Marco Focchi Testo presentato il 26 giugno 2023 nella Gioranata nazionale tenutasi a Pisa con il titolo: Venti nuovi per la SLPcf Quando si cerca di fare la genealogia dell’idea dei cartelli nella Scuola, un riferimento abitualmente viene preso nell’esperienza di Bion con i gruppi. Lacan ne parla nel suo famoso testo su La psichiatria inglese e la guerra, e quindi è un tema che senz’altro è sullo sfondo dei suoi pensieri quando formula la proposta dei cartelli. Bion descrive un punto chiave della sua elaborazione del lavoro sui gruppi nel suo famoso esperimento di Northfield, Un risultato interessante di questo esperimento – dice – è la dimostrazione che non esiste la possibilità che un partecipante in un gruppo possa non far niente, nemmeno non facendo niente. Ne risulta che tutti i membri del gruppo, senza eccezione, sono responsabili del comportamento del gruppo. Tutti sono dunque necessariamente al lavoro in un gruppo siffatto, e il cartello ha precisamente la funzione di realizzare un lavoro nella Scuola.
Quale può essere però il risultato di questo lavoro? Miller suggerisce che che se il più uno occupa il posto del padrone si può produrre solo un sapere già dato, e se occupa il posto di a minuscola l’effetto è di un indicibile. La posizione migliore del più uno è dunque quella dell’isterico, che funge da agente provocatore, da Socrate che gira per le strade di Atene a chiedere ai concittadini “che cos’è?” ti esti?, e non si accontenta di esempi. Accanto alla genealogia bioniana Miller propone un’altra derivazione, più legata all’epoca, il 1964, e all’esperienza diretta. Si tratta del momento in cui l’idea del lavoro in piccoli gruppi era stata messa all’ordine del giorno dagli studenti di lettere della Sorbona, che avevano promosso la creazione di Gruppi di Lavoro Universitario dove gli studenti potessero riunirsi su base egualitaria senza la presenza di insegnanti. Questo spiega la vocazione anti-autoritaria del cartello, che si accompagna alla critica della funzione del didatta. D’altra parte è noto che non sussiste struttura di gruppo senza un leader. L’idea sarebbe dunque quella non di negare il leader – da qui la necessità del più-uno – ma di porla a regime in funzionamento minimo. Il più-uno non è il padrone, che frusta in mano, incita al lavoro, non è il grande docente, che fa la lezione a tutti, è piuttosto il piccolo isterico, il povero Sacrate scalzo, che con le sue domande ti trapana il cranio provocando uno tsunami del pensiero. C’è però un’altra genealogia ancora forse che dovremmo considerare. Ci siamo mai chiesti perché il cartello si chiami cartello? In fondo il termine gruppo è una denominazione disponibile e accettabile, perché collettivo sarebbe troppo ampio, cerchia suonerebbe un po’ settario, equipe penderebbe piuttosto dal lato pratico-operativo. Infatti Lacan non pensa neppure a uno qualsiasi dei sinonimi possibili e va a prendere cartello. Che caratteristiche ha in fondo un gruppo che denominiamo cartello? Questa denominazione ha una storia, ed è una storia che può essere interessante per noi andare a vedere. Nel corso della seconda rivoluzione industriale si verificò un periodo di crisi a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento che le nascenti industrie, in particolare tedesche, tentarono di superare unendo le loro forze in quelli che si chiamavano Kartell, ovvero cartelli. A differenza di una fusione, un cartello è un consorzio di imprese che mantengono la loro indipendenza e uniscono le loro energie con l’obiettivo di realizzare un compito comune. Sono gli interessi, non l’ideale, a unirle. C’è quindi il progetto di un lavoro comune, ma il cui prodotto è proprio a ciascuno e non collettivo. Nel cartello non si tratta cioè di fondere i propri ingegni per dar vita a un lavoro d’insieme, ma di lavorare insieme per ottenere dei risultati singolari. C’è poi l’idea di uscire da una situazione di crisi, o di traversare una crisi mettendola a frutto. Infatti Lacan riprese l’idea dei cartelli proprio nel corso della crisi dello scioglimento dell’EFP rilanciando il lavoro di base pensato nel 1964. Nel 1980 questo lavoro di base è proposto in particolare – dice Lacan – a coloro che non avevano fatto parte della sua Scuola, e che non avevano perciò potuto fare il lavoro di scioglimento della stessa. Freud infatti aveva lasciato agli analisti la sola risorsa di unirsi in un sindacato, quel sindacato che a suo tempo Lacan aveva chiamato le SAMCDA, ovvero le associazioni psicoanalitiche che si trasformano in società di mutua assistenza contro il discorso analitico. Per essere riconosciuti nella propria formazione analitica con Freud la sola possibilità per gli analisti era dunque appartenere a una di queste associazioni. Nel 1980, in questo momento di grande fluidità, Lacan lancia sul tappeto una formula diversa da quella dell’appartenenza per dimostrare la propria formazione, non si tratta infatti dell’’appartenenza, piuttosto del contrario. Cos’altro costituisce una prova della mia formazione – dice – se non il fatto di accompagnarmi nel lavoro, perché è un lavoro, della dissoluzione? La prova della formazione non è appartenere a qualsivoglia forma di raggruppamento istituzionale, ma di partecipare all’impresa di scioglimento della Scuola nella misura in cui si è degradata in istituzione. Per chi non può fare questo lavoro, semplicemente perché non è mai appartenuto alla sua Scuola, la risorsa è quella di un lavoro di cartello, cioè di un lavoro di base. Il risultato del lavoro di quei cartelli al tempo fu presentato al primo Forum indetto da Lacan nel 1981, al quale io con altri quattro colleghi partecipammo con un cartello intitolato Dissoluzione del sintomo. Nel 1974 Lacan proponeva per il gruppo italiano la passe d’ingresso, ripresa nel 1991 per un periodo da Miller, mentre nel 1980 Lacan proponeva i cartelli come lavoro per affiancare lo scioglimento, per chi non poteva farlo non essendo stato membro. Veniamo a oggi: qual è l’importanza oggi del cartello? Che funzione ha avuto nella nostra storia in Italia? In che prospettiva possiamo vederlo e in che funzione? Credo occorra qui sottolineare che la differenza tra gruppi e cartelli non è solo di nome. I gruppi, all’inizio della nostra storia italiana, si riunivano intorno a delle figure leader, erano gruppi intorno a un Uno carismatico, erano gruppi cristallizzati in forma di autoriconoscimento. Erano qualcosa di analogo alle correnti di partito, che possono essere anche legittime espressioni di progetti culturali, ma che per avere senso devono continuamente rilanciare la loro proposta, salvo altrimenti diventare gruppi di spartizione. Ora, il funzionamento del cartello ha esattamente l’obiettivo di contrastare questo decadimento di un progetto culturale che sfuma in un dispositivo di distribuzione. Il cartello è fatto per mantenere la fluidità della Scuola: le persone che vi partecipano si scelgono per convergenza d’interessi su un tema. Poi inevitabilmente si crea un’adesività tra i partecipanti. Il lavoro comune mette in evidenza le affinità, le simpatie, una dimensione emotiva che tende a stabilizzarsi, a creare legami. Per questo è prevista una rotazione dopo uno, al massimo due anni. Non deve prodursi quella posatura sul fondo del bicchiere che inasprisce il vino. E allora via, di nuovo nella giostra, nel crogiuolo di una nuova scelta, di una nuova partenza, perché la vicinanza non logori, non privilegi il legame personale rispetto al legame con la Scuola. È bisogna dirlo, una disciplina severa, che ricorda per certi versi quella de La Repubblica di Platone, dove i custodi della città non possono intrattenere legami famigliari perché sono destinati a un servizio superiore. Qui, nella Scuola, il servizio è quello di restaurare il vomere affilato della verità, o quanto meno di mantenerlo affilato, che non perda il suo carattere tagliente. È poi quello di mantenersi nella prassi originale istituita da Freud. Il che vuol dire aggiornare sempre la psicoanalisi perché non cada nella desuetudine di se stessa, vuol dire guardarsi intorno per capire cosa sta succedendo nel mondo e leggerne le configurazioni simboliche per attivare le prassi ad esse più congruenti, come abbiamo fatto per esempio quando abbiamo lanciato a suo tempo la psicoanalisi applicata. Ultimo aspetto quello della critica assidua per denunciare deviazioni e compromessi. Detto così può avere l’apparenza di un carattere un po’ giacobino, ma senza la fronte accigliata con cui prendiamo di petto per esempio la neurobiologia scientista come potremmo far valere oggi la verità della psicoanalisi? Proprio in quanto strumento di mobilitazione continua, di fluidificazione, di rimedio alla tendenza delle cose ad andare in panne, il cartello costituisce oggi più che mai l’interfaccia che ci permette di mantenere la Scuola in assetto di battaglia. Si tratta infatti di affrontare le sfide difficili che ci pone il nostro Secolo, che battezzerei Secolo del pensiero unico. DI fronte a questo, la psicoanalisi è la sola linea di frontiera contro la barbarie desoggettivante, ed è il compito di tutti noi, un compito che non mi sembra esagerato chiamare di tenuta dell’ultimo baluardo di civiltà.
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