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Domande e risposte sul padre postmoderno

13/2/2014

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Ricevo e pubblico volentieri, insieme alle mie risposte, queste domande del filosofo Riccardo Fanciullacci. Il dibattito prende spunto dal testo, presente in questo blog, "Le nuove famiglie e il padre postmoderno".

Domande

Questo articolo è molto interessante; tra le altre ragioni anche per la segnalazione del libro di Zweig.
Data la centralità del Nome del padre nel discorso di Lacan, però, vorrei porre alcune domande per capire quanto profondo è il "passaggio" che qui viene richiamato, quello all'ultimo Lacan, per intenderci.


Io ho sempre creduto che per Lacan valesse questa sequenza:
(1) non c'è soggetto senza castrazione, (2) non c'è castrazione senza Nome del padre, quindi (3) non c'è soggetto senza Nome del padre.
Questa sequenza dà un posto strutturale al padre.
Questa sequenza vorrebbe essere (nelle intenzioni di Lacan) la descrizione di una struttura simbolica? A me verrebbe da dire che vorrebbe essere la descrizione di una struttura DEL simbolico, cioè: non qualcosa che cambia con il cambiare delle configurazioni simboliche di cui si parla all'inizio di questo articolo. Per dire questa differenza, trovo nell'articolo questa bella espressione: "il reale irriducibile e necessario al fine della genesi soggettiva", dove non si parla in generale del Reale, ma del reale nascosto nella configurazione simbolica (e storica) della famiglia borghese. Insomma: a parte gli accadimenti transeunti, ci sono configurazioni simboliche che, pur inquadrando molti accadimenti, sono storiche (cambiano lentamente, ma cambiano) e vi sono anche strutture che sono invarianti, sebbene operino (cioè: strutturino) sempre attraverso la mediazione delle configurazioni storiche. Ecco, la sequenza precedente, ho sempre creduto che fosse parte delle strutture.
Ora mi pare di scoprire che non è così.

Allora ho pensato di ricostruire il passaggio in questo modo:
non è la castrazione l’invariante, l’invariante è qualcos’altro che prima operava attraverso la castrazione e ora altrimenti.
Allora, ecco due domande: come si chiama questo “qualcos’altro”? Come opera oggi?
A proposito della prima, rileggendo questo testo scriverei perlomeno quest’altra sequenza:
(1’) non c’è soggetto senza un certo far fronte al godimento, (2’) non c’è una regola universale o delle istruzioni buone per tutti da applicare per far fronte al proprio godimento, (3’) il padre dà un esempio di come trattare e far fronte al proprio godimento.

Questa seconda sequenza non dà un posto strutturale al padre: diciamo che semplicemente gli dà un posto. Mi spiego: che sia inevitabile trovare un esempio, non è qui detto e se anche fosse detto (aggiungendo qualcosa al ragionamento), non sarebbe detto che quell’esempio deve essere fornito dal padre.
Ecco allora la prima domanda che vorrei porre: quanto larghi sono i margini che contornano lo spazio di chi da (o ha da dare) quell’esempio singolare? Può non essere il padre biologico, ma può anche non essere chi svolge una funzione simile al padre (es: è il compagno della madre)? Può addirittura non essere neppure un uomo (maschio)?

Alla domanda precedente tengo molto, ma, da un punto di vista teorico, ce ne sarebbe un’altra: se è vero che “non c’è soggetto senza un certo fra fronte al desiderio”, quali sono i limiti stando dentro ai quali qualcosa conta come “un certo far fronte”?
Ad esempio: se tali limiti sono quasi per nulla esigenti, ci troviamo a spiegare perché Lacan dica che v’è soggetto anche nella psicosi; se invece i limiti sono più esigenti, allora può accadere che il soggetto non si costituisca o generi. La sequenza 1-3 indicava tali limiti: deve prodursi la castrazione (= qualcuno, sia esso il padre biologico o meno, deve svolgere la funzione del Nome del padre, cioè dare la Legge ecc.). Ora invece è tutto più sfumato – forse ancora più interessante, però.

Risposte

Nello sviluppo delle domande che Fanciullacci ha articolato a partire dal mio testo è ben individuato un punto: il passaggio della funzione dell’invariante dalla castrazione al reale. La castrazione è infatti una funzione simbolica che, come tale, partecipa di quella che Lacan, negli ultimi anni del suo insegnamento, chiama la “varité”, una verità che varia. È vero che ora sono le 10 di mattina, ma tra un po’, tra appena un istante, prima ancora che io abbia terminato questa frase, non lo saranno più. Se le coordinate della verità devono essere prese nel simbolico, la verità varia con la mobilità stessa del simbolico. Il reale, invece, si trova sempre allo stesso posto, come le stelle fisse del firmamento.
Quando parliamo di cambiamento in psicoanalisi, non dobbiamo dunque pensare a un cambiamento “reale”, o a un cambiamento del reale. È come per i sandali d’argento di Dorothy nel Mago di Oz: Dorothy vuole fuggire dallo strano paese in cui si trova per tornare a casa, ma non sa come fare, finché qualcuno non le indica che i sandali che indossa, sottratti alla strega cattiva, sono sandali magici, un po’ come gli stivali delle sette leghe, e la possono portare dove vuole. Il soggetto cerca in qualche irraggiungibile trascendenza i mezzi per uscire dalle proprie impasse, e l’analisi gli fa vedere quel che lo specchio non gli mostra, una risorsa al di là dell’immaginario, invisibile all’io, ma non per questo meno presente, e di cui si tratta di accorgersi. Cambia dunque la posizione soggettiva, non il reale del soggetto.

Come avviene questo mutamento di posizione soggettiva? E prima ancora: come si costituisce la posizione soggettiva, che è anche e innanzi tutto una presa di posizione rispetto al godimento? È qui che entra in scena la funzione del padre. Chiamarla “funzione del padre” è in realtà un residuo linguistico perché, come nota giustamente Fanciullacci, è una funzione che può essere svolta da chiunque. Le famiglie monoparentali non soffrono dell’assenza fisica di uno dei due genitori, come a volte si crede, se le funzioni simboliche sono ben tenute.
In cosa consiste questa funzione? Nell’indicare una via d’accesso a un po’ di godimento, – une jouissance en lichettes, come si esprime Lacan – tenendo il soggetto al riparo dall’invasione di godimento che provoca la catastrofe della psicosi. Proprio perché il godimento si assume a fugaci assaggi non soddisfa mai pienamente, e il nevrotico è sempre insoddisfatto, e tutti noi siamo sempre insoddisfatti. Ma la nostra insoddisfazione è la diga contro lo tzunami pulsionale che devasta il soggetto psicotico.
Alla domanda di Fanciullacci: “Quanto larghi sono i margini di chi dà quell’esempio singolare?” potremmo rispondere che sono molto ampi, e che non c’e un funzionario specifico, o una gamma limitata di funzionari deputati a svolgere la funzione paterna. Da qui la pluralizzazione del nome del padre.
Naturalmente non sempre questa funzione cade in buone mani. Nelle scuole oggi molto spesso si vede che fa funzione d’autorità molto più la televisione che non qualche figura dell’entourage affettivo. Perché si arrivi a questo occorre però trovarsi in una situazione emotivamente impoverita, dove la soluzione “paterna”, nei casi favorevoli in cui ancora viene cercata, viene da vettori spersonalizzati, portatori di uno sguardo o di una voce anonimi, e che solo il loro anonimato rende sopportabili.
Si hanno in tal modo i cosiddetti “bambini senza regole”, che sono semplicemente bambini ai quali non è che la legge non sia arrivata, solo è giunta in un modo insopportabile, senza amore, o con un amore spaventato e lontano.

Questo tema conduce all’ultimo punto toccato dalle domande, quello dei limiti. Non credo che la questione debba essere quanto sono esigenti i limiti, ma quanto sono funzionali, e sono funzionali se permettono di tenere a distanza l’insopportabile. I bambini “senza limiti”, se non sono psicotici, sono bambini per i quali la barriera dall’insopportabile è leggera come carta velina, e che rifiutano i limiti non perché sono troppo esigenti, ma perché assolutamente inefficaci, deboli, insufficienti.

Nell’attuale depotenziamento delle forme d’autorità, in cui mettiamo tutte le istituzioni in crisi, famiglia, scuola, politica, il punto non è evidentemente di rinforzare le vecchie figure perdute d’autorità, di ripristinare il trono e l’altare. L’autorità è un modo di far funzionare le relazioni umane, che è necessaria perché i soggetti, diversamente dagli enti a cui si applicano le equazioni della fisica, non rispondono semplicemente al calcolo (come dovrebbero imparare anche gli esperti di sondaggi e i loro committenti politici). L’autorità è inaggirabile nello strutturare il sociale, e può dirlo senza remore qualcuno come me che appartiene alle generazione che ha condotto la più accanita lotta contro l’autoritarismo. Ma l’autorità non è nulla che abbia a che fare con l’imposizione. Auctoritas è piuttosto sinonimo di dignitas. Ripristinare l’autorità non vuol dire ristabilire i mezzi di controllo sociale, ma creare una cultura in cui chi si investe del compito educativo può fermare una crisi di rabbia cieca di un bambino senza bisogno di dargli uno schiaffo, senza necessariamente sopraffarlo con la forza, ma solo perché merita il suo rispetto. Ed è questo il punto difficile, che richiede grande coinvolgimento, partecipazione, essere nelle cose che si fanno.
Si parla spesso di padre assente. È ovvio che non è in questione la presenza o l’assenza fisica, ma la presenza nella parola. Un padre che merita rispetto, e un padre postmoderno può benissimo esserlo, è un padre che è in quel che dice, che non è sopra la legge, e che può anche avere manchevolezze, ma che chiede solo quel che sa anche dare.
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