Intervento alla tavola rotonda tenutasi a Milano alla Casa della Cultura il 16 novembre 2011 in occasione del trentennale di Lacan, con la partecipazione di Alessandro Bertoloni, Ferruccui Capelli, Marisa Fiumanò, Marco Focchi, Marcello Morale, Rocco Ronchi, Paolo Scarano, Silvia Vegetti Finzi. di Marco Focchi Lo hanno già detto molto bene prima di me Ferruccio Capelli e Marisa Fiumanò: siamo in un’altra epoca rispetto a quella in cui ha vissuto Lacan. La collaborazione che Marisa ha sottolineato esserci tra le nostre due istituzioni, il Laboratorio freudiano per la formazione degli psicoterapeuti e l’Istituto freudiano per la clinica, la terapia e la scienza è relativa alla nuova epoca in cui viviamo, e questa serata stessa fa parte del diverso clima, del mutato momento intellettuale nel rapporto con il pensiero e con l’eredità di Lacan. Siamo in una fase che presenta un contesto trasformato rispetto a quello degli anni Settanta, quando erano sulla scena gli allievi diretti di Lacan. Pensando anche soltanto all’esperienza italiana, gli allievi diretti di Lacan avevano esigenze diverse da quelle che abbiamo noi ora, e dovevano risolvere un altro genere di problemi. Per sintetizzare l’idea potremmo dire che allora, negli anni Settanta, quando l’insegnamento di Lacan ha cominciato a circolare in Italia, si poneva un’esigenza di rappresentanza. Questo accadeva perché Lacan era vivo, e perché la sua figura schermava il suo insegnamento, metteva in secondo piano il suo discorso, oscurava il suo pensiero. Noi, in fondo, possiamo dire di essere più fortunati: la distanza fisica e temporale da questo immane maestro ci consente un accesso più diretto al suo testo, senza la mediazione magnetica della sua figura, in grado di sollecitare potenti identificazioni immaginarie. Questo si vede anche fisicamente. Per quanto io abbia una età ormai matura, non sono abbastanza vecchio da aver avuto una frequentazione diretta di Lacan, ma ho avuto occasione di vederlo, e quando l’ho visto mi sono reso conto che certe caratteristiche, certe modi di muoversi, certi tic dei primi allievi erano le caratteristiche, i movimenti, i tic stessi di Lacan.
L’esigenza di rappresentanza chiaramente passava anche attraverso queste forme di identificazione immaginaria, e ora la distanza storica lo rende ancora più evidente. Noi abbiamo invece l’opportunità di confrontarci direttamente con il testo, con i concetti, con gli argomenti, con i temi, anziché con la persona, e abbiamo il vantaggio della prospettiva storica, di un certo numero di anni di lavoro, di lettura, di interpretazioni che si sono accumulate e che ci aiutano a dipanare un testo complesso. Capelli si è espresso molto bene sulla “classicità di Lacan”, e Marisa ha inquadrato con chiarezza il movimento lacaniano in Italia. Da parte mia, per evidenziare un tratto peculiare di Lacan, preferisco riferirmi non all’insieme del suo pensiero, ma allo sviluppo della sua clinica, e direi che il tratto saliente è quello che appare nello smottamento degli standard. La pratica psicoanalitica è sempre stata un po’ imbalsamata in certe regole, una sorta di galateo ad hoc in cui appariva necessario sottolineare il luogo diverso che studio analitico era rispetto al resto del mondo, un luogo in cui le regole di comportamento della realtà quotidiana non erano considerate pertinenti, e in cui i rapporti entravano in una strana atmosfera artificiale. Si considerava che l’analista potesse fare certe cose e non altre. Una volta, per esempio, un paziente informato della letteratura analitica classica, si stupì che io potessi passeggiare per la stanza anziché stare tutto il tempo incollato alla poltrona. Questo è il cosiddetto problema del setting. Ricordo che quando ero all’Università iniziavano in quel momento a circolare le prime traduzioni di Lacan. C’era quel bellissimo libricino, uscito nella collana Einaudi del Nuovo Politecnico, ricordate? Erano quei libri con la copertina bianca e con il quadratino rosso. Il libricino di cui vi parlo era La cosa freudiana, allora fresco di stampa e io, che avevo appena cominciato l’Università, me lo trovai in mano e questo fu il mio incontro con Lacan. Fu l’incontro con un testo incomprensibile per il ragazzo di vent’anni che allora ero, ma forse proprio perché è incomprensibile, e al tempo stesso pieno di allusioni coinvolgenti, mi ha ipnotizzato, mi ha sollecitato, mi ha posto degli enigmi che assolutamente dovevo risolvere, e mi ha chiamato dentro. All’Università seguii quindi un piano di studi quanto più possibile fitto di testi psicoanalitici, e feci una tesi su Lacan con il professor Funari, che allora insegnava Psicologia I, perché i corsi di psicologia erano talmente richiesti che si erano dovuti sdoppiare in Psicologia I e Psicologia II, e se non ricordo male poi si aggiunse anche Psicologia III. Quando gli chiesi la tesi, il professor Funari, che aveva messo in bibliografia per il suo corso La cosa freudiana, mi disse: “Caro Focchi, se lei vuol dire qualcosa di utile su Lacan deve cercare di definire un setting lacaniano, perché voi lacaniani (mi considerava evidentemente già del partito!) non avete un setting”. Devo dire che aveva ragione: in fondo Lacan ha completamente decostruito l’idea di setting, che – bisogna notarlo – non è un’idea freudiana. Il setting, come lo si è conosciuto nella sua forma classica, nasce dal dibattito degli anni Cinquanta, quando la psicoanalisi si trova di fronte a esigenze di formalizzazione che al tempo di Freud non c’erano, perché fare lo psicoanalista, al tempo di Freud, era fare come faceva Freud, puramente e semplicemente. Ma il setting, nato per le migliori ragioni, diventa presto una sorta di gabbia rigida. Lacan la smonta, scioglie la rigidità comportamentale che il setting classico era diventato. Dico comportamentale perché effettivamente si trattava di una serie di prescrizioni di comportamento. Una delle nozioni che Lacan rivendica di aver inventato all’interno della psicoanalisi è la nozione di atto. L’atto è qualcosa di completamente diverso da un comportamento, cioè da una sequenza di azioni prescritte. L’atto psicanalitico invece, che Lacan mette al centro della propria idea di conduzione della cura, è incentrato su un momento decisivo, riguarda l’incontro con una scansione in cui in cui il prima si separa dal dopo, in cui si verifica una rottura di continuità, e niente è più come era. Perché Lacan riesce a operare questa decostruzione del setting e degli standard? Perché si trova in un momento storico diverso, perché mette la psicoanalisi a confronto con altre discipline e apre una nuova fase di pensiero, perché ha una cultura diversa, ma anche perché è libero dall’esigenza, che ha storicamente caratterizzato la psicoanalisi, di identificarsi. La psicoanalisi ha sempre avuto un problema di identità. Negli anni Venti la psicoanalisi aveva bisogno di distinguersi dall’ipnosi, e c’è in quel periodo un dibattito molto interessante che si concentra sulla differenza tra la suggestione e il transfert, dove gli psicoanalisti argomentano, spiegano, mostrano che il transfert è tutt’altra cosa dalla suggestione, e anche se ci sono delle somiglianze, sono tuttavia più importanti le differenze, e sono le differenze che qualificano la psicoanalisi, e così via. In una prima fase quindi l’identità della psicoanalisi si caratterizza distinguendosi dall’ipnosi. Poi, negli anni Cinquanta, la psicoanalisi cresce d’importanza, cresce la richiesta di trattamenti, e molti più pazienti vanno a bussare agli studi degli psicoanalisti, mentre il numero degli psicoanalisti cresce molto più lentamente, anche perché la formazione non è cosa né semplice né breve. C’è allora un analista, peraltro geniale, come Alexander, che inventa la psicoterapia breve, riuscendo a far sì che un numero ridotto di psicoanalisti possa far fronte a un numero fortemente aumentato di domande d’aiuto. La psicoterapia breve è però sentita dagli ortodossi dell’epoca come una sorta di contaminazione, e fa nascere il bisogno di distinguersi dalle nascenti psicoterapie di ispirazione analitica, che, per usare l’espressione di Freud, mettono piombo nell’oro puro dell’analisi. Ma Freud lo asseriva per dire che occorreva andare in quella direzione, che occorreva creare un lega meno pura ma più corrispondente alle necessità del tempo, mentre per gli ortodossi non era così. Il setting viene allora a definire questa seconda fase di esigenza identitaria della psicoanalisi, dove si è assillati dall’idea di affermare qual che la psicoanalisi è e quel che non è. Lacan evade da questa prigionia identitaria. Lacan ha sempre denunciato le parvenze sociali. Le riconosce e, non direi che le smaschera o che le demolisce, ma che le snuda. Non fa l’operazione del cinico, non ha con le parvenze lo stesso rapporto del filosofo che vuole vedere il cavallo e non la cavallinità. Mettere le parvenze a nudo non è un’operazione che le rende inutili. Ci sono le parvenze, c’è un rapporto tra parvenze e autorità che fa funzionare l’autorità, e questo vale anche per l’autorità analitica. L’analisi si fonda, per Lacan, su quel che chiama soggetto supposto sapere. Non deve sfuggirci che il soggetto supposto sapere non è una parvenza nello stesso senso in cui possono esserlo il trono o l’altare, le parvenze del potere e della religione, o la sicurezza del calcolo nel discorso scientifico, che lo rende una garanzia immaginaria anche per la soluzione di qualsiasi problema incalcolabile. Il soggetto supposto sapere è l’attribuzione di un sapere sul desiderio. Proprio perché il soggetto umano non sa quel che desidera, proprio perché domanda qualcosa di diverso da quel che in realtà vuole, e si sente smarrito nei labirinti del proprio desiderio insoddisfatto, ha tuttavia di mira un punto in cui sapere e desiderio coincidano. In questo punto, che è il perno del transfert, l’analista deve collocarsi perché il processo possa svolgersi, e collocandovisi l’analista entra in rapporto con una forma di autorità di cui, che lo voglia o no, è investito, e che è la leva per far funzionare le cose. Lacan traversa quindi lo spessore delle parvenze che nei primi momenti della storia della psicoanalisi si erano cristallizzate in esigenze identitarie, e le rende inutili. Da un lato rende inutili gli standard sul piano della pratica, dall’altro rende inutili i dogmi teorici. Che cosa vuol dire essere psicoanalista e non un ipnotista? Cosa vuol dire essere uno psicoanalista piuttosto che uno psicoterapeuta? Non sono certo i comportamenti a mostrarlo, né gli standard a definirlo, e Lacan, proprio perché vanifica le regole, va invece a fondo dei principi che guidano la pratica analitica. Mina quindi gli standard proprio perché dà forza ai principi, evidenziando le nervature portanti della pratica. La psicoanalisi, sappiamo, lavora sul fantasma, e questo, nella psicoanalisi tradizionale, voleva dire che entrare nello studio dell’analista era un po’ come accedere a uno spazio diverso da quello della vita quotidiana. Separare il fantasma della realtà non è facile, ci vuole la psicoanalisi per farlo, e per il primi analisti questo avveniva quasi in modo fisico, un po’ come se la realtà la si appendesse fuori dallo studio come si appendeva il cappello, e dentro s’incontrasse uno spazio diverso, vagamente irreale. Ci sono mille storielle che mettono alla berlina in modo divertente questo modo di fare. Lacan non ha bisogno della messa in scena analitica per fare funzionare la psicoanalisi, perché ne segue le linee di forza. Possiamo benissimo essere immersi nella realtà e tuttavia, se abbiamo chiari i principi che orientano l’esperienza psicoanalitica, se abbiamo chiare le mappe, sappiamo far emergere l’altro aspetto, il risvolto invisibilmente intrecciato nella realtà, quello che riguarda l’inconscio, quello che riguarda il fantasma. Mi sembra lo dicesse in altro modo molto bene Marisa nel suo intervento, mostrando che proprio per questa libertà rispetto agli standard possiamo avere un rapporto più significativo con il sociale. Una volta l’analisi era quel che si faceva nello studio analitico, e gli analisti che lavoravano nelle strutture pubbliche si sentivano a disagio perché non trovavano il setting, non era possibile creare le condizioni artificiali dello studio. Questo, grazie alla nuova configurazione della pratica che Lacan ci ha permesso di fare, è un problema superato. Se non è l’esteriorità del setting a farmi da divisa perché mi riconosca come analista – e questa non può mai esserci in una struttura istituzionale – ma un determinato modo di lettura del discorso, un particolare modo di impostare rapporto con il soggetto, allora non ho bisogno di uno scenario ad hoc. Posso benissimo essere in una struttura pubblica, posso essere in una scuola, in un ospedale, e non cambia nulla per quel che riguarda la sostanza della mia pratica. La psicoanalisi può uscire dal chiuso dello studio, può circolare nella realtà sociale, può proporsi e presentarsi nella città. Questo mi sembra fondamentale, mi sembra l’attualità nella psicoanalisi, mi sembra il futuro anche della psicoanalisi, e lo dobbiamo alla riformulazione operata da Lacan. La configurazione simbolica dell’epoca in cui si vive è fondamentale, perché la pratica psicoanalitica non è fuori dalla storia. Occorre considerare che Freud, quando ha creato la psicoanalisi, viveva in un epoca che Foucault ha battezzato come epoca delle società disciplinari, cioè fondate su un’autorità riconosciuta, consolidata: c’era l’Imperatore al tempo di Freud. Non siamo più oggi in questa fase, e Impero, se stiamo al testo di Negri di qualche anno fa, vuol dire un’altra cosa da quel che significava ai tempi dell’Impero autroungarico . Adesso siamo piuttosto entrati in un’epoca che Deleuze ha chiamato delle società del controllo, dove le autorità non sono centralizzate, dove ci sono delle modulazioni più che delle reclusioni, delle variazioni continue, e direi che la riformulazione della psicoanalisi, la rifondazione della psicoanalisi operata da Lacan permette di corrispondere a questa nuova configurazione del simbolico. In questo senso non possiamo dire che Lacan dia un contributo al pensiero psicoanalitico, perché in realtà trasforma la psicoanalisi, la ripensa da cima a fondo, la riformula, la rifonda e non la basa su dei dogmi, su delle parole d’ordine in cui ci si riconosce, e in cui si è lacaniani perché si usa quella formula o bioniani perché si usa quell’altra. In una delle nostre riviste è uscito un articolo dove un’intervistatrice aveva chiesto a diversi analisti che cosa vuol dire essere lacaniani oggi. Le risposte sono state le più svariate, perché appunto non c’è una dogmatica lacaniana, non ci sono le parole d’ordine in base a cui ci si riconosce. Una delle risposte che mi sono sembrate le più interessanti si riferiva all’inventiva. Non ci interessa tanto una tecnica da applicare alla clinica, ma un modo di affrontare i casi uno per uno, un modo che non si riconduce all’applicazione di regole, che non si riporta a un manuale, che pone l’analista di fronte all’esigenza di escogitare una specifica soluzione, perché è la soluzione che va bene per quella persona, è una soluzione singolare, non ripetibile. L’inventiva è quindi stata una risposta a questa singolare inchiesta, e un’altra era più strana, o semplicemente più insolita: era che l’analista lacaniano ci mette il corpo. Cosa vuol dire? Perché non è certo detto nello stesso senso in cui lo si direbbe nella terapia della Gestalt. Che l’analista lacaniano ci mette il corpo vuol dire secondo me che nell’esperienza clinica ci si mette in toto, che l’analisi non è una questione di formalità o anche di formalismo. Lacan è conosciuto per il suo aforisma: “L’inconscio è strutturato come un linguaggio”, ed è vero, però c’è tutta una parte del suo insegnamento successivo che mette in luce l’importanza del reale, e da questo punto di vista che cosa vuol dire che l’analista ci mette il corpo? Vuol dire che le parole non bastano da sole, vuol dire che la stessa frase detta in un certo modo è diversa detta in un’altro, perché c’è una forza enunciativa che può venire solo dal corpo, dalla presenza fisica dell’analista. Per questo motivo non facciamo analisi su internet o per telefono, perché la parola fa parte del corpo, e per parlare ci si mette il corpo. Per concludere brevemente questo intervento, vorrei dire che mi sembra interessante che l’eredità di Lacan, quel che ci troviamo in mano oggi, non sia una serie di dogmi, ma una riconfigurazione del pensiero psicanalitico, una radicale rivisitazione della clinica psicanalitica, un profondo ripensamento del simbolico sociale, che ci permette di lavorare nel mondo contemporaneo, così diverso da quello che abbiamo conosciuto quando abbiamo iniziato la nostra formazione, e che ci permette di collaborare tra orientamenti diversi all’interno del pensiero lacaniano.
1 Commento
Bohuslava Shevchenko
28/11/2023 05:13:23 pm
Mi sento così felice e mi piace condividere la mia storia, mi chiamo Bohuslava Shevchenko, sono una donna felicemente sposata con 3 bellissimi bambini e un marito amorevole, voglio ringraziare il signor Nosa Ugo che mi ha lanciato un incantesimo d'amore che mi ha fatto mio marito è tornato, per me ha funzionato ed è per questo che condivido questa storia, sono il tipo che non ha mai creduto al lancio degli incantesimi. Non avevo altra scelta che provarlo. Ho fatto tutto quello che mi è stato chiesto di fare e tutto ha funzionato bene, il signor Nosa Ugo mi ha aiutato a ravvivare la mia relazione, dovevo condividerlo qui per chiunque voglia un incantesimo d'amore o qualsiasi tipo di incantesimo come, se vuoi un incantesimo di buona fortuna, incantesimo di protezione spirituale, incantesimo portatore, incantesimo vincolante, puoi contattarlo tramite e-mail o sito web
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