Marco Focchi Conferenza tenuta il 26 marzo 2023 per la rassegna Filosofia sui Navigli L’inconscio è, in un certo senso, il marchio di fabbrica dell’opera freudiana e della psicoanalisi nel suo insieme, anche se il termine era già ben presente nella filosofia ottocentesca. Nell’epoca di Freud due grandi filoni si contendono infatti il terreno: l’idealismo, che domina la prima metà del XIX secolo, e il positivismo, che domina la seconda. Nell’idealismo troviamo che se per Fichte l’io pone il non io, l’atto con cui lo pone è inconscio. In Schelling lo spirito opera nella natura in modo inconscio. Schopenhauer non appartiene all’idealismo, ma l’inconscio ha una parte centrale anche nel suo pensiero: dietro la volontà dell’individuo c’è infatti la spinta inconscia della volontà della specie. Eduard von Hartmann poi, nella sua opera maggiore Filosofia dell’inconscio fa una sintesi tra l’idealismo e le concezioni di Schopenhauer ponendo l’inconscio come il principio assoluto della realtà. Per Nietzsche poi l’inconscio affonda nelle potenze dionisiache della vita. Ma è senz’altro Freud che dà all’inconscio il conio con cui ancora oggi se ne parla. Cos’è l’inconscio?
Dobbiamo in realtà domandarci se davvero sappiamo cos’è l’inconscio. Per quanto costituisca il filo rosso del pensiero psicoanalitico, non possiamo dire di averne una definizione univoca, e per le migliori ragioni, se consideriamo che quel che si può definire univocamente appartiene alla sfera dell’oggettività trattata in termini matematici. In una trasmissione radiofonica degli anni Settanta Lacan si è espresso dicendo che è vero, non sappiamo ancora oggi cosa sia l’inconscio, ma d’altra parte on sappiamo bene neppure cosa sia la natura, anche se questo non impedisce alla fisica di operarvi. Può sembrare una delle tipiche boutade di Lacan. In realtà, se ci pensiamo, si tratta di una riflessione precisa: il nostro interesse per l’inconscio appartiene più all’aspetto pratico operativo che non a quello concettuale, perché le operazioni della psicoanalisi non riguardano un piano di oggettivazione ontologicamente circoscrivibile. Quando Freud fa i suoi primi passi, l’accesso pratico all’inconscio avviene infatti attraverso l’ipnosi. Alla scuola di Charcot Freud vede suggestioni indotte durante il sonno sonnambulico, che scompaiono quando il paziente riprende consapevolezza, e che tuttavia restano operative come indicazioni latenti poste a guidare le azioni del soggetto, sorta di fili invisibili che muovono l’essere umano da dietro le quinte della coscienza. La rappresentazione La rivelazione dell’inconscio si presenta quindi agli occhi di Freud attraverso una via eminentemente pragmatica. Quando tenta invece di renderne conto sul piano metapsicologico, per dar consistenza alla nozione d’inconscio Freud fa ricorso al concetto di rappresentazione. L’inconscio freudiano è fatto di rappresentazioni che affiorano o scompaiono dalla coscienza, e la materia dello psichico è propriamente costituita da rappresentazioni. Questo potrebbe essere preso come ovvio, perché ci sembra di sapere intuitivamente cos’è una rappresentazione. Freud ha tuttavia sullo sfondo lo spessore della filosofia tedesca, che gli giunge attraverso la mediazione di Johann Friedrich Herbart. Allievo di Fichte, Herbart è uno di quei discepoli che non si mettono pedissequamente sulla scia del maestro. La sua riflessione parte anzi proprio da una contestazione di Fichte, considerato troppo astratto, e dalla formulazione di un progetto di psicologia che ha l’ambizione di essere scientifica. Siamo in piena a fioritura del pensiero positivista, e il lavoro di Herbart prepara il terreno per gli sviluppi successivi della psicologia scientifica, con Heinrich Weber, Wilhelm Wundt, Gustav Fechner. Herbart dà però l’abbrivio anche ai primi passi di Freud nutrendone il pensiero. Per fondare scientificamente la psicologia occorre un elemento discreto, un atomo, un dato di base che risulti misurabile e, nella visione di Herbart, le rappresentazioni sono elementi che interagiscono tra loro, che entrano in sintonia o in contrasto, producono una tensione, esprimono quindi una forza che, in quanto tale, è misurabile. Herbart costruisce così una meccanica delle rappresentazioni rivestita di una complessa armatura matematica che offre la garanzia e il necessario requisito di scientificità. La nozione di rappresentazione naturalmente non nasce con Herbart, entra nel lessico della filosofia tedesca con Leibniz e, attraverso Wolff e Kant, si trasmette a Fichte e poi a Herbart. La rappresentazione però porta con sé il peso di una metafisica che, passando per il medioevo, possiamo far risalire a Platone, all’eikasia, che è l’immagine simile alla cosa – per esempio l’immagine che si riflette in uno specchio d’acqua – primo segmento della teoria della linea di cui si parla nella Repubblica. Il progetto di uno studio scientifico della psicologia implica dunque l’oggettivazione dell’elemento psichico. L’oggettivazione è la premessa di fondo per ogni prospettiva che rivendichi uno statuto scientifico. L’oggettivazione della rappresentazione in Herbart diventa dunque il vettore di un’oggettivazione che si trasmette alla formulazione dell’inconscio in Freud. Bisogna però fare una considerazione: la rappresentazione porta con sé il carico ontologico di un riferimento alla cosa, implica cioè uno sdoppiamento tra l’oggetto del pensiero e l’oggetto a cui il pensiero si rivolge. Il problema non cambia se la rappresentazione ha come referente un’altra rappresentazione, questione che ritroviamo in Freud nella divisione tra rappresentazioni di cosa e rappresentazioni di parola. Questo, se prendiamo il punto di vista di Brentano – i cui corsi su Aristotele Freud ha seguito quando Brentano insegnava a Vienna – diventa interessante perché per Brentano la rappresentazione ha un carattere intenzionale, è cioè un atto psichico che si riferisce a una cosa. Possiamo dire che per Herbart la questione della rappresentazione si ponga negli stessi termini? Direi piuttosto che, per poter essere pensata come scientifica e matematizzata, la psicologia di Herbart tende a concepire la rappresentazione come una cosa che sta nella testa piuttosto che come un atto riferito a una cosa, e che solo in questo modo una rappresentazione può far entrare, nelle sue interazioni con le altre rappresentazioni, una forza che la renda misurabile. Anche se Freud non menziona mai Brentano nei suoi scritti, se non marginalmente, possiamo considerare che nell’assumere l’idea della rappresentazione siano confluiti i versanti di entrambi i pensatori: la rappresentazione in Freud assume il carattere oggettivante che ha in Herbart, e mantiene al tempo stesso il carattere intenzionale che ha in Brentano. L’idea della rappresentazione come una cosa che sta nella testa è però difficile da sostenere alla luce delle critiche sollevate dalla fenomenologia, e in particolare da Sartre nel suo studio su L’immaginario. Sappiamo poi che di Sartre Lacan è stato un attento lettore, ed è difficile sottovalutare l’influenza che può aver avuto nella formulazione da parte di Lacan della teoria dell’imago. L’imago Prima di arrivare alla tesi dell’inconscio strutturato come linguaggio infatti Lacan ha come riferimento l’imago. Nel concetto di imago c’è già un’importante differenza rispetto alle idee che abbiamo presentato sulla rappresentazione. Nell’imago infatti non si tratta della replica di una cosa reale, né del riferimento sensibile a una cosa, ma di uno schema inconscio in cui si determina la relazione con l’altro. Il concetto di imago affiora in una fase in cui Lacan considera centrale l’identificazione come fattore attivo di trasformazione, e su questo si appoggia tutta la teoria della stadio dello specchio, dove l’immagine speculare è qualcosa di completamente differente dalla riproduzione duplicativa di un originale oggettivo. Ne Lo stadio dello specchio (p.95 dell’edizione francese) l’imago è definita piuttosto come “la soglia del mondo visibile.” A differenza della rappresentazione in Herbart che, malgrado il dinamismo in cui è descritta, ha comunque un carattere cosale, l’imago di Lacan è presentata come un operatore che trasforma il soggetto quando questi l’assume (p.96). Ne Lo stadio dello specchio l’immagine non è un fatto o una cosa mentale, è una funzione che permette di organizzare un corpo altrimenti scoordinato, il corpo in frammenti, disperso nella varietà delle spinte pulsionali, e che riceve dall’esterno un impronta unificante. L’imago è inoltre la cellula a partire da cui si svilupperà poi il significante, quando Lacan entrerà nella prospettiva strutturalista, formulando la tesi dell’inconscio strutturato come un linguaggio. Lo strutturalismo Su questo occorre però fare un’ulteriore riflessione. Lo strutturalismo si muove infatti in una prospettiva scientista, con il progetto di dare alle scienze umane un rigore analogo a quello delle scienze consolidate, il cui paradigma d’origine sono le scienze galileiane. Appropriandosi degli strumenti dello strutturalismo Lacan insegue l’idea di dare uno statuto di scienza alla psicoanalisi. Non pensa naturalmente di farlo con la stessa modalità ingenua presente nei tentativi anglosassoni, che cercano di adattare la psicoanalisi al paradigma epistemologico delle scienze naturali, ma si impadronisce delle forme di rigore che vengono dalla linguistica strutturale, da Ferdinand de Saussure, da Roman Jakobson, dall’antropologia di Claude Levi-Strauss. Muovendosi verso la linguistica l’imago perde la funzione che aveva nel primo momento della ricerca di Lacan, e il suo posto viene preso dal significante. Spesso il riferimento al significante in Lacan viene equiparato alla rappresentazione in Freud. Si tratta di un’equivalenza un po’ sbrigativa, perché in realtà tra i due termini c’è una differenza radicale. La rappresentazione infatti, come abbiamo visto con il suo retaggio herbartiano, è una cosa che sta nella mente, e che deve rapportarsi con qualcosa che dalla mente sta fuori. Il che naturalmente è problematico perché come starebbe nella mente la rappresentazione? Non certo come il pesce rosso sta nella sua vasca, direbbe Sini. La rappresentazione trae con sé infatti tutto il problema del dualismo della metafisica occidentale, che nel XX secolo ha trovato due diverse vie d’uscita: con la fenomenologia e con Bergson. Dov’è il linguaggio? A partire da Lacan, e con il riferimento al linguaggio, la questione si sposta completamente da questa problematica dell’interiorità, anche perché se Freud nella sua clinica prende avvio dalle nevrosi con il trattamento dell’isteria, Lacan prende come punto di partenza le psicosi, e lo psicotico ha con il linguaggio un rapporto più lucido che non noi comuni nevrotici. Mentre nelle nevrosi infatti abbiamo l’impressione che il linguaggio sia qualcosa che ci gira in testa, lo psicotico percepisce chiaramente che il linguaggio gli viene da fuori, si presenta come parola imposta, come voci o, secondo la definizione di Gaetan de Clerambault,– che Lacan riconosce suo maestro – come automatismo mentale. Il linguaggio è in altri termini una macchina in cui il soggetto si trova impigliato. È allora, per esempio, la macchina per influenzare nella schizofrenia, di parlava Viktor Tausk, o le macchine in cui si rinchiudeva Temple Grandin per disangosciarsi. Il linguaggio proviene da un punto di estraneità, ed è questo il motivo per cui la sua acquisizione ha sempre un carattere traumatico. Nell’esperienza con i bambini autistici l’estraneità del linguaggio è manifesta quando i bambini portano enunciati di cui non si fanno soggetto dell’enunciazione, quando fanno risuonare le frasi che hanno sentito a casa, quando presentano frammenti di discorsi che ripetono come fossero un registratore. Anche gli altri bambini naturalmente riportano le frasi sentite a casa, ma si tratta piuttosto di citazioni all’interno di un proprio discorso, sono espressioni fatte proprie, che i bambini introiettano e di cui sono soggetto dell’enunciazione, di cui si fanno, in altri termini, responsabili assumendole e interiorizzandole. L’impressione che il linguaggio sia qualcosa che ci gira in testa dipende proprio da questo rovesciamento di prospettiva realizzato dal nevrotico, che occulta quindi la fonte, e che lo psicotico restituisce invece in forma diretta e pura. Dobbiamo prendere in questo senso la definizione di Lacan secondo cui l’inconscio è il discorso dell’Altro: è il discorso che abbiamo interiorizzato e che parla dentro di noi senza che noi ne siamo consapevoli. Ma per lo psicotico non c’è nessuna interiorizzazione di quest’alterità. Gli ipnotisti del secolo scorso conoscevano molto bene il fenomeno dell’interiorizzazione del discorso dell’Altro. Quando davano un ordine ipnotico al soggetto, una volta risvegliato questi lo eseguiva nel tempo e nel modo indicato dall’ipnotista, seguendo scrupolosamente le sue istruzioni. E se si trattava di azioni insensate, quando veniva richiesto di motivarle, il soggetto inventava storie che potessero apparire plausibili per dare un senso a quel che non poteva averne alcuno. Quando Jacques-Alain Miller dice, interpretando Lacan, che l’inconscio ha la struttura del discorso del padrone, dobbiamo avere in mente lo sfondo or ora descritto, che rende plasticamente comprensibile questa definizione. Quel che segna Possiamo molto agevolmente prendere le esperienze degli ipnotisti per illustrare il modo in cui le parole che ci hanno segnato nell’infanzia vengono a costituire un discorso che ci porta senza che noi lo sappiamo. Cosa fa l’ipnotista? Elude l’attenzione vigile per far passare una suggestione che diventerà operativa in un momento successivo. Nell’infanzia succede esattamente la stessa cosa. Prima che il bambino abbia coscienza di checchessia, si imprimono in lui parole che lo segnano, che contrassegnano esperienze cruciali, che aprono in lui come dei varchi, delle ferite, dei solchi che rimarranno determinanti per il seguito della sua vita. È chiaro che qui che ci troviamo in un contesto concettuale completamente diverso da quello delle rappresentazioni e dell’immagine. Non abbiamo una specularizzazione della realtà o un rimando referenziale a un oggetto: abbiamo piuttosto dei segni sul corpo, una scrittura. Questi segni sul corpo sono anche la condizione preliminare della coscienza rappresentativa. Ma soprattutto riconosciamo in essi le prime tracce dell’inconscio, e vediamo allora che la coscienza non è più, come in Freud, il punto di partenza da cui riconoscendone le lacune, giustificare l’esistenza dell’inconscio. Il riferimento è piuttosto il corpo o, meglio, il linguaggio-corpo. Nella prospettiva di Lacan l’inconscio non appare come il rovescio della coscienza, come la sua negazione, perché il punto di partenza non è la coscienza, ma è il corpo. Vediamo il corpo allora come superficie le cui fratture, i cui intoppi e i cui punti d’inciampo si presentano come una scrittura. Siamo abituati a pensare la scrittura come una sovraimpressione, inchiostro che si deposita sul foglio, pennellata che si aggiunge alla tela. Dobbiamo rovesciare la prospettiva e considerala piuttosto non per via di porre ma, come direbbe Michelangelo, per via di levare. Nel momento in cui il corpo si manifesta nel suo distacco dallo sfondo del mondo, il segno traumatico di questo distacco si deposita diventando la prima cellula della soggettività. Quando gli psicoanalisti delle origini hanno parlato del trauma della nascita, hanno chiaramente visto, pur esprimendola in termini empirici e biologici, la struttura fondamentale di questo momento genetico, l’evento d’origine che avrà poi la sua traduzione nei fantasmi delle scene originarie. Il modello combinatorio Prima di entrare però nel merito di questa diversa prospettiva occorre fare una considerazione. Quando Lacan passa dall’idea dell’inconscio costituito come un complesso articolato nell’imago alla concezione strutturalista e quindi linguistica dell’inconscio, non dobbiamo perdere di vista il fatto che sta ancora inseguendo l’ambizione di dare uno statuto scientifico alla psicoanalisi, e la scienza, come abbiamo visto, ha bisogno di elementi oggettivi su cui lavorare. Lo strutturalismo di Lacan è tuttavia molto particolare perché, come ha ben mostrato Miller, diversamente da quello per esempio di Lévi-Strauss, include il soggetto. Ciò non toglie che la nozione di un inconscio basato sul linguaggio va ancora nel senso di un’oggettivazione, e il significante, prelevato da Saussure, è a sua volta l’atomo, l’elemento discreto necessario per fondare questa nuova scienza. Lacan lo dichiara chiaramente nel seminario XI dove dice: “Oggi siamo nel momento storico in cui si forma una scienza che possiamo qualificare come umana, ma che va ben distinta da ogni psico-sociologia. Questa scienza è la linguistica, il cui modello è il gioco combinatorio che si realizza spontaneamente, completamente da solo, in modo pre-soggettivo. È questa struttura che dà il suo statuto all’inconscio, è questa struttura che in ogni caso ci garantisce che parlando d’inconscio ci riferiamo a qualcosa di qualificabile, di accessibile, di oggettivatile” (p.24 dell’ edizione francese). Vediamo quindi che il fatto di riconoscere nell’inconscio una struttura linguistica è ciò che ci permette di darne una definizione precisa, e che fa sì che non si perda in quel lato oscuro dell’umano in cui tutte le vacche sono nere. Siamo così in grado di realizzare su di esso delle operazioni, evitando di farlo sprofondare nell’abisso dell’inaccessibile dove potremmo solo formulare nebulose congetture intuitive. Questo inoltre – ed è l’aspetto su cui mi sembra importante attirare l’attenzione – ci consente di averlo di fronte come oggetto, giacché per ogni disciplina che voglia innalzarsi alla dignità di scienza, lo abbiamo detto, è necessario definire qual è il suo oggetto. L’inconscio soggetto Sappiamo tuttavia che Lacan non si fermerà all’idea che l’inconscio sia l’oggetto della psicoanalisi, anche se questo passaggio ci fa capire il punto di mira, la necessità di definire l’inconscio strutturato come un linguaggio. Notiamo solo, per il momento, che a differenza della rappresentazione in senso herbartiano, il significante non è per Lacan una cosa che si ha nella testa, perché è piuttosto qualcosa che ci incontra come frattura nella continuità della vita. È significativo che questa osservazione sulla struttura linguistica dell’inconscio come ciò che ce ne garantisce il carattere oggettivo, si presenti proprio nel momento in cui Lacan sta spostando completamente il suo punto di vista, e sta cercando di cogliere l’inconscio come punto d’arresto, inciampo, incrinatura, fallimento, come frattura attraverso cui emerge un soggetto che “funziona in modo altrettanto elaborato che sul piano conscio, il quale perde così il proprio privilegio.” (Seminario XI, p.27) C’è in questo passaggio una svolta radicale a partire dalla quale non possiamo più indagare la psicoanalisi esclusivamente a partire dal suo statuto scientifico, che presuppone un inconscio oggettivato, perché un soggetto dell’inconscio implica piuttosto un’articolazione con l’etica, e si pone sulla linea di quel che è il desiderio del soggetto, e della scelta che vi è implicata. La scelta Dobbiamo però chiarire la nozione di scelta in questo senso. Non si tratta infatti della scelta nel modo in cui la pensiamo abitualmente, la scelta consapevole, quella che si fa quando di fronte a un bivio si deve decidere quale strada imboccare, e allora ci si pensa, si soppesa, si valuta e poi ci si muove. Questa è la scelta del soggetto già costituito, che si trova di fronte una varietà di alternative possibili. Dobbiamo pensare invece la scelta in cui il soggetto si costituisce, in cui non è già costituito ma si determina proprio a partire dalla scelta stessa. È una situazione assolutamente primaria, quando la vita preme, quando spinge avanti prima che ci sia un io a pensarla. È la spinta della pulsione, e le vie che la pulsione prende – come un torrente che segue le sinuosità del terreno, aggirando le alture, i dossi e assecondando le chine – seguono le asperità, gli ostacoli, gli impedimenti, le articolazioni della rete significante in cui la pulsione si trova impigliata. Consideriamo per esempio l’immagina in cui Bergson descrive lo slancio vitale. Il punto di partenza – dice Bergson – è come un’esplosione, la quale disperde getti che sono a loro volta esplosioni da cui si producono ulteriori linee divergenti. Bergson propone la stessa immagine per spiegare la formazione del carattere umano. Da bambini ci si trova in un’indeterminazione, di fronte all'attrazione di innumerevoli possibilità. Man mano che si cresce queste possibilità vengono selezionate, alcune hanno un seguito, altre vengono accantonate. Nella prospettiva bergsoniana, l’evoluzione della natura, come quella del carattere, presenta il movimento di una spontaneità che seleziona alcune vie abbandonandone altre. Nello stesso modo in cui Bergson dice che nell’evoluzione l’adattamento spiega le sinuosità del movimento evolutivo ma non le direzioni generali del movimento, e neppure il movimento stesso, così possiamo dire che la spinta pulsionale – la causa ultima di ogni attività psichica secondo Freud – imbocca delle sinuosità aggirando gli intoppi del significante che costituisce la trama dell’inconscio. Questi inciampi sono le cellule generative del soggetto inconscio, e ogni direzione imboccata diventa una scelta nel senso del nietzscheiano “così volli fosse”, diventa cioè qualcosa di cui il soggetto si fa responsabile. Possiamo dire che se nella scelta conscia, comunemente intesa, le alternative sono di fronte a me, le considero e le valuto prima di prendere una direzione, nella scelta inconscia sono portato dalla spinta pulsionale – dal flusso, dallo slancio della vita – e una volta presa una direzione me ne faccio responsabile, la faccio mia. O la rifiuto, entro in contrasto con essa, se questa è in attrito con i miei ideali, ma comunque sia prendo posizione rispetto ad essa. La scelta indica quindi un distacco, lascia un’apertura, una presa di distanza dal quel che è lasciato sullo sfondo. Credo che l’interessante per noi ora sia prendere questo distacco, questa discontinuità, questa beance dell’inconscio come un segno, come il primo segno a partire da cui, nel momento in cui prende un valore semantico, può entrare in gioco la funzione referenziale del linguaggio. Sul piano fenomenico questo primo segno è semplicemente una traccia, ma è anche l’indice di una negatività che a un certo punto viene a esprimersi nel “no”. Questo è un passaggio fondamentale, perché prima dell’acquisizione del “no” non si instaura per il bambino nessuna funzione referenziate, e il linguaggio è solo lallazione, linguaggio-corpo. La scrittura Con il primo segno, possiamo dire, il linguaggio è già scrittura, anche se non è evidentemente scrittura alfabetica. Siamo abituati a pensare la scrittura come rappresentazione della parola parlata. Credo tuttavia che dopo Derrida, e soprattutto dopo Sini, dobbiamo darci a un concetto più ampio di scrittura, che non include solo la scrittura alfabetica. Si tratta di situare la scrittura in senso ampio, un senso che comprende i graffiti rupestri per esempio delle grotte di Lascaux o di Altamira risalenti a 16.000 o 18.000 anni fa, o anche le mani dipinte a calco delle grotte di Chubut in Patagonia, risalenti a 30.000 anni fa. In Spagna sono stati trovati anche graffiti di 64.000 anni fa, attribuiti ai Neanderthal, vale a dire un’epoca che precede di almeno 20.000 anni la comparsa dell’Homo sapiens. Ci si può domandare in che modo la scritture fatta di segni iconici diventa scrittura alfabetica. È il lavoro a cui si è dedicato Alfred Kallir nel suo libro Segno e disegno che mostra con dovizia di particolari come le lettere alfabetiche che usiamo ancora oggi siano, come si esprime, pitture decadute, segni che hanno raggiunto un grado d’astrazione sempre maggiore fino a perdere il contatto con le immagini da cui derivano. Classicamente si dice che le pitture rupestri e le scritture primitive pre-alfabetiche hanno una funzione magica. Certamente è così. Ma presentata in tal modo questa affermazione appare come una spiegazione povera, perché si carica del discredito ricaduto oggi sulla magia nel nostro mondo post-illuminista. Kallir invece fa della magia una chiave di volta nell’interpretazione della scrittura alfabetica. Senza comprendere la funzione e il funzionamento della magia non possiamo comprendere l’alfabeto, perché la magia “è radicata nella percezione della vita vissuta come un tuto unico, e sempre a questa ritorna.” (p.26) Si tratta quindi della funzione antropologica della magia, e questo per Kallir ha il senso di inserire la sequenza dell’alfabeto in una prospettiva cosmologica, in una connessione tra microcosmo e macrocosmo, come quella che si delinea anche in Platone a partire dal Timeo. Direi che nel modo più concreto le scritture pre-alfabetiche vadano comprese come un modo di organizzare le pratiche di vita, la comunità, in un’epoca in cui evidentemente ogni azione è un rituale e riguarda la relazione tra terra e cielo. I disegni dei bambini Senza prendere però un orizzonte di questa ampiezza possiamo vedere il rapporto tra segni e disegni, e la funzione che ha nell’inconscio, considerando i disegni dei bambini. Nella psicoanalisi il disegno infantile è sempre stato considerato alla luce della rappresentazione. La prima psicoanalista che ha utilizzato il disegno nella clinica è stata infatti Sophie Morgenstern quando, al tempo in cui lavorava in ospedale, le fu presentato un bambino che non parlava. Privata del tramite fondamentale della talking cure, Sophie Morgenstern utilizzò il disegno ed ebbe un soprassalto quando il bambino le portò una scena che rappresentava chiaramente una fantasia di castrazione. Dopo di lei, e dopo Melanie Klein, che sviluppò in modo indipendente il suo lavoro con il disegno infantile, i disegni dei bambini sono sempre stati considerati nella psicoanalisi per il loro valore simbolico, come chiavi di lettura delle fantasie infantili. Vedendo a scuola bambini di prima elementare, nel momento di soglia in cui stanno imparando la scrittura alfabetica ma non l’hanno ancora pienamente acquisita, mi sono fatto l’idea che per il lavoro che dovevo svolgere in quel contesto l’interpretazione simbolica del disegno non sarebbe servita. Facendo tuttavia disegnare i bambini per creare il pretesto per parlare con loro, mi sono reso conto di una diversa funzione del disegno, una funzione che potremmo definire geografica. I disegni dei bambini sono vere e proprie mappe. Dobbiamo intendere però la mappa non come rappresentazione di un territorio, come comunemente s’intende. Le mappe che i bambini disegnano non sono la rappresentazione di un mondo, sono la costruzione di un mondo. Sono la progressiva appropriazione, attraversi i segni, dell’ambiente in cui vivono. Quando si chiede a un bambino di disegnare la famiglia, per esempio, non abbiamo solo la percezione dei legami affettivi, figure grandi per i personaggi importanti, più piccole per i meno significativi, come nella pittura due-trecentesca, dove i santi sono grandissimi, i re un po’ meno e gli umili sono piccolissimi. Nei disegni dei bambini c’è una chiara visione politica del mondo in cui vivono. I rapporti di potere sono lucidamente percepiti e indicati. Se il papà è al centro del disegno ai comandi del computer e gli altri sono tutti attorno affaccendati nelle loro cose, abbiamo capito come vanno le cose in famiglia. Se il papà invece sta lavando i piatti mentre la mamma guarda la televisione abbiamo tutt’altra configurazione. Per non dire dei fratelli: quelli che esistono e che non sono disegnati, quelli che sono disegnati e che non necessariamente esistono. È importante vedere chi usa certi oggetti, chi guida la macchina, chi maneggia i denari, chi legge, chi cucina, chi gioca con il bambino e chi no. Per cogliere il valore del reticolo di segni inconsci che il disegno infantile dispone dobbiamo considerare quel che abbiamo detto essere il primo segno, quello della discontinuità, il distacco, che è fondamentalmente un distacco dal corpo dove il soggetto si costituisce come soggetto che abita il linguaggio, come direbbe Heidegger. Il soggetto si costituisce come tale in quanto non coincide con il corpo. Evidentemente il soggetto abita il linguaggio proprio perché non abita il corpo, perché con il linguaggio perde la coincidenza con il corpo. Quando Lacan dice che l’uomo ha un corpo e non che lo è, che il corpo lo ha come si ha un mobile in casa, quel che dobbiamo capire è che per averlo deve appropriarsene, e che se ne appropria un po’ alla volta. Qual’è infatti il primo disegno del bambino intorno ai tre anni? È il famoso cefalopode. Perché la testa è la sede dei sensi più importanti, la vista, l’udito, il gusto, l’olfatto. È attraverso la testa che il bambino ha il primo accesso al mondo, e dunque la testa è la prima parte di cui si appropria con i segni. E poi man mano vengono acquisite le altre parti, il corpo si complessifica. Il disegno si estende poi alle altre figure famigliari e all’ambiente. Nulla è dato, tutto passa per i segni. Dobbiamo però ben capire di cosa si tratta in questi segni. Non sono infatti elementi statici che una volta colti possiamo afferrare e dire “Ecco l’inconscio!” Tutti questi segni sono indici di soglia. Nella misura in cui sono la costruzione del mondo, sono punti limite, e in questo senso sono punti che non si possono fissare. Quando Lacan definisce l’inconscio come evasivo, l’idea è proprio che i segni, le lettere, le marche di cui l’inconscio è fatto non sono scolpiti nella pietra, sono una scrittura del corpo vivente, del corpo in movimento, del corpo traversato dalla pulsione. Prendiamo per esempio i ricordi di copertura, che in realtà non coprono nulla ma sono solo l’allestimento scenico di una serie di connessioni logiche, di paradigmi relazionali. I ricordi di copertura sono schemi generatori di senso Questo vuol dire che non hanno un senso che occorre interpretare, ma sono piuttosto la base in rapporto alla quale un’interpretazione può produrre senso. È esperienza comune che questi ricordi, individuati in una tranche di analisi e letti in un determinato taglio interpretativo, in una successiva tranche si prestino ad altre chiavi di lettura, ad altre possibilità di generazione di senso. Il punto infatti non è il senso, ma la soglia che segnano, la soglia di un incontro traumatico con il godimento, e di una perdita di godimento. Sono costellazioni di infinite possibilità generatrici di senso, perché nessun senso può ridurre, o circoscrivere, o fissare la soglia dell’evento. Nessuna parola può dire la soglia. Per concludere rapidamente su questo tema, che richiederebbe uno sviluppo certamente più ampio, prendiamo un esempio di Pierce che chiarisce in modo semplice e chiaro il punto: se un foglio è suddiviso tra uno spazio blu e uno spazio rosso, il confine che separa i due colori è blu o rosso? In realtà la soglia, come si deduce, non si può fissare, e non si può neppure disegnare. È, come appunto l’inconscio, l’evasivo.
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