di Marco Focchi Come funzionano le cose nell’epoca in cui si è spezzata la pietra angolare della tradizione, il significante del Nome del Padre che faceva entrare nella normalità, che assegnava un posto, che regolava il desiderio? Non sappiamo più bene cosa sia la normalità. L’orientamento di studi incentrati, in campo medico, sull’enhancement, sul miglioramento della prestazione, non considerano più i parametri di quel che è statisticamente considerato normale. Stimolando la ricerca di una perfezione senza limite essi sono l’indice interessante di un quadro sociale particolare, in cui la spinta al godimento slitta verso asintoti dove il principio di prestazione non appare più circoscrivibile e governabile in modo sicuro. Non sapendo più bene cosa sia la normalità si fa più pressante il bisogno di identificare quel che invece è patologico. Su questo piano ci sono meno problemi: è patologico tutto quel che è classificato nel DSM. Non si spiegherebbe il successo di questo manuale ampiamente screditato, la cui quinta edizione, continuamente rimandata, è preceduta da polemiche di fuoco, se non ci fosse, accanto alla necessità di soddisfare Big Pharma, una precisa funzione governamentale, indispensabile nella gestione della società attuale. Classificare è un modo di governare. La credibilità scientifica dell’impresa DSM è nulla, ma la sua funzione sociale di classificazione è indispensabile. Non c’è più il NdP a dirci cosa è normale, c’è DSM a dirci cosa è patologico. Il DSM è l’ultimo rifugio, in negativo, di una norma che è saltata scoperchiando il vaso di Pandora delle rivendicazioni identitarie. Sappiamo infatti lo scontro che ha opposto l’impresa DSM e la politica di emancipazione dell’omosessualità. C’è un quadro ampio, quello che vede la contrapposizione di interessi e di forze sociali, e c’è un quadro minuto, quello che vede all’opera gli uomini. L’uomo al quale, nel 1973, è arrivato sul tavolo l’onere della decisione in ultima istanza di dichiarare se l’omosessualità fosse un disturbo da includere o no nel DSM è Robert Spitzer, considerato uno degli psichiatri più influenti del secolo. E in quel momento il dr Spitzer disse no. Il dr. Spitzer è senz’altro un uomo onesto. In uno studio del 2001 – diventato la bibbia dei fautori della terapia riparativa – dopo aver intervistato al telefono duecento persone che dichiaravano di aver mutato il proprio orientamento sessuale, si è convinto che, per persone fortemente motivate, fosse possibile passare dall’orientamento omosessuale a quello eterosessuale. Pubblicato due anni dopo, con una peer review, negli Archives of Sexuale Behavior, il lavoro fu al centro di infinite polemiche per il modo in cui erano stati definiti i criteri di riuscita della terapia riparativa. Attualmente il dr Spitzer è in pensione, ma si è fatto l’idea che quelle critiche fossero fondate e, pentito di aver illuso un numero imprecisato di persone di poter intraprendere validamente una terapia riparativa, ha cercato di pubblicare nella stessa rivista, gli Archives of Sexual Behavior, un articolo per ritrattare i risultati del suo studio del 2001. L’editore della rivista ha rifiutato di pubblicare il testo. Il dr. Spitzer si è rivolto allora ai giornali e in un’intervista del 2012, ha reso pubbliche le sue scuse alla comunità gay. Ha affermato che il vizio di fondo del suo lavoro del 2001 era l’impossibilità di verificare quanto fossero credibili i soggetti che affermavano di aver mutato il loro orientamento sessuale. Il dr. Spitzer è un uomo onesto, ma il problema è un altro. Che credibilità possiamo attribuire a modalità di ricerca di cui questo è solo un esempio alla lente d’ingrandimento, diventato visibile solo per le controversie che ha suscitato? Che credibilità possiamo assegnare a una rivista che rifiuta di pubblicare la rettifica del punto di vista di uno dei suoi collaboratori più illustri? Che credibilità si può dare a tutto il filone della ricerca evidence based applicata ai temi della soggettività, quando è così scoperta la posta in gioco politica delle sue assunzioni, delle sue definizioni, e quando sono così ciechi e approssimativi i suoi criteri, anche maneggiati da persone competenti e irreprensibili come il dr. Spitzer? Si evidenzia sempre più che uno dei compiti maggiori della psicoanalisi nel XXI secolo sarà di mettere in luce le implicazioni politiche della clinica, per lacerare il velo dell’oscurantismo scientista che i creatori d’opinione hanno adottato come fosse la cosa più ovvia del mondo, e che gli amministratori utilizzano come il linguaggio che meglio serve le burocrazie fatte di procedure senza pensiero.
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Novembre 2024
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