Marco Focchi Il comico è senz’altro un modo di uscire dal conflitto tragico che imprigiona il nevrotico: quando riusciamo ad alleggerire la pesantezza delle tensioni contrastanti in cui è preso il soggetto, abbiamo sciolto dalle catene la sua libido che affiora quindi sgorgando nel riso. Se nel tragico l’eroe lotta contro l’ostacolo e soccombe, nel comico il protagonista vi inciampa, ma si rialza sempre, e le mille disavventure in cui incorre non lo scoraggiano si afferma in lui una vitalità che le catene del significante non riescono a mortificare: c’è sempre infatti un mezzo per eluderle, per giocarle, per metterle in burla. Il gioco di parole è anche un modo di farsi gioco della mortificazione imposta dal significante. Nel comico, nell’umorismo, nell’ironia ci sono mezzi diversi per sfuggire alla gravità dell’istituzione che stabilizza le nostre vite, non solo di quella sociale ma anche dell’istituzione soggettiva, dal fatto di essere quel che si deve essere – documenti alla mano, quelli che la polizia chiede quando deve identificarci – per divenire quel che si è, oggetto, scarto, guizzo di vita non in possesso di carta d’identità.
L’idea sottostante alla mossa elusiva del comico è in fondo quella dell’evasione, la fuga dal dover essere, la diserzione da sé stessi. Jean Genet non è certo un autore comico, ma Sartre lo presenta come comédien, e se aggiunge martyr è per indicare la via di una scelta, per sostenere l’idea che nessuno è argilla plasmata dal mondo e che ciascuno è autore di se stesso. È la tesi che traversa tutta la filosofia di Sartre, in cui si riflette l’accecante ambizione di essere padrone di se stesso. Genet tuttavia, non è certamente stato padrone di se stesso, e non ha scelto, come nessuno di noi, le carte che il gioco della vita ti mette in mano. Bambino abbandonato, adottato da una famiglia di contadini, colto a rubare pochi denari, rifiutato, ha fatto suo il rifiuto che ha subito, e ha deciso di diventare ladro, gettandosi così nel gioco di provocazione, di rovesciamento dei valori del mondo per eleggere invece tutto quel che è considerato basso: il furto, il tradimento, l’umiliazione, la vergogna, e innalzarlo all’altezza della poesia. Il Diario del ladro è il manifesto di questa sua morale rovesciata, dove i suoi eroi, Stilitano, Armand, Lucien, mille altri, sono la schiuma dei bassifondi della disperazione, dei luoghi più sordidi, delle imprese più vili, ma innalzate a lirica di una antimondo, nobilitate da parole che avrebbero potuto rivestire le gesta dei più eroici paladini, e che portano in alto truffatori, ruffiani, prostitute, vagabondi. A quindici anni, in riformatorio, gli capita in mano un libro di sonetti di Pierre de Ronsard, forse per errore, e quella lingua grandiosa gli si imprime dentro. Quando comincia a scrivere capisce che non avrebbe mai potuto usare l’argot che parlavano i suoi reali compagni d’avventura. L’argot era adatto a uno scrittore come Celine, con un’educazione accademica, che può far scendere la lingua nei bassifondi della vita e trovare la risorsa del comico nell’abbassamento. Basti pensare ai Colloqui con il professor Y, che inventa uno stile proprio rompendo il canone classico della lingua. Genet no, Genet esprime in una lingua alta quel che nella vita è più basso, perché ha bisogno di farlo evadere dal ghetto in cui i criminali, i mendicanti, gli sbandati sono rinchiusi e dove, messi in posa, possano servire alle foto dei turisti, come è raccontato in uno straordinario episodio del Diario del ladro. Evasione, è il filo rosso del nostro discorso. Ridere ci permette di svicolare dalle costrizioni della gravità di esistere, ma per Genet, più che comicità, c’è un umorismo sottile nella sua scrittura. Non è il riso schietto di chi ha gabbato il mondo, né la derisione che gode di aver rovesciato il rifiuto. C’è piuttosto l’ostentazione di una bellezza imprendibile, che nessuna galera può contenere, di cui nessuna reclusione può privare. In una intervista rilasciata verso la fine della sua vita dice: “Ho cominciato a scrivere in carcere. Scrivere mi serviva per uscire di prigione. Quando ne sono stato fuori scrivere non aveva più nessuna funzione.” In effetti c’è sempre, per tutti, bisogno di evadere, non solo in questo momento di reclusione forzata peer tutti in tutto il mondo, e per un tempo difficile da determinare. C’è sempre da evadere dai pantani della vita, dai momenti di inerzia, dalla cattura in un Altro invadente, dal ritmo che congestiona i nostri giorni, uno dopo l’altro, quando si profilano catene di doveri senza soluzione di continuità. E ciascuno di noi ha il proprio modo di ridere, cioè di diventar leggero, di rarefarsi, di svicolare, di sgattaiolare. Occorre sempre inventare un modo di uscire, perché c’è sempre una serrata dietro l’angolo. Genet lo ha fatto con la scrittura. Per noi il carcere può essere semplicemente il ritmo delle nostre giornate, e ora in particolare, in un momento in cui non siamo sospinti dagli appuntamenti, dalle mille cose da fare, dagli appuntamenti, da tutto quel che organizza i tempi abituali in cui scorre la nostra vita. Ma la fuga è soprattutto fuga dal peso di essere noi stessi. Non sono le mura, quelle del carcere, o quelle di casa, a imprigionarci, sono le pareti del nostro io. Ce ne danno testimonianza i nostri pazienti, soprattutto in questo periodo, quando insieme al tempo vuoto dell’attesa senza orizzonte sentono crescere dentro l’angoscia. Troppo spesso, e piuttosto abusivamente, questo periodo di emergenza sanitaria è stato paragonato a una guerra. Non c’è tragedia peggiore della guerra, e Freud aveva notato come durante la guerra i conflitti nevrotici si attenuino, perché le persone sono prese da preoccupazioni concrete di sopravvivenza, dalla necessità di procurarsi con fatica quel che in tempi normali è facilmente a disposizione. Nella guerra tuttavia la paura della battaglia, il confronto con la morte è temperato dalla presenza fisica del compagno accanto a te, dal senso di appartenenza a un corpo più grande del tuo. Sappiamo che il panico in battaglia si scatena quando questo corpo si sfalda, quando ciascuno si sente solo di fronte a un nemico compatto e non commensurabile con la propria forza individuale. Capiamo dunque in questa fase la necessità, nell’isolamento in cui ciascuno si trova, di mantenere il senso di una compattezza sociale, con comunicati, conferenze stampa, contatti virtuali, canti dai balconi. Nessuno deve essere lasciato solo in un tempo senza orizzonte, non scandito dai momenti che articolano le diverse scansioni della vita sociale. Motivo per cui, in chi soggiace rinchiuso nella propria solitudine in questo momento non si verifica quell’attenuazione dei conflitti notata da Freud nel tempo di guerra. Piuttosto il pericolo reale del contagio, privando del contatto sociale, diventa un’amplificatore dell’angoscia nevrotica, perché non permette l’evasione. C’è però anche un’altra effetto che possiamo mettere in conto all’attuale disarticolazione del nostro tempo sociale. Si tratta infatti di un tempo d’arresto in cui possiamo, una volta tanto, vedere le cose che ci stanno interno, le cose che da sempre arredano la nostra quotidianità e che non vedevamo più da tanto erano logorate dall’abitudine: gli alberi che ondeggiano fuori dalla finestra, alcuni risvolti del carattere delle persone con cui conviviamo e che in questo rallentamento forzato si rivelano come inediti, ricordi che non frequentavamo più e che rinascono come a un’esistenza rinnovata. E la vita, la vita che ci attraversa senza che ce ne accorgiamo, e di cui ora percepiamo il lento pulsare. Jean Genet aveva trovato la scrittura che dalle mura del carcere lo proiettava verso le infinite vie del mondo. Ciascuno di noi può trovare il proprio sentiero, la propria evasione, e può trovarla nel senso più autentico proprio ora, in un momento in cui evasione può essere inteso in un modo diverso da quello banale di intrattenimento a cui ci hanno abituato i costumi troppo a lungo indossati dalla società dello spettacolo.
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