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Gli attacchi di panico nell'esperienza psicoanalitica

28/1/2014

1 Commento

 
Immagine
di Marco Focchi

Le persone che si presentano da uno psicoanalista denunciando un attacco di panico chiedono, il più delle volte, un interruttore, un intervento per frenare il corso impazzito di un malessere che invade rapidamente il corpo, mentre si trovano in una situazione del tutto fuori controllo. Si tratta di una clinica dell’urgenza, dove l’appuntamento non può essere dato per la settimana prossima, e neppure domani, ma oggi, e possibilmente subito. Questo aspetto mette in risalto il particolare legame che la fenomenlogia clinica dell’attacco di panico presenta con la temporalità. La sua articolazione con l’oggetto (a) si può vedere allora attraverso il tempo logico, dove Lacan ha mostrato che la precipitazione della conclusione funziona come oggetto (a).
Il termine attacco di panico non appartiene al vocabolario classico della clinica psicoanalitica. La definizione e il concetto vengono piuttosto dalla psichiatria, e come entità clinica l’attacco di panico rientra nella classificazione del DSM. Il panico però prolunga perfettamente la più classica delle sequenze freudiane: se consideriamo infatti l’inibizione come un tempo d’arresto, dove il soggetto è bloccato da uno schermo immaginario, il sintomo come un tempo della ripetizione, in cui il soggetto è trattenuto da qualcosa che sente più forte di lui, e l’angoscia come il tempo fremente dell’attesa, come la minaccia dell’imminenza, il panico segna allora il tempo dell’irruzione, quando sono rotti gli argini e non è più possibile aspettare: è un qui ed ora, è il momento in cui il peggio sta accadendo davvero.

La spiegazione freudiana del fenomeno del panico, contenuta in Psicologia delle masse e analisi dell’io, è fortemente debitrice della logica edipica: una massa artificiale come l’esercito, dice Freud, è tenuta insieme dai legami libidici che ciascuno ha con il capo. Se il capo cade in battaglia, la massa che egli teneva unita si dissolve e ciascuno è solo di fronte a un pericolo inaffrontabile. Lo stesso pericolo che la massa organizzata poteva sostenere, per il singolo isolato appare soverchiante. La chiave esplicativa del panico qui è la Zersetzung, la disgregazione della massa dovuta allo scioglimento dei legami libidici. Questi legami passavano per il capo, e una volta spezzati, ciascuno si trova isolato. Su questa base la chiave di volta per un trattamento clinico del panico dovrebbe essere quella di rinforzare il Nome del Padre per dare un riferimento saldo al paziente rimasto senza appigli. In effetti, gli psicoanalisti che in area anglosassone hanno dedicato particolare attenzione alla clinica degli attacchi di panico – sostanzialmente diverse équipes coordinate da Barbara Milrod – si concentrano sulle peculiari dinamiche edipiche implicate, secondo loro, in questo tipo di disturbi. La prospettiva aperta da Lacan con il lavoro sul tempo logico è diversa: è quella di una logica collettiva che, come ha suggerito Miller, funziona in modo demassificante e mette l’accento sul rapporto che ciascuno intrattiene con la causa. Su questo piano il legame non passa allora attraverso la funzione unificante di chi occupa il posto dell’ideale, ma si costruisce nell’articolazione di una logica che si sviluppa in rapide scansioni temporali. Si tratta di una logica dell’anticipazione e della fretta, necessarie a tenere il passo con l’altro, e particolarmente adeguate a spiegare il modo di vita frenetico delle società contemporanee. Qui la chiave di lettura non è la disgregazione provocata dalla rottura dei legami libidici: a gettare nell’isolamento e nel panico non è il fatto che salta l’ideale, l’anello che tiene insieme tutti gli altri, ma il fatto che il soggetto perde il passo in una costruzione logica. Prendiamo un esempio di panico insorto in una situazione amorosa andata male. Si tratta di un’adolescente alle sue prime esperienze, innamorato perso di una ragazza della quale gli sfuggono la rapidità di spostamento nei discorsi e la mobilità nei desideri. Presto la storia s’interrompe perché la ragazza prende un’altra direzione. Il giovane non se ne capacita e non riesce a staccare da lei i suoi pensieri, che diventano assillanti e tormentosi. Una sera è sdraiato sul letto, insonne, con l’immagine di lei fissa in mente, quando comincia a percepire chiaramente il battito del proprio cuore sempre più forte, martellante, inarrestabile. E’ qui che improvvisamente si smarrisce e viene preso dal panico, sentendo un organo che si muove indipendentemente dalla sua volontà, un organo al quale non può comandare, che affiora nell’attimo presente come un’estraneità in quanto vi è di più intimo nella propria realtà corporea. Si rende conto ora che lei se n’è andata, che ha proseguito la sua strada e che non tornerà. Lei va avanti, mentre lui affonda in questo momento di puro presente, senza futuro e senza passato, un momento che lo prende alla gola e lo soffoca mentre la vita, di cui il cuore pulsante lo costringe ad accorgersi, lo traversa irruente senza nessuna direzione da prendere, inghiottendolo nell’abisso di un “ora” insopportabile, sganciato da ogni “prima” e da ogni “dopo”. Il tempo di una conclusione sbagliata – non aveva capito dove stava andando la ragazza – trasforma l’atto da cui acquisire la libertà, o l’amore, o la fortuna, o il riconoscimento sociale – nello scivolamento in un gorgo temporale che si manifesta soggettivamente come urgenza assoluta, come necessità di un soccorso improrogabile. Un caso opposto ora. Una giovane che ha appena finito l’università cade in preda al panico quando il fidanzato, che viveva in un altra città, decide di spostarsi a Milano, dove lei vive, per starle più vicino. Lei capisce di non potersi rifiutare a quest’attenzione, ma al tempo stesso si sente intrappolata in una prossimità eccessiva, che percepisce come condizionante, e si vede messa con le spalle al muro. Anche qui c’è il tempo sfasato di una decisione non condivisa. Il ragazzo conclude che è il momento, ma lei non può concludere allo stesso modo, e perde il passo precipitando in una situazione in cui si avvita su se stessa volendo e non volendo la stessa cosa. Anche qui le papitazioni, le sudorazioni, il senso di vertigine danno espressione fisica a un’urgenza improrogabile, a un bisogno di fuga da una decisione che non può farsi atto. Si vede bene, in questi casi, che il problema non è rinforzare il baluardo del Nome del Padre, portatore dell’ideale che fissa di nuovo le cose dando loro un senso. E’ questa una soluzione che chiamerei missionaria: dare al soggetto un’identificazione forte da cui trarre il senso della vita. Il problema è diverso, si tratta piuttosto di ricostruire una logica andata a pezzi, non perché la vita recuperi un senso, ma perché ritrovi un tempo, una scansione, una sincronia con l’Altro che, per quanto non esista, per quando supplito da un partner-sintomo, è fatto delle tracce che segnano il corso della nostra esistenza e che, come i sassolini di Pollicino, ci permettono di camminare nell’inestricabile vita senza bisogno del senso dato da una meta predestinata. E’ una soluzione che definirei dell’amore per una causa, qualunque forma questa causa prenda.
1 Commento
Vilma Viora
23/7/2018 08:36:48 pm

Gli attacchi di panico che io ho conosciuto erano spesso associati alla sindrome di Sthendal: musica bellissima, museo di Van Gogh, Champs Elisée. In qualche modo collegati al senso di colpa.

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