro Klinè. Marco Focchi Domenico Cosenza è un autore che è sempre stato attento agli aspetti clinici e operativi della psicoanalisi sin dal suo primo libro, Jacques Lacan e il problema della tecnica in psicoanalisi. La tecnica è un tema che nel campo lacaniano è sempre stato un po’ lasciato da parte, e che Domenico ha invece ampiamente esplorato, interrogato e valorizzato. La sua ricerca clinica si focalizza poi molto rapidamente sul tema dei disturbi alimentari e sul loro trattamento in contesti istituzionali. Questo anche per i diversi incarichi istituzionali che man mano ha ricoperto, prima come direttore scientifico dell’ABA, poi della comunità terapeutica La Vela e ora come responsabile di Klinè. La lettura dei disturbi alimentari data da Domenico Cosenza si inscrive nel quadro di quelli che nel Campo freudiano sono stati delineati come “nuovi sintomi”. A questi sono dedicati un capitolo e una riflessione nella conclusione del ultimo libro, Il cibo e l’inconscio, nel quale si può leggere la posizione originale che l’autore prende rispetto a questo fondamentale paradigma. La forma canonica del paradigma dei nuovi sintomi parla di sintomi a domanda debole o senza domanda, che hanno quindi un carattere egosintonico, il soggetto non li sente cioè in opposizione a sé, sono sintomi che non vengono sentiti come sintomi, e in cui l’inconscio non prende la mano, non produce una formazione che sfugge alla padronanza del soggetto. Sono in un certo senso, sintomi scelti più che subìti, e che proprio per questo si costituiscono come espressioni in cui il soggetto si rappresenta, con le quali si identifica.
Domenico nota in primo luogo la difficoltà a ricondurre il novero di questi disturbi a una forma omogenea, come forma identificativa sostitutiva del fallimento dell’identificazione fallica. In secondo luogo mette ben in luce come questi sintomi, proprio perché si possono inscrivere nella continuità di un’azione che li stabilizza – che è anche la loro via di cronicizzazione – tengano lontano il soggetto dal passaggio all’atto suicida. Riconosciamo così in questi sintomi una funzione di protezione dal reale, a fronte di una carenza fantasmatica, nelle situazioni cioè in cui la funzione protettrice del fantasma abitualmente operante nelle nevrosi, è disattiva. Queste osservazioni mi sembrano importanti per collocare lo sfondo su cui leggere le premesse cliniche da cui l’autore parte. È infatti nella psicosi che vediamo chiaramente come la costituzione del delirio sia sostitutiva del passaggio all’atto suicida. In fondo Schreber, prima di produrre il delirio che ha poi raccontato nelle sue Memorie, ha fatto alcuni tentativi di suicidio, sventati ora dalla moglie, ora dagli infermieri delle cliniche in cui era ricoverato. Questi tentativi non si sono ripetuti dopo l’apparizione del fantasma di essere trasformato in donna, sulle cui basi si costituisce il delirio. La premessa da cui parte Domenico Cosenza quindi, nella lettura della clinica dei nuovi sintomi, è la clinica della psicosi – anche se evidentemente non tutti i nuovi sintomi si manifestano come psicosi. In questo, direi, si vede in Domenico l’impronta di fondo dell’insegnamento di Lacan, che reinterroga la psicoanalisi, a partire dal paradigma della psicosi, a partire dall’idea – espressa nei suoi ultimi seminari – che in certo senso siamo tutti pazzi. Questo è un aspetto. Per altro verso l’autore reinterroga la clinica contemporanea, facendo dell’anoressia mentale un punto di leva per reinterrogare la nozione stessa di sintomo. È in particolare per questa via che si spinge oltre il paradigma storico delle nuove forme del sintomo, mettendo in luce la struttura reale del sintomo, che non si riduce a un meccanismo di sostituzione significante riconducibile al senso, giacché al cuore del sintomo rivela un residuo di godimento intrattabile, resistente al significante. Questo mette fortemente in discussione l’interpretazione come strumento operativo centrale della psicoanalisi. Credo che chi esercita come psicoanalista nel nostro tempo se ne sia reso conto in un modo o nell’altro. Non basta l’interpretazione azzeccata, non basta l’insight per mettere in movimento la struttura delle nevrosi. Quel che appare con chiarezza nei casi di Freud e nei casi classici della psicoanalisi è molto distante da quel che vediamo nei casi oggi. Certo vediamo ancora dei casi classici, vediamo delle isterie, delle nevrosi ossessive. Ma non sono più le stesse isterie e le stesse nevrosi ossessive dei tempi di Freud, perché tutte le nostre pratiche di vita sono cambiate, non solo la pratica analitica, e la pratica analitica non potrebbe essere la sola a non cambiare. Basti pensare che al tempo di Freud non esisteva la televisione. Avete mai pensato se il teatro interiore di Anna O. avrebbe potuto esistere nell’età della televisione? Sicuramente no, o almeno non nello stesso modo. Per non parlare del telefonino e di Facebook, che cambiano lo stile delle nostre relazioni. Non a caso, credo, dopo gli anni delle problematiche alimentari e dopo, più recentemente, gli anni degli attacchi di panico, ci troviamo oggi con una crescita delle domande d’aiuto legate ai problemi relazionali. In un momento infatti di depauperamento delle strutture simboliche e di proliferazione delle forme di godimento autistiche, sembra sempre più difficile incanalare il godimento nei binari simbolici della relazione. In questo Domenico Cosenza è molto preciso nel bilanciare la sua ridefinizione della clinica sulle basi di un’operatività che non si fonda più sull’uso fondamentalmente semantico della parola, ma piuttosto sulla sua funzione di atto, di vettore di godimento. Quando Domenico introduce l’idea del rifiuto e dell’oggetto niente come i due pilastri su cui si fonda la clinica di Lacan dell’anoressia – ma più ampiamente possiamo dire anche la clinica contemporanea – introduce due fattori entrambi sottratti al gioco dell’interpretazione. D’altra parte, se la macchina del fantasma non funziona, o perché non è costruita o perché è precaria, come è possibile trovare uno sfondo su cui l’interpretazione possa dare le proprie risonanze? Le punte avanzati della clinica contemporanea ci pongono di fronte a casi che non presentano domande, o le presentano in modo fragile, e che non hanno in sé le strutture necessarie per rispondere all’interpretazione. Che l’angoscia sia intrattabile, come ricorda Domenico, e che la sola cosa possibile sia traversarla, ci mette già sulla pista che dobbiamo prendere per pensare e praticare una clinica contemporanea. Perché l’angoscia, come tocco del reale, è ciò che non è più ingabbiato dal sintomo in senso classico, né frenato dall’inibizione. Siamo infatti entrati in un’epoca in cui, come ha suggerito Miller, declina il senso della vergogna. Cosa significa dunque traversare l’angoscia? Significa innanzitutto prendere una via diversa da quel rifiuto dell’Altro che è un modo di proteggerci dall’angoscia. Si tratta dunque, come precisa Domenico, di reperire innanzitutto le diverse forme di rifiuto dell’Altro, e di realizzare una riapertura della via del desiderio. Attraversare l’angoscia vuol dire riportarla al desiderio che, essendo in relazione con l’Altro, è visto come minaccioso. Si tratta dunque di sperimentare tutte quelle manovre che rimettono in gioco la posizione dell’Altro anche, per esempio, tenendo una posizione di diversa risposta rispetto all’Altro originario, una risposta di rifiuto che si ritrova poi nella serie successiva degli incontri della vita. Negli incontri della vita la risposta di rifiuto è una risposta provocata: il rifiuto dell’Altro che il soggetto ha interiorizzato provoca un rifiuto da parte dell’Altro. Più che l’interpretazione vale dunque la manovra che siamo in grado di realizzare. Per questo mi sembra una posizione particolarmente feconda quella proposta da Domenico di ripensare la clinica contemporanea a partire dall’anoressia, perché lo porta a una presa di posizione radicale espressa con molta determinazione in poche righe di uno degli ultimi testi che compongono il libro in cui si vede un’estrema rarefazione del ricorso all’interpretazione: “Ben al di là delle sirene del senso e dell’interpretazione semantico-edipica, che lasciamo alla psicoanalisi del XX secolo, riservandoci eventualmente di ricorrervi in dosi ridottissime in alcuni frangenti tattici della clinica della nevrosi” la manovra è smarcarsi dal rischio di incorrere per il soggetto nell’Altro del rifiuto. È infatti a una parola come atto, come intervento di taglio del simbolico per circoscrivere e ridurre il reale del godimento che occorre come analisti che facciamo riferimento al nostro intervento clinico”.
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