Seminario tenuto presso la Escuela lacaniana di Siviglia il 20 aprile 2024 Marco Focchi Le lezioni XXIV e XXV concludono il seminario D’un Autre a l’autre. Jacques-Alain Miller ha dato un’ampia lettura di questo seminario nel suo corso del 2005-2006, collocandone la chiave interpretativa sullo sfondo di altri due seminari di Lacan: quello su L’etica e quello su L’angoscia. Di cosa si tratta in questi due seminari? Nel seminario su L’etica, Lacan isola quel che, riprendendolo da Freud, chiama das Ding, la Cosa, che è essenzialmente l’estraneo, quel che sta al cuore dell’Altro senza però possibilità di essere raggiunto. È un’estraneità originaria di cui il soggetto non può fare un’esperienza piena. Il rapporto con questa estraneità è definito da Miller come “patetico”, in senso kantiano, segnato cioè da un pathos, da una dimensione passionale. Non c’è via logica, non c’è un’articolazione logica per raggiungere il das Ding. Il rapporto con la Cosa passa attraverso un pathos e non attraverso un logos, perché la Cosa resta, in qualche modo, un fuori-significato. Con il seminario Da un Altro a all’altro siamo quindi su una sponda completamente diversa, perché Lacan rimette qui al lavoro la logica e tutto il suo sforzo consiste nel tentare una definizione logica dell’Altro. Accanto al seminario su L’etica, come ho detto, il riferimento al seminario su L’angoscia serve a Miller come punto di contrasto perché, per un verso, ne L’angoscia Lacan individua l’oggetto a a partire da presupposti corporei, se non propriamente biologici. Ne L’angoscia infatti l’oggetto a si materializza e si realizza in cinque modi, giacché ai quattro noti: orale, anale, scopico, auditivo, Lacan aggiunge il godimento fallico. Nel seminario Da un Altro all’altro invece l’oggetto è colto per via formale, ed è identificato con l’insieme vuoto. L’oggetto a è in questo caso un buco, non è niente di concreto, è una forma, anzi un enforme, come si esprime Lacan, è cioè come quello stampo che serve a mantenere in forma le scarpe, o i cappelli, tenendoli in tensione. L’oggetto a è quindi, in questo senso, quel che tiene in forma l’Altro. Per questo viene definito da Lacan come una consistenza logica: è infatti quel che fa da contraltare all’inconsistenza dell’Altro. L’inconsistenza, concetto ripreso dalla logica matematica, viene qui introdotta da Lacan per analizzare e indicare la struttura logica dell’Altro. Inconsistenza e incompletezza
In altri momenti Lacan aveva parlato di incompletezza dell’Altro. Qui parla di inconsistenza. È chiaro che sullo sfondo di questa riflessione ci sono i teoremi di Gödel. Con il suo primo teorema Gödel ha dimostrato infatti che nessun sistema può affermare in modo coerente la propria verità. Da questo punto di vista il sistema rimane dunque incompleto, giacché manca in esso una formula in grado di asserire che il sistema stesso è vero. Se si forza poi l’introduzione di una proposizione assertiva della verità del sistema, questa aggiunta lo rende incoerente, cioè inconsistente. Tutto il seminario di Lacan si sviluppa quindi controbilanciando l’inconsistenza dell’Altro da una parte, con la coerenza logica dell’oggetto a, dall’altra. Come nucleo di coerenza l’oggetto a tiene in forma l’Altro che, essendo inconsistente, diversamente si affloscerebbe. Quel che Lacan mostra in questo seminario è come, in fondo, la logica moderna, approdando a quest’alternativa tra incompletezza e inconsistenza risponda al problema, posto a suo tempo da Leibniz, della characteristica universalis, cioè di un linguaggio formale universale utilizzabile come base di una matrice combinatoria in grado di risolvere le difficoltà concettuali del nostro pensiero riducendole a errore di calcolo. La risposta alla domanda se il linguaggio possa dire tutto è, evidentemente, negativa: non è possibile realizzare il sogno di Leibniz, non è possibile realizzare un discorso universale. Per Cartesio, dopo la traversata del dubbio iperbolico, la verità dell’Altro era garantita da Dio. La matematica e la logica contemporanea ci fanno invece perdere il robusto sostegno di questa colonna trascendente. Il primo a dimostrare che un linguaggio per essere universale deve essere incoerente è stato Alfred Tarski, e la dimostrazione di Tarski si è basata sulle conclusioni tratte da Gödel nel campo della matematica. Gödel dimostra infatti, nel suo secondo teorema che se l’aritmetica formale è consistente, la sua consistenza non è dimostrabile con metodi formalizzati al proprio interno. Per farlo richiederebbe un sistema più ampio che, a sua volta, non potrebbe risultare dimostrabile dal suo interno, e così via. Il punto chiaro è dunque che completezza e consistenza si escludono reciprocamente, e nella matematica si preferisce abitualmente lavorare su sistemi incompleti piuttosto che inconsistenti. Si mettono allora a punto tecniche sistematiche e assiomi studiati appunto per escludere i paradossi, ovvero per bandire la possibilità di una equivalenza tra un termine e la sua negazione. Mancanza e contraddizione Per quanto ci riguarda, sappiamo che l’inconscio freudiano invece ammette la contraddizione, come dimostra la risposta del secchio. La storia, come sappiamo, racconta di un uomo che restituisce un secchio bucato al suo vicino e cerca di discolparsi con tre scuse contraddittorie: prima afferma di aver restituito il secchio intatto, poi sostiene che il secchio aveva già un buco quando lo ha preso in prestito, e infine dice di non aver mai preso in prestito il secchio In effetti il soggetto è traversato in modo costitutivo dal paradosso logico, e quando lo mettiamo in forma ci imbattiamo in quel tipo di incompletezza, in quella mancanza che nel linguaggio freudiano sta sotto il nome di castrazione. Il fatto di tener necessariamente conto della mancanza, come ha ben messo in luce Miller, fa di Lacan uno strutturalista sui generis, giacché contrasta con l’ipotesi centrale dello strutturalismo che considera un insieme di significanti completo. Dal punto di vista dello strutturalismo classico non c’è mancanza nella lingua, e non c’è perché non c’è soggetto. Se tuttavia consideriamo che la lingua, quella parlata, prevede un interlocutore, prevede qualcuno a cui ci si rivolge, allora inevitabilmente, accanto alla struttura del linguaggio, introduciamo il versante della parola. È proprio lo sforzo teorico fatto da Lacan per tenere insieme lingua e parola a rendere necessario il fatto di concepire l’insieme dei significanti come incompleto. Nella misura in cui infatti l’Altro è l’insieme dei significanti della lingua ed è, al tempo stesso, il destinatario a cui ci si rivolge e che decide il senso di quel che il soggetto dice, l’Altro si presta ad assommare in sé le proprietà della struttura della lingua e le proprietà della struttura della parola relative all’interlocutore. Nell’Altro come insieme dei significanti, inoltre, manca il significante che designa il soggetto, il quale può essere contato solo come mancanza. La sua inscrizione nella struttura è dunque indicata nella sigla seguente, S di A barrato: S(A/) Questa sigla indica il significante che manca nell’Altro, ragione per cui può solo farsi rappresentare da un altro significante. Il significante rappresenta un soggetto per un altro significante Abbiamo così la definizione di Lacan per cui un significante rappresenta un soggetto per un altro significante. Questa definizione negli Scritti compare in Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio, ma la prima ricorrenza la troviamo nel Seminario sull’identificazione, nella lezione del 24 gennaio 1962. Questa definizione del significante diventa poi una delle più stabili, e la vediamo ricorrere con frequenza nei seminari e nei testi di Lacan. Questa definizione implica un ordine, perché abbiamo un significante S1 che viene prima e che rappresenta un soggetto presso un significante S2 che necessariamente viene dopo. Per formalizzare quest’ordine Lacan ricorre alla definizione della coppia ordinata. Se noi prendiamo un qualunque insieme di due elementi x e y, in esso non è implicato nessun ordine. Sia che scriviamo {x,y} sia che scriviamo {y,x} dal punto di vista formale non cambia nulla, si tratta sempre dello stesso insieme. I matematici però hanno bisogno a volte di definire un ordine tra due elementi. Se per esempio diamo valore 3 a x, e 4 a y, e cerchiamo un punto sul piano cartesiano, vediamo che le coordinate (3,4) e (4,3) identificano due punti diversi. È chiaro che anche nella definizione di Lacan del significante c’è un ordine, e se lo rovesciamo le cose cambiano. S1 rappresenta un soggetto per S2. I significanti S1 e S2 possono essere presi per rappresentare l’insieme dell’Altro, e in questo caso l’ordine di precedenza sarebbe indifferente. Se questi significanti sono invece presi per implicare la rappresentazione del soggetto, allora le cose cambiano, perché conta il modo in cui si succedono, e sono disposti in un prima e in un dopo. È questo il motivo per cui Lacan fa ricorso, in questo seminario, alla nozione di coppia ordinata. Per definire la coppia ordinata i matematici scrivono due insiemi: {x} e {x,y} e li riuniscono nella scrittura {x{x,y}}. Questa è la scrittura abituale per indicare la coppia ordinata. Miller però riprende la scrittura datane da Norbert Wiener, che è leggermente differente, perché indica il primo insieme come {x} e il secondo come {y, ⌀}. Norbert Wiener introduce infatti l'insieme vuoto nella sua definizione di coppia ordinata per garantire che la prima e la seconda componente della coppia possano essere distintamente identificate. Nella notazione usuale infatti, la scrittura{{x},{x, y}} non garantisce univocamente l'ordine se il primo elemento è l'insieme vuoto. Wiener ha risolto il problema utilizzando l'insieme vuoto nella sua definizione. In questo modo l'insieme vuoto funge da "marcatore" che stabilisce un ordine chiaro tra i due elementi, assicurando che la coppia {a, b} sia diversa dalla coppia {b, a anche quando {a} o {b} sono insiemi vuoti. Questa notazione appare più interessante se consideriamo la scrittura utilizzata da Lacan in questo seminario. Lo schema base Lacan prende infatti tre termini, tre notazioni per costruire la relazione del soggetto con l’Altro, per contrassegnare l’inscrizione del soggetto nell’Altro. Lacan prende due significanti che sigla entrambi come S1, e aggiunge l’insieme vuoto siglato ⌀. Il primo S1 è una sorta di significante solitario, mentre il secondo è racchiuso in un cerchio che rappresenta l’Altro unitamente all’insieme vuoto. Lacan denomina l’insieme vuoto come l’uno in più, e mette tutto in questo schema. S1(S1Ø) È in questo schema che dobbiamo infatti collocare la definizione per cui un significante rappresenta un soggetto per un altro significante. Il primo significante rappresenta il soggetto per il secondo collocato all’interno del cerchio, dove troviamo anche l’insieme vuoto in quanto l’insieme vuoto è presente come sottoinsieme di qualunque insieme. E questo è un punto interessante, perché Lacan fa riferimento qui alla nozione di intersoggettività criticandola. Aveva a suo tempo usato questa nozione – che definisce labile e problematica – per metterla in contrasto con i termini della seconda topica di Freud dove si hanno solo riferimenti intra-soggettivi. L’uno in più che fa entrare in gioco adesso è invece una nozione esterna al soggettivo. Identifica infatti questo elemento supplementare con l’oggetto a. In tutto il seminario, e in particolare in questa parte conclusiva, Lacan fa funzionare l’identificazione tra insieme vuoto e oggetto a, e questo rompe l’eventuale simmetria dell’intersoggettività. L’oggetto a sta a indicare in fondo l’estraneità più radicale al soggetto, il Fremde che è in lui e che non può mai raggiungere. L’oggetto è l’insieme vuoto è incluso nell’Altro ma che non gli appartiene. Si tratta qui di valorizzare la differenza tra relazione d’inclusione e relazione di appartenenza per cogliere quella che definisce come l’extimité dell’oggetto a rispetto all’Altro. Per quanto si possa accrescere un passo dopo l’altro, la catena significante, l’insieme vuoto resta un punto di fondo irraggiungibile. Lacan si misura anche con l’esercizio di moltiplicare le inclusioni mostrando come ogni passo avanti porti a un’ulteriore mossa a ritrarsi da parte dell’oggetto. È quel che mostra lo schema seguente. S(S1(Ø) S(S(S1Ø)) Vediamo qui un’operazione di riduzione infinitesimale, dove si ripetono in una successione infinita gli S senza che riescano mai a bloccare l’arretramento di ⌀ ovvero dell’oggetto, che continua a mantenersi esterno alla successione degli S, e al tempo stesso interno in quanto sottoinsieme di A che è l’insieme degli S. Questo naturalmente ci fa incontrare il paradosso di Russell, dato che la condizione di partenza è quella dell’inclusione di tutti i significanti. ( ∀ X, Sx ⇔ x ∈ A) La formula si legge: per ogni x, dove x è un significante, x appartiene ad A. Ma se A è il significante dell’Altro S(A) allora si dà la condizione contraddittoria che esiste un significante che non appartiene ad A. ( Ǝx, Sx (x∉A) ) Per quanto in questo seminario Lacan produca un grande sforzo di formalizzazione è interessante vedere come la prospettiva che prende abbia immediate ricadute cliniche. Isteria e nevrosi ossessiva Se infatti inconsistenza e incompletezza sono indici di un ostacolo, di un impedimento che il soggetto incontra e in cui possiamo riconoscere la castrazione freudiana, l’una e l’altra modalità danno forma a manifestazioni cliniche diverse. L’isteria si mette dal lato della consistenza e incontra l’incompletezza. Conosciamo la figura dell’isterico che si erge a paladino della verità e che spulcia la contraddizione nell’Altro per metterlo alle corde, per ridurlo all’impotenza. In questo un esempio canonico è il padre di Dora. L’isterico mette sotto accusa l’inautenticità dell’Altro, mette in luce la mancanza di fondamento di una verità che può dirsi solo passando attraverso la menzogna. In questa dialettica l’isterico si mette alla prova, gioca la sua posta, saggia l’Altro fino al limite della rottura. L’ossessivo invece si tiene fuori dal gioco, in posizione di osservatore. Non persegue l’incompletezza dell’Altro, e si perde quindi nei labirinti dell’inconsistenza. In questo il dubbio dell’ossessivo trova la propria ragione logica, giacché non può sciogliere il dilemma tra una cosa e il suo contrario trovandosi quindi bloccato nell’atto, che richiede evidentemente una scelta. L’esempio paradigmatico è l’Uomo dei topi, che ripetutamente toglie e mette il sasso nella strada su cui passerà il carro della sua bella e si perde in un circuito di idee che gira a vuoto perché non fa presa sulla realtà. Conosciamo quegli ossessivi la cui vita sprofonda semplicemente perché sono paralizzati di fronte alla necessità di una scelta sul piano sentimentale o lavorativo. Possiamo quindi dire che nell’isteria la formula è: A ∉ A A, come ultimo significante in rapporto a cui tutti gli altri rappresentano il soggetto, viene assolutizzato nella sua eterogeneità, e S2, assolutizzato come A, deve restare fuori dall’insieme che ha dunque un significante in meno. Tenere fuori S2 corrisponde alla modalità di rimozione per amnesia propria dell’isteria. Il soggetto resta escluso dal sapere assoluto in quanto manca sempre un termine per fare tornare i conti. Per l’ossessivo invece A non viene escluso da A, abbiamo che: A ∈ A A, che include se stesso, può rappresentare il sapere assoluto che l’ossessivo ha sempre di mira senza mai poterlo raggiungere senza che si sfaldi in un labirinto senza vie d’uscita. Si produce così una ripetizione metonimica dei significanti, con il tipico rinvio all’infinito di un atto che rimane sempre in sospeso. L’ossessivo così non si sente mai pronto alla prova perché gli manca sempre qualcosa per far quadrare il bilancio. Il nucleo essenziale resta comunque fuori dalla sua portata, dandogli un senso di inadeguatezza. S2 che rappresenta il sapere, è sempre un po’ più in là, e ogni volta che l’ossessivo tenta di afferrarlo si produce una sequenza ordinata di S inesauribile come la serie di numeri naturali, e A resta inespugnabile, come un elemento di troppo che non si riesce a eliminare. Questo si riflette nell’erotismo anale, con la sua dialettica di trattenere tendenzialmente all’infinito e distruggere. Si ha qui, sul piano pulsionale più che sul piano della rivalità immaginaria, la radice di quell’annichilamento, di quella spinta alla cancellazione che può apparire come l’aggressività dell’ossessivo. Né per l’isterico, né per l’ossessivo dunque i conti tornano e questo è dovuto alla duplice posizione di A, che è anche la base logica degli equivoci nel linguaggio. In qualsiasi modo il soggetto si rapporti ad A, sia nella posizione in cui comprende se stesso, sia in quella in cui no, S2 risulta sempre inafferrabile. Lacan presenta altre linee cliniche in questo seminario, che sono più sul versante del godimento. Tutto il seminario, abbiamo visto, si bilancia tra i punti d’impasse logici dell’Altro e la coerenza della pulsione, che vuole solo una cosa, e la ottiene. Morte e godimento Vediamo allora un’altra articolazione in cui l’ossessivo è presentato in base alla dialettica servo-padrone, sul cui sfondo c’è la morte, mentre per l’isterica la posta in gioco è il godimento. Morte e godimento sono tuttavia termini che s’incrociano, perché se per un verso la donna si rivolge al godimento dell’uomo, e in questo Lacan ci mostra evidentemente il rapporto maschile con il godimento, per altro verso ci mostra anche il rapporto del femminile con la morte, nella forma della necrofilia. L’esempio che porta è quello di Giovanna la Pazza, la sfortunata figlia di Fernando e Isabella, andata in sposa a Filippo il Bello. Quando questi morì si racconta che il corteo funebre durò un anno, attraversando la Castilla per arrivare alla cappella reale di Granada dove la salma fu seppellita. La processione funebre attraversò villaggi e città, con Giovanna in testa al corteo visibilmente addolorata e provata. Gli spostamenti avvenivano solo di notte e tutte le fermate erano fatte dove le donne non potessero avvicinarsi alla bara del principe, che era chiusa con lucchetti le cui chiavi restavano saldamente appese al collo di Giovanna. Godimento e morte s’incrociano dunque nel gioco tra i sessi e restano sullo sfondo di entrambe le figure delle nevrosi. Così se l’ossessivo gioca a distanza con la morte, non si prende però per il padrone, che si espone invece mettendo effettivamente a repentaglio la propria vita. L’ossessivo resta fuori scena, osservatore, al riparo dal rischio letale, ma in tal modo si priva anche di partecipare al gioco della vita. L’isterico, dal canto suo, non si prende per la donna, anche perché, come Dora, fa della donna un soggetto supposto sapere: la donna è quella che sa cosa ci vuole per far godere l’uomo. La posta in gioco per le donne è infatti il godimento dell’uomo, ma in un modo che culmina nella sua castrazione. Lo vediamo nella scena finale de L’impero dei sensi di Nagisa Ōshima, a cui Lacan si riferisce in uno degli ultimi seminari. Sullo sfondo della lettura che Lacan dà del film di Ōshima c’è il tema della vera donna, incarnata dalla Madeleine di Gide e da Medea, donne che privano l’uomo di quel che ha di più prezioso, come il carteggio di Gide con Madeleine, che Gide considerava quel che di meglio avesse mai scritto, e la discendenza per Giasone. C’è ancora un punto che costituisce un’indicazione clinica fondamentale, e che si basa sul modello di struttura che costituisce l’asse portante di queste due lezioni, cioè il modello a tre elementi S1(S2 ⌀), modello che sostiene entrambe le strutture cliniche dell’isteria e della nevrosi ossessiva. Dice Lacan: “I due modelli dell’isteria e dell’ossessivo non possono essere distinti in funzione del fattore che ho or ora introdotto [cioè il soggetto supposto sapere] giacché esso riunisce nella nevrosi tanto un tipo quanto l’altro. Per questa ragione potete constatare che la morte, correlata di quel fattore, è in gioco anche in ciò che l’isteria affronta nella donna. L’isterica fa l’uomo che supporrebbe che la donna sappia. È questo il motivo per cui ella è introdotta in questo gioco per un qualche verso in cui è sempre coinvolta la morte dell’uomo” (p.385). Significante/rappresentazione A questo proposito Lacan fa l’esempio dei due sogni di Dora, dove in uno si parla dei bambini che rischiano di bruciare a causa dello scrigno di gioielli della madre, e nell’altro della sepoltura del padre. E conclude con questo passaggio: “Le verità nascoste le nevrosi le suppongono sapute. Occorre liberare i nevrotici da questa supposizione affinché cessino di rappresentare tali verità nella loro carne” (p.386) Per un verso questa affermazione è assolutamente classica, rispecchia l’idea freudiana che quel che non può essere annesso alla coscienza, il rimosso, si esprime nei sintomi, e in particolare nelle somatizzazioni. In questo senso Anna O. è un’enciclopedia di queste verità rappresentate nella carne. Per altro verso c’è qualcosa su cui è necessario fermarsi a riflettere: c’è un cortocircuito tra le verità nascoste e il sapere supposto. Se ci si pensa però, in effetti non ci si sarebbe potuti esprimere diversamente. Non avremmo potuto dire che è il sapere nascosto che si suppone saputo. Sarebbe un controsenso. Inoltre: perché parlare di verità nascoste? Perché nascoste quando, solitamente, parliamo di rimozione? È vero che anche la rimozione nasconde qualcosa alla coscienza ma, per l’appunto, si tratta di qualcosa che l’interpretazione permette di recuperare. Queste verità nascoste non si ha l’idea che siano qualcosa da recuperare. Poco più avanti infatti Lacan dice che si tratta di tagliare, non di recuperare. Le verità nascoste non sono qualcosa da disoccultare, ma qualcosa che si tratta piuttosto di lasciar decadere, di cui far sfumare la supposizione. Su questo aspetto mi sembra conti un altro punto in cui Lacan si esprime su questo. Lacan si riferisce infatti alla rappresentazione, a come i nevrotici rappresentino queste verità nella loro carne. Rappresentazione, è un termine freudiano: Freud parla di Vorstellung, termine che eredita da Herbart e che viene dalle profondità della filosofia tedesca, lungo una linea che da Christian Wolf e da Kant risale fino a Leibniz. La rappresentazione presuppone sempre un oggetto rappresentato, ed è un concetto fondamentalmente semantico. Quando Lacan parla di significante assume in fondo tutta la dinamica delle rappresentazioni freudiane, che si svolge nello spostamento e nella condensazione, e la traduce nei termini della metonimia e della metafora. Passare però dal concetto di rappresentazione a quello di significante cambia completamente la prospettiva. Il significante, nella costruzione che ne fa Lacan ne L’identificazione, parte dalla traccia e dalla sua cancellazione. Il significante non è una scrittura, ma ha in sé la possibilità della scrittura, è fatto di una sequenza di lettere che slegate sono completamente senza senso, come una formula della trimetilammina presente nel sogno di Irma. Quando Lacan parla di corpo, quando noi parliamo di corpo, parliamo in ultima istanza di corpo parlante, e il presupposto è un corpo come palinsesto di una scrittura, come è detto in modo chiaro in quello straordinario testo che è Lituraterre. Qualcosa si scrive sul corpo come solco, delimitazione della zona erogena in cui scorre il godimento. Nel seminario Da un Altro all’altro questi temi non sono ancora pienamente presenti, ma sono annunciati già qualche anno prima nel seminario su L’identificazione. Il fatto che a proposito del corpo nella nevrosi Lacan usi il termine rappresentazione rimanda, direi, al fatto che il nevrotico carica di senso la struttura in cui abita. La verità, nella definizione di Lacan, è la verità della castrazione, la verità di una mancanza, e il nevrotico riempie di senso questa mancanza, occulta sotto il velo una verità abissale, che suppone saputa da qualche parte. Consideriamo infatti come prosegue Lacan: l’isterica – dice – è già psicoanalizzante, ossia è già sulla via di una soluzione: la cerca a partire dal fatto che si riferisce al soggetto supposto sapere, ed è per questo che incontra la contraddizione, finché lo psicoanalista non opera il taglio tra la struttura inconscia, cioè i modelli del padrone e della donna, articolati nei tre elementi: uno, uno, insieme vuoto da una parte, e il soggetto supposto sapere dall’altra. Il soggetto supposto sapere è quel che rende il nevrotico psicoanalizzante perché la coalescenza tra struttura e soggetto supposto sapere lo porta a interrogare la verità di questa struttura, e a diventare egli stesso questa interrogazione incarnata, cioè a diventare egli stesso il sintomo. Cosa vuol dire allora l’operazione psicoanalitica, cioè il taglio con cui lo psicoanalista separa il soggetto supposto sapere dalla struttura? Bisogna ricordare, credo, la posizione che il soggetto supposto sapere ha nel grafo, la posizione cioè che coincide con s(A), il significato dell’Altro. Direi che si svela qui l’arcano: il taglio come operazione psicoanalitica alleggerisce l’Altro da ogni gravame di senso. Solo nel momento in cui L’Altro è barrato S(A/) si risolve il quesito nevrotico, perché dalla ricerca di senso, che è infinita, il soggetto si blocca su un significante che è né più né meno che il significante traumatico, la marca del trauma, che non dipende dal senso ma è legato all’incontro con il godimento. Potremmo allora scrivere, tradurre l’operazione psicoanalitica con il passaggio da S(A)––>S(A/) e questa formula, credo possa sintetizzare il percorso dell’analisi, almeno nel modo in cui Lacan lo presenta in questo seminario. Una causa per vivere In effetti il problema del nevrotico è di essere carente di significato, ha, possiamo dire, un buco nel significato, che Lacan sigla s(A/). Questo vuol dire che ha bisogno di giustificazioni, di trovare senso della sua vita, di sapere per cosa vive, ha bisogno di una causa. Lo psicotico, invece, ha ben chiaro per cosa vive. Schreber per esempio, grazie alla sua trasformazione in donna, è destinato a dare vita a una nuova umanità attraverso la congiunzione con Dio. Anche il perverso sa bene per cosa vive, giacché vive per il godimento, per ripristinare con il godimento l’integrità dell’Altro. Perversione, bisogna dire, è un termine ormai caduto in desuetudine per il gravame morale di cui è carico, e non ha più corso socialmente. Anche il DSM lo ha derubricato sostituendovi il temine “parafilia”, più neutro, dato che se la perversione indica una degenerazione morale, parafilia segnala semplicemente un problema medico. Ma naturalmente nella psicoanalisi perversione non prende né il senso morale né quello medico, perché è soltanto un’indicazione sulla struttura del desiderio. Sotto questo aspetto – dice Lacan – la struttura perversa corrisponde a un calco immaginario. Cos’è questo calco immaginario della perversione? È un tema che Lacan aveva già affrontato nel seminario IV spiegando come il feticcio stia al posto di quell’al di là che è impossibile vedere perché è il pene della madre fallica. La spiegazione classica è che nella sua osservazione il bambino si ferma nella sua osservazione un attimo prima di ciò che vorrebbe vedere, all’orlo del vestito della madre per esempio. Questo movimento che si arresta, nota Lacan, è un meccanismo simile a quello dei ricordi di copertura, che contrassegnano il momento in cui la catena della memoria si ferma su un passaggio determinato: qui si costituisce il fantasma. Così lo sguardo del bambino, nella sua esplorazione non va più su della caviglia, dove incontra la scarpa che, come è noto, è un oggetto elettivo del feticismo, e che funziona come sostituto di quel che il soggetto non ha potuto vedere, e che è articolato come ciò che per lui la madre possiede, cioè il fallo. Il punto d’arresto si può paragonare al fermo-immagine di una pellicola, quando il film si blocca di colpo. Questo fa toccare con mano quel che Lacan chiama lo stampo della perversione, e la valorizzazione dell’immagine che riscontriamo nella perversione. Il fermo immagine infatti fa sentire quel che non si può vedere, ha in sé un rimando, come la scarpa, o la calza di nylon rimandano a qualcos’altro facendoci riconoscere la struttura metonimica della perversione. Il potere dell’immagine di completare la donna, di farne la padrona, la hommelle, come la chiama Lacan – neologismo che potremmo tradurre per esempio come l’uomo-lei – è forse più evidente nel masochismo, che elegge la domina, ma è la caratteristica della perversione in quanto tale. Se il perverso ha dunque il suo da fare sostenendo l’hommelle, il povero nevrotico resta con il suo significato bucato, che cerca di riempire di qualche ragione, cercando un senso della vita. Questo lo porta a lavorare sul suo s(A/) cercando di colmarlo, cercando di farne un significato pieno, e si trova così a girare sempre intorno a s(A), cioè il significato dell’Altro, mentre il realtà quel che è da fare, ma che può fare solo la psicoanalisi, è portarlo a S(A/), cioè al significante traumatico. Solo così il soggetto può arrivare, non al senso della vita, ma a un ancoraggio alla realtà della vita, sostenuta dalla dimensione corporea, dal corpo su cui si è segnato dall’origine il marchio di una parola che conta, sia perché lo ha ferito, sia perché lo ha innalzato, facendo di lui quel che deve diventare.
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