Discorso tenuto alla giornata organizzata su Zoom da Nodi freudiani il 27 novembre 2021 per la presentazione del libro di Sergio Contardi Una leggera indifferenza, un certo disinganno, un lieve disincanto. Marco Focchi Il rapporto che ho avuto con Sergio Contardi è sempre stato principalmente verbale, dialogico. Sergio tendeva infatti a pubblicare poco dei suoi interventi, alcuni dei quali ho letto nelle riviste che promuoveva, in particolare Scibbolet. Nelle conversazioni era però generoso, e ricordo i lunghi colloqui che ho avuto con lui in amicizia, colloqui di cui ora ritrovo nel libro i temi. In primo luogo c’è la considerazione del sintomo, la differenza di come il sintomo è trattato in psicoanalisi rispetto alla medicina. “Guarigione senza terapia”, il titolo che raggruppa i testi intorno a questo aspetto, esprime molto bene l’idea generale secondo cui la psicoanalisi è un modo di trattamento della sofferenza psichica che non ha l’obbiettivo di sopprimere il sintomo. Freud diceva come il delirio nelle psicosi fosse di per sé un modo di guarire, di uscire dallo stallo della fase in cui i fenomeni elementari lasciano il soggetto perplesso, nell’enigma, di fronte a manifestazioni alle quali non riesce a dare un senso. Il delirio costruisce questi elementi su un asse metaforico diverso da quello della metafora paterna, che nella psicosi non ha avuto luogo: costruisce questi elementi sull’asse della metafora delirante, e per questo lo psicotico è un grande creatore di visioni del mondo.
Qualcosa di analogo si può dire per il nevrotico. C’è un punto cedevole nella tenuta della metafora paterna, ed è qui che s’inserisce il sintomo come puntello e, possiamo dire senz’altro anche in questo caso, come tentativo di guarigione. Perché allora dovremmo guarire un paziente dal sintomo se il sintomo stesso è di per sé un tentativo di guarigione? Si tratta piuttosto di separare il sintomo dalla sofferenza, di ricondurlo a quel che il sintomo è in ultima istanza, quando, sciolto dai conflitti della nevrosi, si manifesta come segno di godimento. Su questo Sergio e io eravamo completamente convergenti. Non si tratta infatti di guarire dal sintomo, piuttosto di dargli una nuova funzione, utilizzarlo insomma, farne buon uso, sottraendosi all’idea utilitarista che lo presenta come un disfunzionamento. Naturalmente, questo modo di trattamento del sintomo implica che non ci formiamo una concezione completamente deterministica del lavoro analitico. Ci sono certamente delle condizioni determinanti in cui si pone la scelta soggettiva, ma il soggetto si costituisce, appunto, in questa scelta. Non ci sono quindi automatismi da far partire per disinnescare la nevrosi, come a volte alcuni pazienti auspicano. Ricordo una paziente che mi diceva: non potrebbe mettermi in ipnosi, in modo da arrivare direttamente nel nocciolo e spegnere così la fonte della sofferenza? È il sogno di saltare tutto quel processo di rielaborazione, di messa in esercizio del sapere acquisito nell’esperienza psicoanalitica, una messa in esercizio che il solo soggetto può fare. Non non c’è nessun possibile progresso in analisi senza il consenso soggettivo, senza la partecipazione del soggetto. Contardi prende questo tema della scelta dall’angolo della comicità: evoca la scenetta di un film di Stanlio e Ollio. I due si trovano in una stanza dove sul tavolo campeggia ostentatamente una ricca fetta di torta. Olio ingiunge al suo compagno: “Allora, vieni con me o resti a mangiarti questa fetta di torta?”. Quale straziante lacerazione interiore vediamo qui disegnarsi tra seguire il senso del dovere restando accanto al compagno ma, più estesamente, tra seguire la via della relazione con l’Altro, e il cortocircuito immediato, autoerotico, di un abbandono al godimento dell’oggetto orale? Come non vedere che questa scenetta apparentemente leggera è la ripresentazione di un tema antichissimo la cui prima formulazione che conosco risale a Prodico di Ceo, un sofista allievo di Protagora vissuto a cavallo tra il IV e il V secolo a.c. La storia di Prodico ci parla di Ercole che, alle soglie dell’adolescenza, si trova di fronte a due donne: la prima gli propone di seguire lei in un cammino di piaceri, in cui avrebbe dovuto solo occuparsi di godere della cose che la vita offre. La seconda lo invita a un cammino in salita, faticoso, dove l’arte, gli onori, i piaceri vanno conquistati prima di essere goduti. È quel che Lacan avrebbe formulato nei termini in cui il godimento va rifiutato per essere raggiunto attraverso la scala rovesciata del desiderio. È impossibile non rendersi conto di come la fede cieca attribuita dal mondo contemporaneo a un determinismo senza eccezioni, a uno scientismo invasivo dove il solo criterio di validazione è l’evidence based, porti verso l’assoluzione generalizzata, la deresponsabilizzazione, l’elusione del momento lacerante della scelta? Con mano leggera Contardi ci conduce attraverso la scenetta di Stanlio e Ollio, in cui ci mostra la sua passione per il cinema che traspare in diversi punti del libro. Ma in cui soprattutto vediamo la lievità ironica della sua scrittura e del suo stile, che il titolo del libro in cui sono ora raccolti i suoi interventi esprime perfettamente: Una leggera indifferenza, un certo disinganno, un lieve disincanto. Si tratta di termini con i quali, possiamo dire, Contardi sdrammatizza le espressioni con cui Lacan indica il momento terminale dell’analisi mettendolo sotto il segno della destituzione soggettiva e del disessere. Di questi tre termini del titolo vorrei evidenziare in particolare il primo, l’indifferenza, perché è stato Sergio a mostrarmene il valore teorico per la prima volta. Non ho ritrovato nel libro gli sviluppi con cui me lo esponeva, ma ricordo bene come me ne parlava nelle nostre conversazioni. Indifferenz. mi diceva, è il termine con cui Freud esprime quel che noi generalmente traduciamo con neutralità. A introdurre il termine neutrality è stato Strachey nella sua traduzione inglese delle opere di Freud. In effetti Contardi precisa come sia da intendere questa indifferenza quando la riferiamo alla posizione dell’analista: “Per leggera l’indifferenza non intendo certo l’indifferenza verso l’altro, ossia il rigetto della passione che incontriamo in patologie come l’isteria, e neppure il tentativo di elevarsi al di sopra delle passioni come nella mistica. Con l’espressione ‘leggera indifferenza’ intendo piuttosto, e al contrario, un’attenzione diversa per l’altro a cui ci si rivolge, un ascolto che sappia mantenersi tale senza scivolare nelle trappole assordanti dell’erotizzazione e dell’idealizzazione”. Direi che in questo senso la posizione analitica è molto meglio definita che dal termine neutralità che, nella forma latina da cui deriva: neuter, indica né l’uno né l’altro, diventando l’espressione di una non scelta. La posizione dell’analista non è certo quella di non scegliere, di non implicarsi e se, con Lacan, parliamo di desiderio dell’analista, è perché consideriamo che l’analista non sia un osservatore esterno, fuori dal quadro. Lo psicoanalista fa integralmente parte del quadro in cui opera. Questo far parte, questo impegnarsi, questo modo di coinvolgimento deve comunque avere una regola, e questa regola è quel che annuncia l’indifferenza, che, come ben nota Contardi, serve a porre un freno alla controtraslazione, un freno senza il quale la psicoanalisi scivola nel confronto immaginario, o nel turbamento passionale di cui Breuer dà l’esempio nella sua relazione con Anna O. E, voglio tuttavia aggiungere, nessuno più di Sergio Contardi era appassionato, implicato, coinvolto nella psicoanalisi, con cui si è confrontato fin nei suoi ultimi momenti.
1 Comment
Francesca
28/7/2022 12:11:39 pm
Grazie. Attente, lucide e coinvolgenti considerazioni. Le sue parole mi aiutano di volta in volta a entrare con sempre maggiore chiarezza e consapevolezza nel mondo complesso della psicanalisi lacaniana
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