Conferenza tenuta presso l'Istituto freudiano a Milano, il 16 giugno 2012. di Marco Focchi Nel caso di Anna O. Freud aveva definito l'esito ottenuto come una guarigione con un difetto, riferendosi a un aspetto non risolto nella cura che non riguardava il problema di una remissione parziale dei sintomi. Si riferiva, come sappiamo, al residuo di traslazione non elaborato con Breuer che, a suo parere, si era sottratto nel momento in cui Anna aveva manifestato con maggiore chiarezza la sua propensione per lui. Possiamo considerare, per contrasto, che questa definizione implichi l’idea di una guarigione conseguita eliminando, sradicando i problemi sintomatici, e arrivando a un compimento che abbia un carattere risolutivo, definitivo, senza resti. È tuttavia proprio questa la concezione della guarigione che Freud aveva per quanto riguarda la psicoanalisi? Quando si parla correntemente della salute di una persona, il termine che viene da accostarvi è quello di “stato”. Si parla dello stato di salute di una persona, oppure ci si riferisce al fatto che versi in uno stato di malattia. In psicoanalisi constatiamo che le cose stanno in un modo diverso: la guarigione è un processo dinamico, ha un andamento attivo, non è uno stato, una situazione che si raggiunge e nella quale permanere. Questo è uno degli indici che mostrano come in psicoanalisi lavoriamo con concetti di guarigione è di malattia diversi che nella medicina, e per i quali occorre una riflessione a parte. Non troviamo in Freud considerazione esplicita che vada in questa direzione. Non bisogna dimenticare infatti che Freud era medico, e che, dal punto di vista della disciplina da cui partiva, non c’è nessun bisogno di un ragionamento supplementare sui concetti di malattia e di guarigione. Per la medicina si tratta di concetti assodati e Freud, nel suo primo momento di riflessione, non li mette affatto in discussione. Il problema per lui è piuttosto ridefinire le operazioni con cui ottenere una guarigione che dà per acquisito cosa sia. Come tutti i grandi pensatori però, Freud trova più cose di quanto ne possa dire, o dice più cose di quanto ne possa esplicitamente esporre. Se oggi quindi nella psicoanalisi lavoriamo con un concetto di guarigione diverso da quello medico, le premesse ne sono già presenti nel testo di Freud, anche se non in modo esplicito. Ciò in cui Freud si addentra consapevolmente, è la causalità di origine non organica dei sintomi. Freud non inventa la nozione di psicogenesi, perché questa era già presente, in una sua particolare forma, in Franz Anton Mesmer, l'inventore moderno dell'ipnosi. Mesmer considerava esistesse in tutto l’universo un particolare fluido. Quando oggi parliamo di fluido magnetico e ipnotico siamo lessicalmente debitori della teoria di Mesmer, anche se non occorre che ci crediamo. La malattia, i disturbi mentali, derivano, secondo Mesmer, da squilibri nella distribuzione del fluido, sia che fosse scarso o mal distribuito o debole. La psicogenesi fu però messa a tema anche dagli psichiatri dell’Ottocento che consideravano, a partire al modello dell’ipnosi, non il fluido, ma il fatto che alcuni gruppi di idee indotti nel paziente durante il sonno ipnotico venissero a compiersi, a trasformarsi in azione, si materializzassero nella realtà in forma di suggestione post-ipnotica. Veniva dunque naturale considerare che alcuni sintomi fossero provocati da gruppi di idee entrati nella mente in qualche modo analogo alla suggestione. Freud entra in scena quando nella medicina si sta preparando questo terreno di riflessione: nella terapia di Anna O. infatti, e negli Studi sull'isteria in genere si trattava di sradicare, attraverso l’ipnosi, le idee alla base dei sintomi, le idee rimosse che si consideravano essere la causa dei sintomi. Psicogenesi vuol dire quindi un’etiologia che riconosce le cause di un disturbo in una componente ideativa in conflitto con altre componenti analoghe, anziché cercarle in una situazione organica definita. Vale la pena di dire qualche parola su questo problema della psicogenesi, oggi considerato come una realtà assodata, ma di cui al tempo stesso è opaco il concetto. Occorre innanzi tutto notare che se per il primo Freud la causa del sintomo sta in un significato nascosto, rimosso, per Lacan si produce un rovesciamento di questo punto di vista: la causa non è nel senso o nel significato, ma nel significante, che Lacan prende nella sua pura materialità. L’origine dei sintomi è negli intrecci, nei nodi, nei grovigli di significanti, non nel loro senso. La sua posizione è anzi che il significante sia la causa del senso, che ci sia una priorità logica del significante rispetto al significato. Da questo punto di vista non possiamo neppure parlare di una causalità psichica, ma piuttosto di una causalità significante. Dobbiamo notare tuttavia che anche l’idea di una causalità significante viene al seguito e come trasformazione dell’ideodinamismo della psichiatria ottocentesca. Ideodinamismo è peraltro un termine introdotto da Hippolyte Bernheim, uno dei grandi ispiratori di Freud. La nozione di causa andrebbe comunque ripensata tenendo conto delle peculiarità dell'epistemologia psicoanalitica, lavoro che ho svolto al corso di quest’anno dell'Istituto, e che non riprendo qui. Senza ricollegarmi a questo sviluppo, prenderei tuttavia un riferimento in quel che dice Freud in uno dei suoi ultimi scritti Il compendio, dove afferma che la causa ultima dell’accadere psichico, e di conseguenza anche nel sintomo, sono le pulsioni. Tra l’affermazione iniziale, nel caso di Anna O, che la causa del sintomo è un senso rimosso, e questa finale, che attribuisce dal sintomo una causa pulsionale, c’è tutta la parabola della riflessione freudiana, il passaggio dalla prima alla seconda topica, l’integrazione nel sistema di pensiero freudiano della pulsione di morte con le sue inevitabili conseguenze che essa porta sul piano clinico . Nella Metapsicologia Freud definisce la pulsioni come i nostri miti – e in un progetto scientista, in una prospettiva dove la psicoanalisi deve essere formulata come una disciplina scientifica – il concetto di pulsione risulta fortemente disturbante, ed è difficile assegnarle un posto. Non esiste un ente positivamente riconoscibile come pulsione, un ente osservabile, che possa costituire un dato da cui partire, su cui basare deduzioni e da cui trarre conseguenze teoriche. Se la psicoanalisi deve essere una scienza, la pulsione è fonte di grande imbarazzo, e non a caso la maggior parte dei contemporanei di Freud, tranne Melanie Klein, hanno rifiutato la nozione di pulsione di morte. Al di là del nome drammatizzato di questo concetto – che implica un movimento regressivo verso l’al di qua della vita, che si riferisce a un desiderio profondo, il più profondo di tutti, di una quiete assoluta, di una risoluzione della quantità di tensione vitale indotta dalla vita stessa – e al di là della nozione stessa, fatta propria da Freud, che l’organismo muore per cause interne e non per semplice degradazione o logoramento, che muore per una spinta a risolvere l’inquietudine della vita annullandola – al di là di tutto questo la pulsione di morte rappresenta l’esteriorità radicale, il fuori. Cosa significa il fuori in questo caso? Non significa ciò che è spazialmente esterno – perché la pulsione non è un concetto spaziale, non è un concetto estensivo, non è relativo alla res extensa. La definizione non spaziale della pulsione naturalmente costituisce una difficoltà per quanto riguarda la sua integrazione nel discorso scientifico, giacché esso può includere soltanto concetti spaziali, concetti fermi, tagli immobili che sia possibile calcolare. Cosa significa allora, in questo caso, fuori? Significa fuori dal senso e fuori dalla rappresentazione. La pulsione di morte, per dirlo con le parole di Heidegger, è l’impensabile che ci dà da pensare. La scienza, nella propria costituzione epistemologica, non ha posto per l'impensabile. La scienza si occupa di operazioni concrete, operazioni matematiche che nelle loro applicazioni tecnologiche producono una ricaduta di oggetti che tendono a facilitarci la vita. Il fatto è che la vita non è fatta solo di quel che ci serve e che usiamo, e una clinica che non tenga conto di quel che mette in moto i nostri dispositivi di pensiero, ma solo dei risultati, è una clinica – così almeno è apparso a Freud nel corso della sua ricerca – destinata allo scacco. L’inclusione della nozione di pulsione trasforma dunque completamente l’orientamento della clinica freudiana, e questo si vede in particolare a partire dalla nozione di sintomo. Consideriamo bene le due diverse direzioni che si delineano: la prima, nella prospettiva di una clinica modello di Anna O., la causa del sintomo è interna al pensiero, è psicologica. Se la causa del sintomo è il senso rimosso, restiamo all’ambito della nozione di una causalità psichica, ci fondiamo sul concetto di psicogenesi, riferendoci a una causa interna alla psiche. Vediamo i diversi casi. Se nella prospettiva della psichiatria contemporanea ci basiamo su una causalità organica, la causa è integralmente estensiva, individuata sul piano spaziale, quindi calcolabile e riconducibile ai concetti scientifici. Con la nozione di psicogenesi le cose non cambiano molto: proiettiamo la spazialità nel senso, proiettiamo all'interno quel che prima era rappresentato all’esterno. Questo si vede giò nell’ideodinamismo della psichiatria ottocentesca, che è in effetti una trasposizione interiorizzata della concatenazione causale empirica sul piano spaziale. Se prendiamo invece la seconda direzione, non possiamo dire che la pulsione come causa ultima appartenga all’organogenesi, perché la pulsione non si riduce a un concetto biologico, ma non possiamo neppure dire che sia pertinente alla psicogenesi, perché la pulsione è fuori dal senso e dalla rappresentazione. A partire quindi dall’inclusione della nozione di pulsione, la clinica psicoanalitica si trasforma completamente e mostra il proprio carattere più specifico, la sua peculiarità irriducibile, perché includendo la pulsione diventa una clinica che fa posto al tempo. Non si tratta più di proiezioni spaziali della causa, e giacché a essere fuori dal senso è il tempo, la pulsione esprime, in ultima istanza, la voragine del tempo in cui siamo caduti nascendo. Questo diverso angolo di lettura della causalità trasforma completamente anche la concezione del sintomo in Freud, e Inibizione, sintomo, angoscia è il testo dove questa riformulazione appare in modo più marcato. A Freud, nel testo, preme innanzi tutto distinguere l’inibizione dal sintomo. L’inibizione è un modo di limitare la pulsione. Freud elenca un certo numero di funzioni che possono incorrere in questa limitazione: la funzione sessuale, quella nutritiva, la possibilità di azione, quella di lavorare. La tesi di Freud è semplice e chiara: quando una funzione qualunque viene sovrainvestita libidicamente, quando la sua esecuzione assume un significato sensuale, la funzione viene limitata. Cosa significa? In fondo il fatto stesso che si possa trarre piacere dallo svolgimento di una funzione è indice del suo carattere erotizzato. Cosa interviene allora perché a un certo punto sia necessario bloccarla? L’inibizione ha una funzione di limitazione, e se deve intervenire è perché l’investimento libidico della funzione interessata ha varcato certi limiti, che identifichiamo come i limiti posti dal principio del piacere. Al di là del principio del piacere – e qui sentiamo la dimensione pulsionale entrare in gioco come pulsione di morte – si incontra un eccesso, l’erotizzazione della funzione non dà piacere ma diventa angosciante. Freud mette bene in luce la correlazione tra inibizione e angoscia, e la limitazione imposta dall’inibizione è un punto d’arresto posto prima che l’angoscia possa manifestarsi. Da questo punto di vista inibizione e sintomo stanno dalla stessa parte. Anche il sintomo frena, ostacola, delimita un moto pulsionale che ha varcato i limiti del principio di piacere. Qual è però la differenza? Mentre l’inibizione semplicemente limita, agisce in modo lineare, il sintomo agisce su due piani: da una parte ostacola del moto pulsionale, dall’altra permette al soggetto di conseguire una forma di soddisfacimento in modo differito, trasformato, mascherato, collaterale. Questo diverso rapporto con il soddisfacimento che il sintomo presenta viene particolarmente in luce con la differenza tra isteria e nevrosi ossessiva. La prima concezione del sintomo si è formata a partire dall’esperienza clinica dell’isteria, dove è più evidente l’insoddisfazione, la rinuncia forzata all'appagamento, la rivendicazione. La forza critica che l’isteria sa mostrare, e che affiora a volte nella storia del pensiero, il suo grande dinamismo, viene dall'insoddisfazione che spinge l’isterico a mettere in discussione tutto e tutti, a cercare un responsabile della sua insoddisfazione, e questa ricerca assume la forma di una ricerca della verità. L’isterico cerca la verità perché sa di essere preso in un gioco di inganni, perché non crede nella buona fede dell’Altro. La concezione di un sintomo-verità, di una terapia che raggiunge il proprio obiettivo svelando una verità, recuperando un senso rimosso, è strettamente correlata all’esperienza clinica dell’isteria. Nella nevrosi ossessiva il sintomo si manifesta in un tutt’altro modo. La nevrosi ossessiva non è un quadro dove si manifesta l’insoddisfazione, ma dove piuttosto si esprime un eccesso rispetto alla soddisfazione, un eccesso ingombrante, che diventa imbarazzante e che l’ossessivo non dimentica, non rimuove. In Inibizione, sintomo, angoscia Freud nota chiaramente che c'è un primo momento in cui l’io e il sintomo si trovano in conflitto, l’io sente l’invasione del sintomo, lo sente estraneo e cerca di opporvisi. C'è poi un secondo momento in cui l’io è indotto a cercare una composizione con il sintomo, una via di riconciliazione. L’io – dice Freud – si comporta come se considerasse che il sintomo non può più essere eliminato e occorresse familiarizzarsi con la sua presenza traendone tutto il vantaggio possibile. Si tratta insomma di sfruttare il tornaconto secondario che il sintomo può offrire, cercando di adattarsi a quel che di estraneo esso introduce nell’io. Questo tipo di organizzazione appare con chiarezza nella nevrosi ossessiva, ma a ben guardare è presente anche nell’isteria. Nello stesso modo in cui l’isteria rende riconoscibile l’insoddisfazione di fondo nel rapporto del soggetto con il desiderio, la nevrosi ossessiva rende visibile la forma di soddisfacimento pulsionale che il sintomo consente, mostra il recupero di godimento che esso realizza per il soggetto. Se nella prima prospettiva, quella manifestatasi con Anna O, il sintomo appariva come un supplente, facendo le veci di un ricordo rimosso, ora, in Inibizione, sintomo, angoscia non appare più come un surrogato che può essere eliminato facendo ritrovare in carica ciò a cui si sostituisce. Il sintomo manifesta qui piuttosto una funzione primaria, perché attraverso di esso il soggetto attinge un godimento che non può raggiungere per nessun altra via. Il sintomo, visto in questa luce, non può neppure essere eliminato perché il soggetto, arrivato a un certo punto, non vuole farlo: il soddisfacimento si fa sentire in modo tale da prevalere contro il disturbo. È chiaro quindi che non solo cambia completamente la prospettiva terapeutica, ma mutano anche le operazioni stesse da mettere in atto per quanto riguarda la conduzione della cura. In questo saggio del 1925 Freud riprende un vecchio concetto, formulato agli inizi delle sue ricerche e poi abbandonato a favore della rimozione. Si tratta del concetto di difesa, introdotto nello scritto Le neuropsicosi da difesa del 1894. Il punto interessante qui è che Freud non considera più il concetto completamente adeguato di rimozione e togliere la rimozione non è sufficiente per definire la clinica come era stato nel caso di Anna O. Con Inibizione, sintomo angoscia si verifica un vero e proprio riorientamento della clinica a partire dalla definizione del sintomo in rapporto alla pulsione. Per il sintomo-verità era adeguato il concetto di rimozione, e l’impostazione dell’operazione clinica si fondava sull’idea di recuperare il senso rimosso. Con Inibizione, sintomo angoscia non abbiamo più un sintomo-verità, ma un sintomo-pulsione, che appare subito a Freud non riducibile a operazione di senso. Non lo è perché nel sintomo si manifesta piuttosto un controsenso. Freud lo nota quando parla dei sintomi bifasici, o piuttosto del carattere essenzialmente bifasico del sintomo: il sintomo realizza al tempo stesso la proibizione e il soddisfacimento, ha cioè originariamente la funzione di allontanare una tendenza in contrasto con l’io, e la rimozione svolge questo compito nel modo più semplice, allontanando le rappresentazione collegata a questa tendenza. Nella misura in cui però il soggetto trova un adattamento al sintomo, questo complessifica la propria funzione e viene a svolgere una finalità di soddisfacimento e utilizzando – dice Freud – vie di collegamento quanto mai artificiose. Il carattere bifasico del sintomo, che Freud descrive come il suo tratto di fondo, come il suo tratto essenziale, è l’intrinseco controsenso del sintomo. Non possiamo pensare di restituire un senso originario per renderlo inutile, perché annulleremmo anche il senso contrario, a cui il soggetto non vorrebbe più rinunciare. Questo mette completamente in stallo la clinica pensata come operazione semantica. La prospettiva non può più essere di ridurre, di eliminare il sintomo, perché eliminando il sintomo, elimineremmo anche la forma di soddisfacimento che esso trae con sé, e questo costituisce la grande complessità dell’operazione psicoanalitica. Freud allora apre a questo proposito la prospettiva dei meccanismi di difesa. Ne menziona due in particolare che appartengono alla nevrosi ossessiva: quello dell’isolamento e quello del rendere non avvenuto. Nel primo caso si tratta di impedire l’interazione degli elementi pulsionali con le altre funzioni e componenti delle strutture soggettive. Nel secondo si tratta di fare come se nulla fosse, di ignorare, di non ratificare quel che è avvenuto sul piano pulsionale, di fare finta di niente, come se avessimo un ospite sgradito a cui non possiamo impedire di entrare in casa nostra insieme agli altri ospiti, e semplicemente ne ignoriamo la presenza, facciamo come non esistesse. Lui c’è, può parlare con tutti gli altri ospiti se vuole, e alla peggio può anche rompere una suppellettile a cui teniamo molto, un prezioso vaso Ming. Può quindi disturbare e dare molto fastidio, ma noi, come padroni di casa, non daremo nessuna ufficialità alla sua presenza. Cosa diventa allora l’operazione psicoanalitica quando passiamo dalla concezione sintomo-verità a quella sintomo-pulsione? Con la rimozione si trattava di recuperare il senso, con il sintomo-pulsione – suggerisce Miller – si tratta di interferire con la difesa, o disturbare la difesa. Miller ha ripreso il termine di difesa e lo ha valorizzato, ed è il termine che Freud ripropone, con un senso rinnovato, in Inibizione, sintomo, angoscia. Interferire con la difesa significa puntare al reale. La cura orientata sul senso era una cura incentrata sull’asse immaginario. Interferire con la difesa significa invece far emergere il godimento del soggetto, e mettere allo scoperto il versante per cui il sintomo è un modo di attingere a questo godimento. Non si tratta più di liberarsi dal sintomo, perché si tratta piuttosto di vederne la funzione. Questo implica vedere le cose da un angolo diverso che non quello del consentire o proibire. Si tratta piuttosto di far accadere, cioè rovesciare il processo difensivo che rende non avvenuto . Se cade la necessità di rendere non avvenuto il godimento, il segno sintomatico diventa una via, per artificiosa che sia, di farlo accadere, di attingere a una risorsa che ci eravamo fino a quel momento negati per timore dell’illimitato, e che, nei diversi casi che sempre più oggi vediamo, si manifesta come senso d’invasione, timore di brutte sorprese, panico di fronte all’imponderabile. Le espressioni delle patologie contemporanee, che sempre più vengono trattate con modalità di condizionamento, per l’apparente maggior pragmatismo di cui questo sembra essere dotato, affondano le radici in meccanismi di cui Freud a studiato e esplicitato gli elementi di fondo, e che tocca a noi valorizzare in base alle esigenze e ai mutamenti portati dalla modernità.
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