Intervento pronunciato il 19 ottobre 2015 a Milano al convegno "Mangiare (il) Bene" organizzato all'EXPO dal Centro per la cura dei disturbi alimentari Villa Miralago. di Marco Focchi L’argomento che vorrei presentare questa sera s’inquadra perfettamente nel contesto in cui ci troviamo. L’Expo ha come titolo infatti “Nutrire il pianeta. L’energia per la vita”. Il tema riguarda il versante concreto del cibo e i problemi a esso connessi. C’è nel mondo uno squilibrio tra milioni di persone denutrite, la cui sussistenza è in pericolo, e un crescente numero di persone sovralimentate che incorrono in tutti i rischi sanitari legati all’obesità. Questo è l’aspetto politico della questione, implica decisioni da prendere e la necessità di studiare strategie per affrontare problemi non più differibili. Per altro verso vediamo che l’Expo è un grande evento culturale: ci troviamo in un complesso di architetture molto articolato, siamo accolti all’ingresso da statue ispirate ad Arcimboldo, c’è uno spazio dedicato al cibo nell’arte, vediamo la varietà di preparazioni del cibo nelle diverse culture. Il cibo si presenta qui come parte della cultura, infatti non è mai solo questione di nutrimento, e tocca diversi piani. La funzione nutritiva risponde evidentemente alla necessità vitale, ma il cibo per l’uomo non si riduce tuttavia a essa, perché diventa una fonte di soddisfacimento pulsionale. Assume in questo senso un valore simbolico, un valore di dono, si fa tramite di emozioni, e può per questa via diventare un modo di contenimento dell’angoscia, o essere rifiutato difensivamente, come avviene nell’anoressia. Nella misura in cui è tramite di emozioni il nutrimento è anche vettore di una relazione con l’Altro. Nessuno di noi infatti si procura il cibo da solo, come faceva Robinson Crusoe nell’isola deserta.
Guillaume Apollinaire, in una sua opera giovanile, “L’enchanteur pourissant”, presenta un personaggio che sostiene di non riconoscere in sé nessuna qualità, ma che d’improvviso ne scopre almeno una: quella di essere affamato. “Cerchiamo da mangiare” – si dice allora – perché: “Chi mangia non è mai solo.” Il primo Altro presso il quale cerchiamo da mangiare, e con cui siamo in rapporto attraverso il cibo, è la madre. Questo ha dato vita alle teorie psicoanalitiche sulla pulsione orale, sull’oggetto seno, che nella lettura kleiniana può essere buono o cattivo, ha portato alle articolazione sui circuiti della domanda, che nel bambino si formula come pianto, come grido, come richiesta di una presenza della madre. Il primo Altro è la madre che nutre ma, anche, è soprattutto, della madre che accoglie. Il cibo è essenzialmente preso in questa polarità: da una parte è una sostanza, è alimento, materia necessaria a produrre l’energia dalla vita. Dall’altra parte è segno, indice di una presenza che accudisce, che protegge, che ama. Un motivo importante nell’insorgenza delle patologie alimentari viene dalla disarticolazione di questa polarità, quando il nutrimento viene offerto privo di un segno di amore, o quando il segno si rovescia fina a divenire pura negazione, segno di un rifiuto. Il cibo soddisfa il bisogno, ma in esso cerchiamo quel che veicola al di là della sostanza, cerchiamo l’amore di cui è segno, perché offrendolo, quel che diciamo è: “Voglio che tu viva”, “Voglio tu sia”. È il “Volo ut sis”, che in Agostino si presenta come l’espressione piena dell’amore. È la polarità del cibo a costituirlo come oggetto di desiderio. SOSTANZA POLARITA’ DEL CIBO SEGNO La rete simbolica e la ragnatela di segni in cui è presa la tematica alimentare è stata splendidamente resa da Roland Barthes nel suo libro “L’impero dei segni”, dove ci trasmette l’esperienza del suo viaggio in Giappone. Barthes esplora le diverse forme di una cultura così distante dalla nostra, e tra queste non trascura il lato commestibile. Nelle sue descrizioni del cibo giapponese, di cui accentua la rarefazione, la leggerezza, la trasparenza, lo presenta come preso in un sistema ridotto della materia, lo riconduce alla divisibilità discreta del significato e dei caratteri elementari della scrittura. Il cibo giapponese – sostiene – è un come scritto, “debitore di gesti di divisione e di prelievo, che inscrivono l’alimento non sul vassoio del pasto, ma in uno spazio profondo, che dispone in gerarchia l’uomo, la tavola e l’universo.” Come oggetto materiale e segno, il cibo è insieme carburante della vita e vettore di affetti. Il modello iniziale della psicoanalisi è in un certo senso molto semplice: il seno è il tramite del nutrimento ed è, a momenti alterni, presente o assente. È questo gioco di alternanze a farne un segno, a innalzarlo al rango di oggetto di desiderio. Per trasformarsi quindi da tramite biologico del nutrimento a oggetto di desiderio preso nel circuito della pulsione orale, occorre che il seno entri in una catena di sostituzioni possibili. Chiunque abbia avuto l’esperienza di svezzare un bambino, sa quanto sia complicato, e quanto a volte occorra forzare per sostituire il rapporto con il seno con altri oggetti che man mano è necessario si inseriscano nell’alimentazione. Solo nel momento in cui è perduto il rapporto bio-affettivo primario con il seno, l’oggetto orale può diventare oggetto di desiderio. Qualcosa può essere cercato e desiderato a condizione che prima si sia prodotta una mancanza, a condizione che la bocca che succhia il capezzolo ne sia rimasta priva, in un modo tale che i successivi oggetti potranno surrogarlo solo inadeguatamente. La metamorfosi del cibo in oggetto di desiderio è naturalmente il trionfo della cucina, la quale consiste in un processo di trasformazione dei materiali. La cucina compone e mette in forma le materie prime, e questo non semplicemente nel senso di preparare alimenti. Coinvolge piuttosto i sensi in un’esperienza estetica complessiva. Il lustro e lo status sociale dei cuochi, o meglio degli chefs, assurti oggi al rango di figure mediatiche, mostrano il prestigio del cibo, rispecchiano il valore aggiunto che ne fa un oggetto di desiderio. Un racconto piuttosto conosciuto di Karen Blixen, da cui è stato tratto anche un film di successo, “Il pranzo di Babette”, mostra molto bene questa logica. Babette è la cuoca, ma potremmo negli dire l’artista della cucina di un famoso ristorante parigino , il Café Anglaise, frequentato dal bel mondo dell’aristocrazia e della politica. Durante la guerra civile seguita alla guerra franco-prussiana Babette è costretta a fuggire, e trova asilo sin uno sperduto paesino norvegese, abitato da una congregazione luterana di costumi estremamente sobri e aliena da qualsiasi lusso. Le insegnano a preparare i rustici cibi del luogo, zuppe di pane e birra e impasti di baccalà, e Babette per molti anni vive nell’anonimato di questa semplice routine. Un giorno però vince una lotteria, e con i soldi guadagnato decide di offrire un “pranzo francese” alla piccola comunità locale. Si procura gli ingredienti, che i semplici luterani vedono arrivare con un certo allarme: casse di vini, gabbie di quaglie, una enorme tartaruga… Gli onesti e semplici abitanti del villaggio decidono, per non cedere ai peccati del lusso, e come sentendo un tocco demoniaco in tutti quei preparativi, di non proferire parola sul cibo che avrebbero consumato. Babette si da da fare in cucina e destino vuole che al pranzo partecipi un generale che ha vissuto a Parigi e ha pranzato al Café Anglaise. La funzione di questo generale è essenziale nel racconto perché è lui a rappresentare l’Altro del riconoscimento, colui che ha la formazione necessaria a distinguere la Cailles en sarcophage da qualsiasi timballo di merluzzo, a sorprendersi del pregiato champagne d’annata che i paesani prendono per limonata… Il cibo come oggetto di desiderio, in altri termini, è il cibo in quanto è nella trama simbolica dell’Altro, è oggetto del fantasma, è teatralizzato, vestito a festa, e invoca l’arte della presentazione, richiede una formazione per essere non solo consumato ma gustato. In tal modo il cibo non è più allora solo oggetto di una pulsione, ma tramite di un mondo, come il mondo aristocratico di cui era circondata Babette. Quando andiamo in un paese straniero, oltre a visitare i monumenti, conoscere la storia, leggere gli scrittori, vogliamo assaggiare la cucina locale, che è forse una delle ultime cose non esportabili e non globalizzabili. La preparazione e la presentazione del cibo sono parte integrante della cultura. Questo stacca il cibo dalla semplice idea di nutrire, e anche da quel particolare segnale che è la sazietà. Nella misura in cui il cibo ci introduce in un mondo, questo punto d’arresto, questo semplice segnale biologico perde pregnanza. Gli etologi hanno fatto un esperimento: hanno tagliato l’addome di un ape che sta succhiando il nettare. Non chiedetemi come hanno fatto, pare che l’ape non se ne accorga e continui a succhiare. L’addome però non si riempie mai, e l’animale, non ricevendo il normale segnale di sazietà, continua a succhiare fino a morire. Anche nell’uomo c’è un segnale biologico di sazietà, ma se esiste una sazietà biologica, una quantità sufficiente di carburante per le funzioni della vita, non c’è, se così si può dire, una sazietà del gusto di mondo. Perché? Perché nella misura in cui il cibo veicola un mondo, diventa tramite di un’inclusione. Se mangiamo il cibo giapponese rarefatto descritto da Barthes, è perché, almeno per un lasso di tempo, vogliamo far parte di un modo di vita diverso dal nostro. Se cerchiamo invece i cibi rustici del popolo, è perché attraverso essi sentiamo di voler far parte del suo sano e semplice modo di vita. Basta guardare le pubblicità. Uno spot dell’amaro Averna un po’ di tempo mostrava un veterinario, in abiti da campagna, con pesanti stivali di gomma, che si spostava per visitare un animale, credo fosse un cavallo, e veniva poi ricevuto e festeggiato dai contadini che gli offrivano un amaro. Bere l’amaro, suggerisce lo spot, è vivere all’aria aperta, con costumi semplici e naturali come quelli mostrati nel filmato. La data Barilla aveva come slogan: “Dove c’è Barilla c’è casa” e induceva l’idea del piacere dell’intimità famigliare che si accompagnava al gusto della pasta. Quando Guido Barilla, rispondendo a un’intervista che non avrebbe mai fatto uno spot con una famiglia omosessuale, ha sbagliato e ha aperto le cataratte del cielo tirandosi addosso un diluvio di polemiche, ma ha semplicemente ribadito il concetto di famiglia sacrale a cui si riferisce l’azienda e il target di mercato che condivide questo valore a cui l’azienda i rivolge. Anche il Mulino Bianco puntava sulla famiglia e sulla natura, la “casa nel verde”. Poi si aggiornata erotizzando i suoi spot con Banderas, e si è resa vulnerabile all’irresistibile parodia di Crozza. Potremmo ancora esplorare tutte le varianti tra le case dove si cucinano piatti pronti, dove si consumano insalate in bustina, e quelle invece dove si dedica tempo e cura alla preparazione delle vivande, dove si cercano ortaggi freschi, prodotti a Km 0. Nella misura in cui il cibo veicola un mondo, va sullo il segnale biologico di sazietà perde significato, e viene invece in primo piano il rapporto di inclusione/esclusione. Consumare un cibo o un prodotto significa essere accolti nella grazia e nell’amore di chi ce lo offre, far parte del mondo e dei valori che lo accompagnano Nel rifiuto anoressico nel cibo leggiamo allora la volontà di separarsi da un contesto, abitualmente quello famigliare, per le complessità relazionali o emotive che il soggetto vi trova. Il cibo come dono non ha come corrispettivo il segnale biologico della sazietà, ma il segno d’amore, e la domanda d’amore è insaziabile, non c’è segno che la chiuda in via definitiva. Nella misura in cui il cibo è veicolo d’inclusione o esclusione, in cui diventa invito, accoglienza nella propria intimità, perde la possibilità del limite. Non c’è limite nella domanda d’amore. Questa perdita del limite, quando entra in gioco la dialettica della domanda e del desiderio, porta il cibo nello spazio pulsione e lo fa vacillare dalla posizione di oggetto di desiderio a quella di oggetto di godimento. Quando si parla del cibo come oggetto di godimento si pensa abitualmente al modo di soddisfacimento totalizzante che il soggetto cerca nel rapporto con esso. In questo senso la bulimia si allinea alle forme di dipendenza, che sono le patologie di fondo dell’epoca contemporanea. Non si tratta solo delle diverse forme di tossicodipendenza, ma della dipendenza dal gioco, da internet, una volta si parlava di teledipendenza, o ancora la dipendenza dagli acquisti, dal lavoro, dall’esposizione al rischio, dai farmaci, dal sesso. Tutti, in fondo, dipendiamo, in diversa misura, da un sintomo, che costituisce una sbarramento all’angoscia di vivere, al male oscuro, come lo chiamava Berto. Sul piano della pulsione orale il cibo diventa allora una sorta di tamponamento dell’angoscia, di oggetto snudato della sua veste formale. Come oggetto di desiderio il cibo si presenta nell’abbellimento della presentazione che ne fa un oggetto relazionale. Il cibo come oggetto di godimento è invece un oggetto bruto, degradato. È il junk food, il cibo spazzatura, dove l’importante è rimpinzarsi, non gustare. Non è cercata la prelibatezza, ma la saturazione. E, di fatto, la saturazione impossibile, perché il vuoto che si tenta di riempire non è il vuoto dell’appetito, ma il vuoto della vita. La spoliazione formale del cibo, quando entra in questa funzione, costituisce – come sanno tutti i terapeuti che si occupano di questo tipo di problemi – la vera difficoltà del trattamento, perché portano il cibo su un piano antimetaforico e antisimbolico. L’effetto di questa degradazione dell’oggetto da simbolico a brutalmente reale è di renderlo insostituibile. Sappiamo quanto sia difficile surrogare le sostanze elettive del tossicodipendente o dell’alcolista. Lo stesso vale per la dipendenza dal cibo, quando questa si configura come tamponamento dell’angoscia di fondo. Il simbolico è il segno delle sostituzioni possibili, i meccanismi fondamentali stessi del linguaggio, la metafora e la metonimia, sono forme di sostituzione – e su questo si fondano le operazioni della psicoanalisi classica. Attraverso l’interpretazione si opera una sostituzione, o il rovesciamento di una sostituzione sintomatica che, rendendo inutile il sintomo, lo scioglie e lo disannoda. Le patologie contemporanee si presentano su un piano diverso. Se l’oggetto sintomatico non ha un valore simbolico ma di soddisfacimento reale, non entra nelle catene di sostituzione, diventa insostituibile, e quindi, apparentemente, inamovibile. Sappiamo che il bulimico non è un buon commensale, non è un compagno di tavolate. Spogliato il cibo dal suo valore simbolico, il bulimico prende la prospettiva inversa rispetto a quella disegnata da Apollinaire, perché mangia da solo, mangia di nascosto, mangia sopraffatto dal senso di colpa. Nella misura in cui il cibo come oggetto di godimento esce dal circuito degli scambi simbolici, il soggetto bulimico si chiude sul cibo come su un oggetto autistico. Il cibo non è più allora tramite di relazione, ma fattore di chiusura, tamponamento estremo. Ma è interessante anche vedere come funziona il cibo-godimento nell’anoressia, dove in realtà viene rifiutato, e considerare come il godimento passa attraverso il rifiuto. Nell’anoressia il rifiuto si declina in molti modi. Si tratta innanzitutto di un rifiuto a farsi ingozzare dall’Altro – che esprime la necessità di mantenere un vuoto. A volte può trattarsi di allontanare l’attenzione di un genitore soffocante, o di un nutrimento sentito come alienante. Mantenere un vuoto significa qui la possibilità di mantenere il desiderio. Vi è poi un rifiuto del cortocircuito che nella risposta alla domanda d’amore presenta la saturazione del bisogno, ed è quindi un rifiuto funzionale a mantenere la domanda d’amore. Poi c’è un rifiuto che è una difesa dal desiderio dell’Altro, dalla sua intrusione, e questo consente al soggetto una posizione di padronanza attraverso un rovesciamento dell’onnipotenza dell’Altro. Attraverso il rifiuto si realizza quindi il godimento della padronanza. Ma c’è anche quel godimento della rinuncia in quanto tale, che già Freud aveva notato a proposito dell’ascetismo, e che porta a un avvitamento verso una privazione sempre maggiore. C’è poi un rapporto con il godimento che non è quello autistico su cui si richiude il bulimico o quello del rifiuto espresso dall’anoressico, ed è interessante perché mostra il confine, il limite, il passaggio dal cibo come oggetto di desiderio rivestito del prestigio che assume nelle forme del fantasma, al cibo come godimento in quanto tale, ma non ancora godimento bruto, ma come presentazione del desiderio minaccioso dell’Altro. Nelle infinite sfumature tra queste due funzioni del cibo come oggetto di desiderio e come oggetto di godimento troviamo tutta la varietà possibile di patologie che si legano al cibo, e l’orientamento della psicanalisi su questo dà le più chiare coordinate per il trattamento, come mostra la ricca esperienza dell’Istituzione che ha organizzato questa giornata, la villa Miralago.
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Marco Focchi riceve in
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Novembre 2024
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