Emma Danini, Per non dimenticare, Edizioni Albatros, Roma 2011 Marco Focchi Il libro di Emma Danini Per non dimenticare racconta un dramma della memoria, racconta il male che colpisce una persona, una donna, una collega psicoanalista, qualcuno il cui lavoro per tutta la vita è consistito nel ripercorrere la memoria di quanti si rivolgevano a lei in cerca di aiuto per ritrovare il filo di se stessi. L’esperienza d’analisi è un modo di entrare nella propria storia da una porta che di solito resta chiusa, e attraverso la quale la memoria diventa lo scenario della soggettività, lo sfondo che dà senso all’esistenza, il labirinto in cui il soggetto trova sollievo al dolore di esistere traversando e usando, tra le altre, la risorsa del ricordo. La perdita della possibilità di ricordare, che colpisce con progressiva ma inesorabile lentezza, è il contrario, è la storia di un crescente, angosciante smarrimento. Questo dramma, per Emma, non ha luogo su una scena sola, ma su due. La prima è il presente, una scena non vuota, ma che si svuota continuamente. Se il nostro presente, per esempio, ha l’ampiezza di una giornata, abbiamo un lasso in cui il tempo cresce con gli eventi che si susseguono, e si accumula. A volte è un tempo veloce, altre volte ci grava addosso, ci affatica, non passa mai, ma è comunque un orizzonte visibile, una finestra aperta sulla vita che stiamo vivendo, che possiamo momentaneamente chiudere, ma a cui potremo tornare ad affacciarci. Un giorno è individuabile con la sua identità e, buona o cattiva che sia, è riconoscibile perché sappiamo cosa abbiamo fatto il giorno prima, e possiamo cercare di immaginare cosa accadrà il giorno successivo.
La giornata di Emma – fatta di un quotidiano che chiama la Belva – è una, ma è al tempo stesso sempre diversa. Il tempo non si cristallizza in unità riconoscibili e recuperabili, e il quotidiano non vi si descrive come una finestra aperta sul mondo, ma come un flusso che scivola via tra le dita, che non si ferma da nessuna parte. La seconda scena è quella di un passato fatto d’immagini, luoghi, figure di potenza quasi mitologica: il fabbro del paese, sorta di Vulcano circonfuso di scintille argentate, “uomo mascherato con strani occhiali che gli nascondevano occhi e naso”; la Pioppa, la nonna adorata e solo punto di riferimento in uno spazio in cui Emma si smarrisce, prima quando dal paesello si trasferisce a Milano trovandosi inghiottita nel labirinto della metropoli, poi quando la memoria progressivamente la abbandona facendole perdere l’orientamento in quel che lei chiama “il mio piccolissimo mondo”; la Jole, archetipo di prostituta, “molto alta, truccatissima, con tailleur e tacchi a spillo”, dalla quale, per ragioni che ancora sente inspiegabili, veniva mandata a ritirare il denaro dell’affitto, cosa che la costringeva a traversare una città a lei ancora sconosciuta, e a sentirsi sporcata e “parte dell’imbroglio”. È un passato che dobbiamo definire come? Ritoccato? Ricostruito? Sicuramente entrambe le cose. Da un lato c’è in questo passato la concretezza delle cose, la ricchezza di sensazioni troppo vive per essere solo ricostruzioni. Dall’altro c’è la ripresa, la ricontestualizzazione, la rivisitazione che vede le cose da un altro angolo, con un altro sguardo. Ci appare allora la storia di Emma bambina di seconda scelta, con una seconda madre – dopo la morte della prima, quella vera, quella naturale – che poteva facilmente dimenticarla in un angolo purché non si facesse troppo sentire. Vediamo delinearsi la vicenda di luoghi dove non c’è posto per lei, ma nei quali si possono percepire, come il rilievo di un ordito, altri luoghi, dove non c’è bisogno di un posto per esserci. Perché, si domanda Emma, dicono che la memoria si può perdere? La memoria non è un oggetto. E allora la vediamo aprirsi su una memoria che è un bene di tutti, nessuno escluso, e ritrovarla nei riti collettivi, nelle commemorazioni di Falcone e Borsellino, nella saga di Peppone e Don Camillo, che ha accompagnato quanti, come lei, sono stati bambini negli anni Cinquanta sul Po. C’è una vasta comunità di memoria a cui tutti apparteniamo, più importante della memoria che pensiamo ci debba appartenere. Non è un passato che deve essere trattenuto, ma un tempo che permane e in cui siamo immersi. Questa memoria che non abbiamo e in cui siamo mi sembra la rivelazione più vera, più profonda che sorge dall’esperienza di cui questo libro dà testimonianza, in una riflessione, in una ricerca, in un anelito alla salute. Quando invece Emma rivolge lo sguardo dietro di sé, trova un passato che non è rimasto passivamente fermo. I ricordi non tornano come gli oggetti fatti uscire da una cantina in cui vengono ritrovati e spolverati per essere reinseriti nel flusso della vita, come se il lasso dell’oblio fosse stato un tempo morto che non li ha toccati. È un passato, quello di Emma, dove la memoria ha continuato a vivere con la sua potenza metamorfica, e continua a vivere e a far vivere i ricordi, ed è per questo un passato che fa un “balzo dalla follia all’arte”. Il libro di Emma infatti non espone l’indagine della memoria, una ricerca finalizzata a una sorta di disegno autobiografico, ma presenta l’arte della memoria, con il suo immenso potere di trasfigurazione. Il riferimento all’arte è centrale per Emma, in particolare a Louise Bourgeois, la scultrice che con The destruction of the father e con i suoi ragni giganteschi ritraccia le coordinate di un Edipo deragliante, e con le sue Cells crea gabbie che ricostruiscono la libertà. In Louise Bourgeois Emma si specchia, vedendo in lei chi ha saputo trovare nell’arte la via della salute, ammirando in lei chi con le sue sculture tessili ha preso l’arte come via per ricucire frammenti di vita, facendo della vita una storia in grado di dare alla vita uno sfondo, e di contenerla al di là della dispersione, al di là dello smarrimento di un presente che lo sgretolarsi della memoria non permette più di tenere insieme. Potremmo pensare che Emma scriva per ricordare, e di solito la scrittura è questo: un surrogato della memoria, un aiuto, una possibilità di tornare sulla traccia che abbiamo lasciato, la speranza che alcuni frammenti significativi della vita non vadano perduti, che ci si possa tornare e che possano di nuovo splendere. Non è così per Emma, che ci mostra un altro valore della parola, un valore di testimonianza sottratta alla durata, magnificamente espressa in una riga particolarmente intensa del libro: “Scrivo per dimenticare solo dopo aver detto”.
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