Intervento tenuto a Milano presso la sede dell'Istituto freudiano, il 27 ottobre 2007 di Marco Focchi Il Centro clinico di psicoterapia e psicoanalisi applicata di Milano viene oggi per la prima volta presentato pubblicamente, ma la sua storia è cominciata almeno da due anni, da quando abbiamo cominciato a parlarne a Parigi, nelle giornate d’autunno del 2005. Perché abbiamo parlato a Parigi di un’esperienza che vogliamo fare a Milano? Perché il Centro clinico, se nasce evidentemente in collegamento con esigenze locali, è tuttavia in relazione con una serie di esperienze internazionali che hanno concretamente preso avvio quattro anni fa con l’apertura del Centro psicoanalitico di consulenza e trattamento (CPCT) a Parigi, in rue Chabrol, a cui ha fatto seguito l’apertura di Centri analoghi a Barcellona, a Madrid, a Bruxelles, a Roma, in diverse altre città della Francia, da Marsiglia a Montpellier, a Lione, a Bordeaux, ad Antibes. Il nostro Centro nasce quindi nell’ambito di un movimento di dimensione europea, che ha lo scopo di far uscire la psicoanalisi dai propri luoghi canonici e tende ad aprirla a un pubblico che, diversamente, non potrebbe conoscerla. Il nostro Centro, come gli altri omologhi nelle altre città, ha due caratteristiche particolari: in primo luogo è gratuito, e in secondo luogo permette solo un numero limitato di sedute, dieci nel nostro caso. Tutti i Centri hanno inoltre l’ambizione di porsi come interlocutori delle strutture istituzionali cittadine deputate alla salute mentale. La psicoanalisi nello spazio pubblico
L’aspirazione a proporsi in tal modo, a uscire dallo spazio privato e a offrirsi alla città, si sostiene sulla convinzione che la psicoanalisi è utile, e che proprio per questo deve essere destinata a un pubblico quanto più ampio possibile. Partiamo dall’idea che l’incontro con uno psicoanalista serve ad affrontare e a sciogliere molti nodi che si presentano problematicamente nella civiltà contemporanea e che ciò rende necessario mettere a disposizione un accesso facilitato alla psicoanalisi. Il Centro è quindi, innanzi tutto, una porta aperta. Fino a oggi la psicoanalisi era stata accessibile in modo selettivo, non tanto per motivi economici, quanto piuttosto per ragioni culturali: è giunto ora il momento di infrangere questo tipo di restrizioni. Da un certo punto di vista né la gratuità né la brevità rappresentano in sé delle vere novità: la gratuità era già praticata al policlinico di Berlino, fondato da Max Eitingon nel 1920, e la brevità si è imposta come esigenza di servizio, per far fronte al gran numero di richieste, e ha trovato le sue prime formulazioni teoriche con Franz Alexander. Eitingon e Alexander non sono certo l’ultimo grido della psicoanalisi: sono dei classici importanti che appartengono alla sua storia. Una nuova formulazione della psicoanalisi La vera novità nella nostra iniziativa è culturale. La psicoanalisi infatti si sta trasformando, sta cambiando al proprio interno sia come teoria, che ha una propria evoluzione, sia come pratica, sia come modalità di attivazione delle proprie risorse. Con il Centro si trasforma ora anche nelle modalità d’incontro con il paziente. Sono noti i temi ricorrenti che hanno accompagnato la stampa d’opinione per quanto riguarda la psicoanalisi negli anni Ottanta e Novanta: si diceva che la psicoanalisi è un’esperienza lunga, che è costosa, che è elitaria, che ha un’importanza più culturale che clinica. Oggi possiamo dire che queste critiche non erano completamente infondate. Non lo erano se individuiamo la psicoanalisi in base ai criteri definiti dal dibattito che ha avuto luogo nel dopoguerra, a partire dagli anni Cinquanta, che ne riconosceva l’identità in certi standard formali: numero di sedute, loro durata, la disposizione dello studio, la presenza della poltrona e del lettino, o ancora un certo tipo d’atteggiamento dell’analista, che consiste nel trattare il paziente un po’ dall’alto, infantilizzandolo per favorire una supposta regressione. Sembra ci sia stato costantemente un bisogno di identificare la psicoanalisi separandola da qualcos’altro: gli psicoanalisti della prima generazione hanno avuto bisogno di definire l’identità della psicoanalisi facendola risaltare in contrasto con l’ipnosi, cercando quindi soprattutto di distanziare la traslazione dalla suggestione; quelli della seconda generazione hanno avuto bisogno di preservare la psicoanalisi dall’essere confusa con le nuove psicoterapie che nascevano prendendo ispirazione da essa, e lo hanno fatto codificando gli standard rigidi che si sono mantenuti fino a Lacan. Siamo ora in un’epoca diversa, che ha visto cambiare rapidamente il tessuto sociale in cui siamo cresciuti, che ha sentito la forma delle relazioni modificarsi, che ha conosciuto una trasformazione senza precedenti del rapporto con l’autorità, che ha percepito il mutamento delle mitologie alla base della società. Intanto la psicoanalisi non è più la giovane scienza in cerca di legittimazione, che ha bisogno di consolidare la propria identità. In un secolo di vita la psicoanalisi ha dato prova delle proprie capacità d’intervento, del valore dei propri risultati, della solidità dei propri principi. Questo le permette di uscire dalle riserve indiane in cui la confinavano gli standard degli anni Cinquanta per apparire in luoghi, come il Centro, che sono luoghi di risposta, luoghi dove chi si presenta – portato e lavorato dai propri quesiti, quelli che la società di oggi gli pone, e che prendono forma di sintomo o di disagio – può trovare una risposta. Le due possibilità della psicoanalisi In questo modo di porre il problema si può vedere una significativa differenza tra due possibilità d’intervento della psicoanalisi, due possibilità che restano entrambe valide, ma che seguono strade diverse. Da un lato c’è una psicoanalisi all’ascolto di ogni minimo indizio soggettivo, che segue la traccia di un inconscio che continuamente si sottrae, che cerca di delineare l’Altra scena, in cui il soggetto è preso senza saperlo per fargli acquisire un sovrappiù di sapere in grado di scioglierlo dall’incantesimo che lo lega al sintomo. È la via classica, quella che consente l’autentica traversata soggettiva, che dà la possibilità di un’esperienza unica e ineguagliabile, non riducibile all’aspetto terapeutico. Dall’altro lato c’è invece una psicoanalisi più impaziente, che non segue le contorsioni dell’inconscio, che affronta il reale della sofferenza cortocircuitando i labirinti del simbolico, aprendo il ventaglio dei propri mezzi, accrescendo la gamma delle proprie risposte, e che non resta a indugiare sul senso e sull’interpretazione: la diagnosi diventa rapida – motivo per cui occorrono all’inizio, nel Centro, gli psicoanalisti più esperti, più capaci, più consolidati – e la risposta deve essere altrettanto pronta, precisa, efficace. L’imperativo della riuscita La testimonianza – pubblicata nel n° 261 de La lettre mensuelle – di un collega spagnolo, Antoni Vicens, da tempo impegnato a Barcellona nell’esperienza dei Centri, è, in questo, illuminante. Sottolinea come nel lavoro nei Centri non si stia ad attendere la rimemorazione, e come il sintomo piuttosto venga provocato per trovarne la varité – cioè la verità nei suoi diversi risvolti – che si presenta come soluzione a un problema impossibile. La traslazione poi – aggiunge – non può essere collegata al soggetto supposto sapere, ma deve poggiare su un sapere effettivo, cosa che mette ancora di più l’accento sull’esigenza di psicoanalisti esperti. Nel nostro modo di vedere non assimiliamo la psicoanalisi alla scienza, e questo tocca la differenza epistemologica tra psicoanalisi e medicina, ma il funzionamento che fa leva su un sapere effettivo avvicina maggiormente la nostra pratica, se non alla scienza, alle sfide che la scienza impone nella modernità: l’efficacia, il successo, la riuscita. Far cilecca nel modo giusto La psicoanalisi prende queste sfide a modo suo, le prende cioè a rovescio. Si avvicinano a noi infatti persone che, per così dire, nella vita hanno fatto cilecca, che in qualche modo sono alla deriva rispetto agli ideali sociali. Chi sente di non aver centrato gli obiettivi della vita chiede di rovesciare la situazione, chiede di riuscire dove ha fallito, la sua domanda è di successo, conformemente a quanto l’ideale sociale impone. Ebbene, in questi casi invece la vera riuscita è quando si ottiene di far emergere che il particolare modo in cui una persona fa cilecca è molto più significativo di un successo che si allinea alla conformità. Si riesce allora a mostrare al soggetto che il suo modo di far cilecca non è il segno di un fallimento – che sarebbe semplicemente il contrario del successo sociale richiesto – ma una condotta che mette in luce la propria irriducibile singolarità rispetto alle comuni esigenze di adeguatezza e di adattamento, che è il segno particolare a partire dal quale può verificarsi per lui l’inserimento o il disinserimento sociale. Questo significa che, nel Centro, dare una risposta non vuol dire conformare il soggetto a ideali il cui valore sarebbe per lui meramente utopico, ma mostrargli che dove crede di fallire c’è qualcosa di reale che percepisce ora come impedimento, ma che può invece attivare come risorsa. Dare una risposta non significa svelare un senso nascosto, ma liberare nuove possibilità di utilizzo, mettere a disposizione del soggetto ciò che ha senza sapere di averlo. La risposta che trova chi viene al Centro lamentando le proprie debolezze, il proprio disagio, le proprie sofferenze non è allora quella vagamente moralistica dell’imperativo di riuscita, non segue la china superegoica che prescrive il successo come realizzazione della pienezza. L’obbedienza delle cose Bisogna dire che la scienza contemporanea un po’ ci ha viziato: la scienza alimenta la tecnica che è un modo di approccio al reale fondato sull’obbedienza. Oggi giriamo un interruttore e in un istante abbiamo la luce, non dobbiamo aspettare che un lampo incendi un albero né ci tocca strofinare per ore legnetti fino a che ne scaturisce una scintilla; accendiamo un telecomando e otteniamo la temperatura ideale, ne attiviamo un altro e vediamo immagini provenienti dall’altro capo del mondo. Questo tipo di ottemperanza, di conformità automatica al comando costituisce l’essenza della tecnica ed è una grande fonte di comodità che non credo valga la pena di demonizzare. Se però ci s’incanta, ci s’ipnotizza con l’ossequio che le cose mostrano nei confronti dell’imposizione tecnica, e se ci si lascia trascinare dal demone dell’analogia, si rischia d’immaginare allora che il fattore umano possa rispondere con la stessa duttilità alle prescrizioni della tecnica, si pensa che possa entrare nello stesso dispositivo di controllo. Da quest’idea traggono ispirazione alcune forme d’intervento psicoterapeutico che, abbagliate dalla riuscita della scienza, costruiscono l’equazione impropria tra le cose e l’umano dandosi come obiettivo il successo pieno, la cancellazione del punto in cui il soggetto ha fatto cilecca – la cancellazione della mancanza. L’invidia degli dei Un antico concetto greco, che ha la sua migliore formulazione in Erodoto, quello dell’invidia degli dei, mostra che un uomo ricolmo di tutte le fortune è in pericolo, perché rivaleggia con la pienezza degli dei ed è destinato ad incorrere nella loro ira e nella distruzione. La versione moderna di questo concetto è l’angoscia. L’angoscia sorge dove manca la mancanza, ed è proprio perché è ossessionato dalla cancellazione della mancanza che l’uomo contemporaneo è tallonato dall’angoscia, un’angoscia gli invade la vita e che prende la via delle formazioni sintomatiche, quelle ormai comunemente repertoriate: anoressia, panico, dipendenze, ossessioni, depressione. Le virtù del punto d’inciampo La psicoanalisi, proprio per questo motivo, si scosta dall’insieme di pratiche che mimano le scienze e vede, nelle smagliature della riuscita, non il fallimento, ma il punto in cui l’umano si sottrae all’automatismo, alla massificazione, al destino cosale di consumatore e di consumato dalla macchina spettacolare. Bisogna dunque dare il suo vero valore alla mancanza, da cui si articola il desiderio, perché è un punto d’inadempienza all’universalismo conformista che proprio per questo si costituisce come sintomo, cioè come interrogativo sull’esistenza, sul sesso, sulla vita e sulla morte, e sulle incertezze della vita, sulla sua precarietà, perché la vita è la vita degli uomini con gli altri uomini, non con le cose, o almeno non solo, e l’instabilità, la precarietà, il senso di emarginazione, la solitudine, il senso di abbandono nascono nelle relazioni e nelle loro difficoltà, provengono dal fatto che nelle relazioni non c’è automatismo, non si preme un bottone per far sgorgare l’amore, la gratificazione, il riconoscimento. Nelle relazioni tutto viene dall’evento, dall’incontro, dalla contingenza, con il carattere di unicità che li distingue. La scienza non può valorizzare il punto d’inciampo, perché il suo progetto riguarda le cose disponibili, consiste anzi nel mettere gli oggetti a disposizione. Una pratica come l’arte invece, per esempio, si rivolge a qualcosa di diverso dall’oggetto disponibile, chiama in causa piuttosto l’oggetto inattingibile, l’oggetto di soddisfazione, di godimento, quello che non appartiene al mondo dell’uso e del consumo, ma che piuttosto ha in sé qualcosa d’inconsumabile, qualcosa che lo rende eterno. Per questo motivo l’arte si rivolge alla singolarità, a ciò che è opposto all’universale. L’artista procede dal punto d’inciampo, dove l’automatismo si blocca e resta bloccato lì a volte per giorni, per mesi, per anni, come succede al pittore che non riesce a finire il suo quadro, o al poeta incantato di fronte al foglio bianco. Vittorio Alfieri si faceva legare alla sedia facendo appello alla volontà, ma è una finzione: sappiamo tutti che l’arte non si esegue a comando, che non c’è una tecnica con un automatismo che la fa partire. Si resta allora bloccati lì, finche’ non succede qualcosa, finché l’ispirazione non prende per mano e quel che appariva come l’inciampo si rivela essere il piedestallo su cui salire e da cui protendersi verso una nuova visuale. Ciò che sembrava l’ostacolo al successo, alla riuscita, all’efficacia, si rivela essere il punto di forza. Ciò che fa arrestare, soffermare, diventa ciò che permette di varcare una linea al di là della quale si fa sentire la presa sul reale. L’inciampo dell’automatismo, quello che nella scienza mette a disposizione le cose, nell’arte diventa la via d’accesso per fare presa su qualcosa che è fondalmentalmente indisponibile e che deve rimanere tale, ma che tuttavia è portato a mostrarsi, ad accedere all’apparire, presentandosi in una configurazione di sapere che è diversa da quella del sapere scientifico. Nell’arte si realizza una presa che non ha la sicurezza della necessità, che è piuttosto segnata dalla sorpresa del contingente, è una presa che è solo uno sfiorare di striscio, che fa però balenare un lampo d’eternità. Anche la psicoanalisi ha questo modo di presa che avviene attraverso la mancata presa. Per questo la psicoanalisi è – se cosi vogliamo dire – una scienza della contingenza, un dispositivo discorsivo fatto per cogliere la fugacità dell’evento, l’unicità del momento decisivo. Questo dispositivo discorsivo è esportabile, è indifferente all’arredamento. Non importa se nella stanza ci sono una poltrona e un divano, o se ci sono una sedia e uno scrittoio. L’impero universale della matrice costi-benefici e l’unicità della scelta Credo che in questa flessibilità possiamo vedere la forza della nostra proposta, che è una proposta in presa diretta con il sociale e con le sue mobilità, non con l’automatismo delle cose. L’ultimo insegnamento di Lacan, in particolare, contiene tutti gli elementi per sviluppare la psicoanalisi come dispositivo discorsivo in presa con il sociale e in grado di fornire risposte a quello che è il disorientamento moderno, il senso di perdita, il blocco patologico di fronte al bivio che la vita presenta dove qualunque s’imbocchi delle due strade che si aprono si va incontro a un deficit: è un bivio paralizzante, visto in un mondo che tende a universalizzare la matrice costi-benefici, ma in realtà è il bivio dell’etica, della scelta a partire da cui conduciamo la nostra azione nel mondo. La nostra scommessa consiste nel mostrare l’utilità della psicoanalisi attraverso una via che non universalizza l’utile, seguendo una pista che non nasconde la crepa, percorrendo una strada che certo vuol vedere funzionare le cose, ma che non fa del funzionamento un’ideologia, e che vede nel punto d’inciampo non un ostacolo da spianare ma una battuta d’arresto, un tempo sospeso, l’indice, il segno, il sintomo di una dimensione che l’utile non comprende, e che incrina l’utile. Se si toglie questa dimensione, quella di una sospensione interiore, la vita si comprime nel circuito di una prestazione onnivora. Il Centro, in questa prospettiva, è dunque un luogo dove un soggetto in crisi può avere una battuta d’arresto, una risposta che non miri semplicemente a riciclarlo nel meccanismo produttivo, e che abbia riguardo del fatto puro e semplice che di fronte c’è una persona che esiste, che è a disagio o soffre, e che ha qualcosa da dire e da chiedere.
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