Relazione d'apertura del Convegno Dalla parte dell'inconscio, tenutosi a Torino il 5 e 6 giugno 2010 di Marco Focchi Vorrei cominciare considerando la posta in gioco politica di questo Convegno, che nel titolo chiede esplicitamente una presa di partito per l’inconscio, invita a schierarsi, sollecita ciascuno di noi a pronunciarsi per dire se è dalla parte dell’inconscio oppure no. Potrebbe sembrare una domanda retorica, con una risposta scontata. Se siamo qui come psicoanalisti, in fondo, è proprio perché riteniamo che l’esperienza dell’inconscio non si possa accantonare, è perché consideriamo che tutti coloro che esercitano la psicoanalisi hanno fatto questa esperienza e si adoperano a renderla possibile per i loro pazienti. Il problema è però: si tratta di un’esperienza che abbiamo fatto, e che è conclusa, o si tratta di qualcosa che ancora ci traversa, che continua a interrogarci, che rimane aperta? Lacan ci ha formato all’idea che l’inconscio abbia dei tempi di apertura e di chiusura, dei momenti in cui si manifesta e altri in cui si occulta, e che non si rivela mai una volta per tutte. A Freud piaceva scherzare sull’idea una lapide che ricordasse ai posteri come nella notte del 24 luglio 1895 la verità dell’inconscio si era manifestata in un sogno. Ma nessuno meglio di lui sapeva quanto costi inseguire il lampo fuggevole dell’inconscio, quali forze contrarie occorra superare: aveva imparato, e lo ha scritto, perché anche noi potessimo tenerne conto, che la partita non è mai vinta in modo definitivo.
L’inconscio non è il sacco delle cose dimenticate, il solaio dove sono accantonati i balocchi dell’infanzia, che si recuperano e si rispolverano per versarci sopra il nettare dolceamaro della nostalgia. È piuttosto un battito temporale, una pulsazione a cui prestare sottilmente attenzione, brevi attimi che costellano e interrompono il flusso della quotidianità, delle cose da fare, delle costanti occupazioni che ci distolgono da noi stessi. Freud aveva il gusto delle metafore archeologiche, che fanno pensare a un lavoro di scavo, di disseppellimento dei resti. Ma i reperti che ne vengono fuori non sono reliquie del passato, sono resti attivi, fecondi, che non sono destinati a finire nella bacheca di un museo. Tutta la nostra battaglia degli ultimi anni è andata nella direzione di contrastare una concezione museale della psicoanalisi. Se è stato così, se abbiamo avuto bisogno di questa battaglia, è perché questa concezione esiste. Prendiamo l’immagine dello psicoterapeuta che ha fatto la propria esperienza di analisi e magari, nel corso di questa, con diligenza, ha scritto i sogni annotandoli su un quaderno. Considera poi terminata la sua formazione e i suoi sogni restano lì, ordinati come in un erbario, sulle pagine a quadretti dove li ha trascritti. Da dove trae la propria autorità clinica questo psicoterapeuta? Dal piccolo museo che è il suo quaderno. La trae dal passato, un passato perfetto, che si è concluso producendo uno specialista di sogni e di lapsus, uno specialista coscienzioso che senz’altro si aggiornerà andando ai Congressi e leggendo le pubblicazioni di settore, e che potrà convincersi di vivere, se non nella fine della storia, almeno nella conclusione della dialettica conflittuale dell’inconscio. Non faticate certo a riconoscere che questo modello di formazione non coincide con quello da noi promosso, che è piuttosto un modello di formazione permanente, di confronto con l’inconscio, in cui lo psicoanalista e lo psicoanalizzante – questo è stato il tema delle giornate di Parigi lo scorso autunno – stanno dalla stessa parte rispetto all’inconscio: nessuno ha chiuso la propria partita con l’inconscio, e nessuno l’ha messo in un museo. Una prima discriminante politica passa per come si fa formazione, e la Scuola di Lacan non è un corso in cui si formano gli specialisti dell’inconscio. Se una Scuola si misura con il sapere, la nostra Scuola non mette il sapere nel posto della parvenza, per noi occupato dall’oggetto, lascia spazio a S barrato, e produce un inconscio che non è semplicemente un luogo della memoria. Vorrei sottolineare che il tema della formazione ha in sé un carattere eminentemente politico, è anzi il tema del primo grande testo di filosofia politica del pensiero occidentale: l’Apologia di Socrate. L’impegno di Socrate, nelle sue argomentazioni difensive, prende Anito e Meleto, i suoi accusatori, per quello che sono: i portavoce di un umore diffuso, gli ambasciatori di una classe intellettuale ateniese che sente minacciata la propria posizione. Il rappresentante più in vista di questo gruppo sociale è Aristofane, il poeta, che dipinge Socrate intento a occuparsi di cose che stanno per aria mentre insegna a rendere forti gli argomenti deboli. La posta in gioco politica del processo a Socrate infatti è stabilire chi abbia legittimamente diritto di formare i cittadini ateniesi: i poeti o i filosofi? Il giovane di Atene deve passare per la paideia consacrata dalla tradizione, dove la fonte d’autorità è l’ispirazione di un dio, alle cui parole il poeta attinge senza sapere, sul modello “Cantami o Diva...”, o deve entrare nella palestra argomentativa del filosofo, dove la sola autorità è quella della dimostrazione? La figura del re-filosofo, nella Repubblica, è la risposta al quesito posto nell’Apologia, e insieme all’incoronazione del re-filosofo c’è la cacciata dalla città di poeti, musici, cantastorie, forgiatori di miti, e per riportarci al nostro tempo, possiamo aggiungere registi, cineasti, produttori televisivi, realizzatori di serial, direttori di telegiornali, guasconi, venditori d’ottimismo a buon mercato, narratologi, attori, conduttori di talk show e illusionisti in genere. Socrate caccia dalla città la società dello spettacolo nel suo rutilante insieme – quella società che governa con il suo corteo di prestigiatori, nani, ballerine e pupattole – per far posto all’intransigenza del logos. Naturalmente anche la città platonica è un’illusione, con la sua severità spartana, con la messa in comune dei figli, con la nobile menzogna funzionale alla legittimazione del potere, e sono tutte le parvenze del potere costituito che l’esperienza psicoanalitica, esperienza senza precedenti nella storia, vanifica senza riserve. Dietro la preoccupazione di tutela della salute dei cittadini, che i governi europei hanno espresso quando si sono dedicati a studiare le diverse regolamentazioni delle psicoterapie – tema con il quale ci siamo confrontati in questi anni – ricompare infatti il problema della formazione come posta in gioco di un controllo sociale. Non si tratta più di chi deve formare la gioventù, questione di come usare lo strumento pedagogico, si tratta di come si devono formare gli psicoterapeuti, e il problema è quello di un ulteriore passo nella via della medicalizzazione, che si estende dal governo del corpo al governo dell’interiorità più intima. La minaccia, quindi, è ancora più seria, è di natura orwelliana. Le analisi di Foucault mostrano infatti come i medici, con la normalizzazione dell’insegnamento della medicina iniziato in Germania, siano stati trasformati nell’avamposto di un progetto di amministrazione della salute, inglobando il corpo in un piano di controllo attraverso progressive estensioni dei domini di competenza medica. È il momento ora degli psicoterapeuti. Negli anni Quaranta il piano Beveridge, in Gran Bretagna, ha inventato il diritto alla salute, diritto che si è trasformato man mano in un dovere, prendendo possesso delle coscienze e della vita dei cittadini, dall’igienismo, all’ossessione del fitness, alle attuali restrizioni repressive contro gli obesi. Oggi il piano contro la depressione, animato dall’economista psicologizzante Richard Layard, fondandosi sulle basi dell’utilitarismo classico, si prefigge di offrire la felicità al maggior numero di cittadini possibile, e arruola le psicoterapie cognitivo-comportamentali come provati strumenti, evidence-based, per costituire un drappello di diecimila psicoterapeuti da destinare a una titanica battaglia contro quelle che sono state individuate come le maggiori responsabili dell’infelicità, depressione e disturbi d’ansia, e sferrare un lotta analoga forse solo a quella che Christian Jensen poté realizzare contro il vaiolo. È chiaro il rischio che la psicoanalisi corre oggi se modula il proprio intervento sintonizzandolo semplicemente sulla ricerca dell’effetto terapeutico: essere arruolata nell’esercito che milita per il diritto-dovere alla salute, far parte del battaglione d’assalto che considera la lotta contro il disagio della civiltà, aderire al grande progetto di creazione di una scienza della salute, ovvero di una salute che vada bene per tutti. Se il tema della salute s’ingrana nell’universalismo della scienza e del diritto, se la felicità diventa la parola d’ordine di un piano governativo, se il pensiero positivo diventa il mantra incantatorio che stigmatizza la morale pessimista, l’ultimo ricorso per i non drogati dall’ottimismo di mercato sembra essere allora l’arte come la intendeva Adorno, un’arte che non è fatta per appagare, ma piuttosto per far sentire il pungolo dell’infelicità, il Wozzeck di Alban Berg per esempio, un’arte destinata a mettere a disagio, a svegliare, a far emergere le disarmonie come leva per scardinare le potenze del conformismo. Di fronte agli imperativi totalizzanti dell’ottimismo acritico la scelta di una moderata scontentezza, o di un temperato malumore, possono apparire persino preferibili, se non più salutari, che non una ricerca della salute standard a tutti i costi. La psicoanalisi non vuole curare a tutti i costi, Freud metteva in guardia dal fanatismo terapeutico. Sul fondo della nostra clinica c’è una scelta: la psicoanalisi è un’esperienza che rende liberi. Per il soggetto sganciarsi dai significanti identificativi che hanno condizionato la sua esistenza è un modo di svincolarsi dalle determinazioni inconsce che hanno costituito per lui un binario obbligato. Questo distacco dall’inconscio come discorso del padrone è indicato nel nostro lessico dal termine separazione, segnale del momento in cui il desiderio entra in gioco prevalendo sull’alienazione significante. In un certo senso la scansione della separazione è un tempo di sganciamento dall’inconscio e dalla sua struttura linguistica. Questo non va allora nel senso di mettere da parte l’inconscio come ciò dai cui labirinti condizionanti ci si è affrancati? Lo sarebbe se l’inconscio fosse solo fatto di significanti. E ancora lo sarebbe se l’analisi fosse un’operazione che termina quando sono fatte vacillare le parvenze, nel momento tragico, durante il banchetto di Baldassarre, siglato dall’apparizione del dito che indica le lettere sul muro con la condanna dei giorni contati per il re sacrilego. Sappiamo però che smascherare le parvenze nell’esperienza psicoanalitica non significa prendere la via cinica di staccarsene, né quella sediziosa di denunciarle e di abbatterle. Si possono assumere senza bisogno dell’aura che faceva credere a una trascendenza, a qualcosa al di là. Il contraltare dell’episodio di Baldassarre è la fiaba di Andersen: il re è nudo, si può ridere, ma questo non vuol dire dar corso all’anarchia. Che la psicoanalisi faccia cadere i baldacchini del potere costituito non vuol dire che prenda la china nichilista del rifiuto di ogni forma di potere. La decostruzione del potere costituito sprigiona l’energia di quel monstrum che mette in imbarazzo la teoria del diritto – abituata a ragionare in termini di legittimante-legittimato – quel monstrum che è il potere costituente. Lo stesso enunciato provocatorio di Lacan, che l’analista si autorizza soltanto da sé, è un modo di far appello a questa fonte non formalizzabile di ogni Costituzione. La destabilizzazione delle parvenze condotta dalla psicoanalisi non è semplicemente un’operazione iconoclasta. Non demolisce infatti la parvenza ma – suggerisce Lacan – la rende talmente spudorata da intimidire ogni tentativo di circoscriverla in qualche forma. Quando Lacan dice che l’atto non sopporta la parvenza è perché va alla radice dell’operazione psicoanalitica, che non passa attraverso la legittimazione dello stendardo, emblema di un potere cristallizzato, ma attraverso ciò che lo buca, attingendo alla fonte liquida del potere della cura, al momento genetico, o rigenerativo, che plasma il linguaggio, i significanti, le immagini, le parvenze, deponendole dal senso in cui sono istituite, per farle entrare nel gioco temerario e sfacciato della creazione. Credo che in questo senso sia interessante riprendere un’opposizione concettuale che Lacan formula negli anni Cinquanta, ma che alla luce di quanto detto si rivela essere di una sgargiante attualità. Mi riferisco al binario tra soggetto costituente e soggetto costituito, che Lacan articola in Varianti della cura tipo. Questo binario, a suo tempo, serviva a Lacan per criticare la tendenza a oggettivare l’io presente nell’ego-psychology, tendenza che induce a pensare che l’io è un oggetto osservabile, al pari di tutti gli altri oggetti di cui si occupa la scienza. La psicoanalisi dunque, in questa prospettiva, sarebbe una scienza come tutte le altre, con il proprio specifico oggetto d’osservazione e d’intervento. Il correlato di questa posizione è la definizione dell’analista come osservatore, analoga a quella dello scienziato, che raccoglie dati empirici per formulare una spiegazione, una legge, e questa legge viene poi applicata nella pratica per trasformare la natura. L’interpretazione diventa cosi nell’ego-psychology spiegazione, e l’effetto atteso è quello di un insight grazie a cui, per dirlo con il titolo ironico di Jonathan Safran Foer, “ogni cosa è illuminata”. L’io dell’ego-psychology è per eccellenza il soggetto costituito, irrigidito nella propria oggettività, correlato di un osservatore neutrale, a lui esterno, disempatizzato, che scruta, come al microscopio, nel suo gelido camice bianco, le variegate alchimie tra l’Io l’Es e il Superio. Potrà sembrare che tale tipo di pratica appartenga al passato, e in effetti lo stallo clinico in cui era caduta l’ego-psychology, ha fatto fiorire altri orientamenti, nuove vie da esplorare rispetto ai vicoli ciechi in cui si era cacciata, dall’empatia di Kohut all’intersoggettività democratica californiana. In realtà questa posizione oggettivante è ancora presente in tutti gli orientamenti psicoterapeutici più attuali, cognitivo-comportamentali, che mimano nel loro approccio la procedura scientifica e quindi ottengono i maggiori punteggi in quell’oceano di falsa scienza che sono gli studi sull’efficacia. L’oggettivazione del paziente ha il correlato di un terapeuta che possiamo definire come un soggetto costituito, padrone di sé e della propria tecnica, consapevole della propria identità e degli obiettivi che vuole raggiungere, determinato ad avere successo. Al terapeuta soggetto costituito, incentrato sulle insegne della propria identità, noi contrapporremo lo psicoanalista che procede da quella che Lacan chiama, ne La direzione della cura, la struttura costituente del desiderio, che non parte dall’affermazione di insegne identitarie, né dà luogo a una pratica evidence-based garantita da formule scientifiche. Cosa dobbiamo intendere allora per struttura costituente del desiderio? Dove sono le nostre formule se non sono quelle della scienza? Questa struttura si è rivelata originariamente per noi nel sogno, il cui desiderio non è assunto dal soggetto che parlando dice “io”. Il primo sogno in cui questa struttura si è fatta luce è quello famoso dell’iniezione di Irma, ed è un sogno di Freud, il primo psicoanalista-psicoanalizzante, il primo, non tanto ad avere scoperto l’inconscio, ma a essersi messo dalla parte dell’inconscio. Lacan nel secondo seminario fa un’analisi memorabile di questo sogno, che ne traversa le opacità immaginarie – il trio di clown dei colleghi di Freud: Otto, Leopold e il misterioso dott. M; il trio mistico delle donne: Irma, la sua amica e la moglie di Freud – per andare al cuore di una formula che sigla in ultima istanza il desiderio inconscio nella famosa formula della trimetilamina, che Freud visualizza e che Lacan trascrive. Questa formula, che sorge al di là del frastuono della parole, degli scambi di accuse e delle ciarle presenti nel teatrino immaginario del sogno, questa formula non ha nessun senso, non è metafora di nulla, è pura lettera, è puro contorno di un buco, è l’ultimo limite oltre il quale non c’è nulla. È la formula, la lettera, il segno che appare quando cadono le parvenze. La struttura costituente del desiderio è questa formula insensata, nitido litorale che affiora al ritrarsi della mareggiata di parole, di spiegazioni, di identificazioni, di inganni, di lusinghe, di fughe e di ritorni. Noi dobbiamo essere in grado di portarci su questo litorale, saper trovare in esso la risorsa della nostra pratica, nel punto di assoluta singolarità che segna e che fa si che un analista non sia uguale a un altro, il che vuol dire anche che fare un’esperienza d’analisi con un analista è diverso da farla con un altro. Non è né meglio né peggio, non è una graduatoria, è solo diverso, perché tenersi al momento costituente del desiderio rende inutili le scale della quantificazione, perché reintroduce l’impalpabile ricchezza del fattore qualitativo, quell’ésprit de finesse su cui Miller ha incentrato il suo seminario l’anno scorso, e che costituisce il nostro inestimabile antidoto alla macina tecnologica del mondo contemporaneo.
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