Conferenza tenuta presso l'Università di Bologna il 30 novembre 2010 di Marco Focchi La premessa migliore da cui partire, per analizzare adeguatamente l’idea di guarigione in un campo diverso dalla medicina come quello psicoanalitico, è vedere come le tematiche incontrate nella clinica psicoanalitica si riconducano spesso a problemi di ordine sociale. Per altro verso le questioni a volte sollevate sullo statuto epistemologico della psicoanalisi si rivelano in fondo essere, nella loro sostanza, questioni politiche. Alcuni studiosi, negli anni scorsi, penso a un epistemologo come Alfred Grünbaum o, più in là nel tempo, a Karl Popper, hanno messo al vaglio il paradigma concettuale della psicoanalisi. Popper lo ha fatto in un modo più interessante di Grünbaum, lo ha fatto a partire dal problema centrale della sua epistemologia, quello della falsificabilità. Grünbaum invece si è fondato su presupposti marcatamente positivisti. Se tuttavia andiamo a guardare il contesto più ampio in cui questi interrogativi epistemologici affondano le radici, vediamo che in ultima istanza essi si articolano con le necessità, legate a orientamenti economici e politici, che tendono a imporre un certo tipo di scelte amministrative. Salta agli occhi infatti la particolare corrispondenza che si è creata tra la razionalità burocratica da un lato, studiata da Max Weber, e un’estensione impropria della scienza,dall’altro, estensione che va sotto il nome di scientismo. Questa è costituita da un dispositivo concettuale che si appropria dei metodi elaborati sul terreno della ricerca scientifica, li trapianta in un campo a essa estraneo, e a cui sono inadatti, ma nel quale impongono l’impero del calcolo, forgiando strumenti di cui si appropria poi, su un altro piano, il personale amministrativo. Ritorno allo stato precedente
Se interroghiamo il problema della guarigione nella psicoanalisi dobbiamo quindi far posto a questo tipo di considerazioni. Per la medicina infatti la guarigione è, con ogni evidenza, un concetto pertinente. È completamente inscritto nel campo teorico e operativo che la definisce. La medicina si forma e cresce intorno all’idea di guarigione, e la guarigione è un concetto che nasce all’interno della medicina. La medicina guarisce da lesioni, da traumi, da ferite, da infiammazioni, guarisce da infermità, da malanni, da problemi che sorgono nel corpo, e rispetto ai quali si può ritornare allo stato precedente all’insorgenza dei sintomi, delle lesioni, dei disturbi. Nella psicoanalisi non si può fare la stessa cosa. Il primo punto quindi che mi sembra importante fissare è che se nella medicina la guarigione si può definire come restitutio ad integrum, il ritorno a uno stato precedente all’insorgere della malattia, nella psicoanalisi non è così, e la guarigione non può avere lo stesso senso. Il sintomo è indice di molte questioni inerenti al soggetto, questioni che vengono messe sul tappeto attraverso l’esperienza psicoanalitica, e si tratta di tenerne conto, si tratta di darvi un certo tipo di elaborazione. Bisogna quindi distinguere, in particolare, il modo in cui la psicoanalisi tratta il sintomo da quello in cui viene trattato in quella branca della medicina, considerata come la più vicina alla psicoanalisi, che è al psichiatria. Psicoanalisi e psichiatria I rapporti tra la psichiatria e la psicoanalisi in realtà, in Italia, dal punto di vista storico, non sono mai stati particolarmente stretti. Alcuni psichiatri, nei primi decenni del XX secolo, si sono interessati alle teorie freudiane man mano che queste venivano rese note. Erano figure come Gustavo Modena, uno psichiatra di Ancona, e forse più significativamente Enrico Morselli, uno psichiatra di Genova, che aveva un posto di spicco nella Società Italiana di Freniatria – allora la psichiatria si chiamava così. Questi psichiatri si erano occupati dei temi che Freud proponeva in quelli anni, i primi del secolo, e questo era stato per un lato un riconoscimento della psicoanalisi, ma per un altro una presa di distanza. Tra psichiatria e psicoanalisi in Italia ci sono stati solo legami piuttosto deboli. Diverso è lo scenario in America. Negli Stati Uniti c’è stato un ampio dibattito su quella che è stata chiamata la psicoanalisi laica, la psicoanalisi condotta dai non medici. Il dibattito è iniziato in realtà in Europa già ai tempi di Freud, che ha difeso lo statuto di psicoanalista non medico. I primi psicoanalisti in America hanno invece considerato necessario per la psicoanalisi acquisire un riconoscimento sociale, avere il prestigio indispensabile per imporsi. Di conseguenza hanno valutato che sarebbe stato meglio se lo psicoanalista si fosse messo al riparo dietro la figura consolidata del medico, attingendo all’ascendente conferito tradizionalmente dall’autorevolezza della medicina. La formazione in psicoanalisi fu quindi inizialmente vincolata al presupposto di una formazione medica. Questo vuol dire che per trattare le nevrosi era necessario acquisire una specializzazione in psichiatria, e uno psicoanalista, nell’America di quegli anni, era uno semplicemente psichiatra con una moderna formazione psicodinamica. È stato poi vero anche il contrario: si è talmente imposto il training psicoanalitico nella psichiatria americana che, a un certo punto, un medico per essere psichiatra, doveva essere anche psicoanalista. Il trattamento psichiatrico, nella vita americana degli anni Quaranta e Cinquanta, gli anni di maggior successo della psicoanalisi nel pubblico, nella cultura, nella filmografia – molti di voi hanno senz’altro visto i film di Hollywood dove la figura dello psichiatra e dello psicoanalista viene a essere uno dei personaggi chiave della vicenda – il trattamento psichiatrico in quegli anni era fondamentalmente un trattamento psicoanalitico. Questo è durato per un po’, fino a circa gli anni Sessanta, fino alle prime edizioni del Manuale Diagnostico della psichiatria, il DSM, che sancivano una sorta di spartizione di aree. Le nevrosi venivano considerate alla luce dei concetti psicoanalitici, e come eziologia della nevrosi veniva di conseguenza accreditata l’idea del conflitto psichico. Per quanto riguarda le psicosi invece tutto veniva inquadrato in una prospettiva di stampo kraepeliniano, improntata cioè alla psichiatria tedesca classica. Era una sorta di compromesso fra i temi tradizionali della psichiatria e i temi nuovi della psicoanalisi. Le cose sono andate avanti più o meno così fino al 1980, quando venne presentata un ulteriore edizione del Manuale Diagnostico, la terza, quella che va sotto la sigla di DSM III. La scena qui cambia completamente: viene eliminata la nozione di conflitto psichico come fattore eziologico della nevrosi, perché considerata troppo generica in una psichiatria che sta prendendo ormai un altro orientamento, cerca una via che la qualifichi rispetto alla prospettiva dominante che la medicina sta prendendo, prospettiva che si sarebbe diventata quella evidence based. Il termine è stato coniato solo nel 1990, ma era gia avviata la tendenza a fondare i trattamenti sulle prove, a cercare criteri di corrispondenza quanto più possibile univoci tra un fattore eziologico e una configurazione sintomatica, attingendo alla catalogazione dei casi, alla statistica, e all’oggettivazione sperimentale. Questo cambiamento di direzione allontana in modo brusco la psichiatria dall’impronta più propriamente analitica. Se leggiamo le recensioni sul DSM III uscite all’epoca nell’International Journal of Psycho-analysis, vediamo gli psicoanalisti osservare che la svolta coincide con un divorzio tra psichiatria e psicoanalisi, e che da quel momento in poi si sarebbe dovuto considerare la psicoanalisi come una disciplina indipendente, a cui è necessario uno statuto giuridico autonomo, che la faccia valere come professione riconosciuta, cosa che poi in effetti è stata perseguita e realizzata. Una terapia non soppressiva del sintomo Vi presento queste vicende perché è anche interessante inquadrare storicamente le cose per capire perché diciamo che nella psicoanalisi parliamo di una terapia non soppressiva del sintomo. Alessandro Russo citava prima questa espressione, che è il sottotitolo del mio libro. Il titolo è Il trucco per guarire. Potrebbe sembrare un titolo malizioso ma, in effetti è piuttosto un titolo che serve a far da contrasto a un’altra idea, all’idea che ci sia non un trucco, ma una ricetta per guarire. Quando andate a farvi visitare il medico, essenzialmente, vi dà delle ricette. Cosa sono le ricette? Sono prescrizioni, che certamente sono fatte per voi, ma sono fatte sulla base di una rete diagnostica comune. Ognuno ha il suo raffreddore, ma il raffreddore viene da un virus, e nei contagi tutti prendono lo stesso virus. Per semplificare possiamo dire che la ricetta ha sullo sfondo l’idea dell’universale: c’è una cura che va più o meno bene per tutti, la si adatta alla peculiarità della persona, uno è più forte, un altro è più debole, il dosaggio può variare, ma il farmaco è quello. Nella psicoanalisi non c’è una ricetta per guarire, perché non abbiamo una base universale analoga a quella che c’è nella medicina. La singolarità del sintomo Possiamo, certo, parlare di diagnosi nella psicoanalisi, possiamo fare diagnosi di psicosi, di nevrosi, ma più che categorie diagnostiche, queste sono grandi categorie concettuali di orientamento. In realtà, quel che noi vediamo sono pazienti, ciascuno dei quali ha un problema singolare. La caratteristica della psicoanalisi è di trattare le singolarità. I sintomi non sono elementi che possiamo repertoriare in un manuale con un valore universale. Direte che ci sono anche manuali di psicoanalisi. Certo, ci sono manuali di psicoanalisi, ma non li potete utilizzare come il prontuario di medicina, non potete utilizzarli per fare una prescrizione a un paziente. Bisogna ascoltare con attenzione il problema particolare del paziente per poter trovare la via che può seguire, e qui il termine “trucco”, vedete, non è il gioco di prestigio, è il termine più indicato per parlare della singolarità. È un termine che viene da una citazione, perché ricorre in una conferenza di Lacan, una delle sue ultime conferenze, negli anni Settanta, quando Lacan ormai ha quasi settantasette, o settantotto anni, e ha passato tutta la vita a occuparsi di psicoanalisi, a vedere pazienti. In questa conferenza dice: mi domando, ci domandiamo, mi domandano, cosa fa sì che durante un’analisi un paziente guarisca, cosa induce la guarigione psicoanalitica e, con una pausa retorica, risponde, in realtà, non lo so. Ho passato tutta la vita a occuparmene ma non ne so niente. Potrebbe sembrare un’asserzione di modestia, se non conoscessimo il personaggio, che è tutto il contrario di un carattere modesto. Poi aggiunge: in realtà quel che funziona nella psicoanalisi è che bisogna sussurrare all’orecchio del paziente qualcosa che, detto nel modo nel modo giusto, porta alla guarigione. È un fatto di esperienza, dice, e questo si collega – e qui mette un termine che fa parte della sua dottrina – al soggetto supposto sapere, cioè quel che lui considera essere il fulcro della traslazione. È perché si gioca bene il soggetto supposto sapere, nel modo giusto e con il tono giusto, usando l’esperienza il tatto dovuto, che si riesce a indurre il paziente alla guarigione. Sembra un’indicazione molto generica, ma in realtà, in bocca di Lacan, con le sue premesse e con le teorie che ha espresso per anni, è invece qualcosa di molto preciso, che dice come dobbiamo andare ad ascoltare qualcosa d’impercettibile nel paziente, qualcosa che l’esperienza ci permette di cogliere per costruire con lui la soluzione che va per lui.Consideriamo quindi la soluzione specifica, ma consideriamo anche un altro aspetto. Quando un paziente viene da uno psicoanalista si è già costruito una soluzione, e questa soluzione si chiama sintomo. È il motivo per cui la psicoanalisi non può essere una terapia semplicemente soppressiva del sintomo. Sopprimere il sintomo, nel caso di un disturbo psicologico, significa anche eliminare la soluzione che il paziente ha trovato. Non ha trovato, evidentemente, la soluzione migliore del mondo, infatti lo fa soffrire, ma dobbiamo considerare che è comunque una soluzione, che il sintomo non è soltanto un disturbo, un intralcio, qualcosa che contrasta la vita, ma è anche una via di uscita che il soggetto ha trovato per gestire conflitti di cui, quando il paziente viene inizialmente da noi, non sappiamo ancora niente. Se lo ascoltiamo però nel dovuto modo, verremo a sapere tutto ciò che è necessario per trovare il filo. Distinguere il sintomo dalla sofferenza Dal punto di vista della psichiatria il sintomo è ciò di cui il paziente soffre. Può corrispondere o no a un segno oggettivo. Il segno oggettivo rimanda a un eziologia, e l’eziologia compone il quadro di una malattia. È quindi evidente che, da questo punto di vista, curare significa sopprimere il sintomo, tacitarlo. Se il sintomo corrisponde alla sofferenza, una terapia ragionevole è quella che elimina la sofferenza e quindi che elimina il sintomo. Quel che però sto tentando di dirvi è che in realtà l’equivalenza sintomo = sofferenza nella psicoanalisi non funziona, o quantomeno non funziona completamente. È vero che il paziente viene perché soffre del proprio sintomo e vuole liberarsene, viene perché il sintomo gli impedisce la vita e lo sente si istaurato in lui, per usare l’espressione di Freud, come “uno Stato nello Stato”. All’interno della circoscrizione dell’io si è infilato qualcosa di estraneo che l’io non riconosce, e il primo impulso del paziente è sfrattarlo. Viene e non domanda altro che di liberarsi dal sintomo. Questo è, per l’appunto, il primo momento, ma dobbiamo stare attenti. A volte, in un’esperienza di analisi, succede che il sintomo scompaia abbastanza rapidamente, in un mese, due mesi. Il che normalmente va benissimo. Non sempre però è un buon segnale, o non sempre è il segnale migliore, o comunque non sempre è il segnale della fine del nostro compito. Se il sintomo scompare troppo rapidamente lascia sguarnite delle posizioni. Prendiamo un testo della maturità di Freud che s’intitola “Inibizione, sintomo e angoscia”. Definisce tre posizioni logiche in ordine crescente, come in un gradiente. L’inibizione è un primo punto d’arresto, l’esempio che fa Freud è che se ho un’inibizione a scrivere, e mi domando come mai, la risposta può essere che io abbia sovradeterminato il senso della scrittura, per esempio in modo sessuale, e che l’atto di scrivere si carichi del valore simbolico di una sessualità con cui mi trovo in una situazione conflittuale. Per non entrare in conflitto con la tendenza a cui mi oppongo, l’atto di scrivere che la rappresenta viene bloccato. L’inibizione è un primo sbarramento, e ha carattere immaginario. Il sintomo è un secondo sbarramento che ha invece un valore simbolico. Appartiene a un altro registro, è una costruzione che ha un senso, che si tratta di decostruire, di decifrare. In uno dei lavori inaugurali di Freud, per esempio, gli Studi sull’isteria, scritti prima ancora che il suo modo d’intervento terapeutico si fosse costituito come psicoanalisi, troviamo un caso esemplare, il caso primigenio della psicoanalisi, il caso di Anna O. di cui avrete sentito parlare. Anna era una giovane di famiglia borghese della Vienna di fine Ottocento che aveva una serie di impedimenti fisici, di sintomi, di manifestazioni corporee che le ostacolavano la vita, e veniva per questo trattata da Freud e da un suo collega più anziano, Joseph Breuer. A un certo punto, questa giovane donna manifesta un sintomo marcato di nausea, di disgusto. Freud al tempo trattava ancora i pazienti con l’ipnosi. Per capire la radice di questo sintomo mette quindi la paziente in stato ipnotico ed emerge un ricordo, un’immagine in cui Anna vede un cagnolino bere dal bicchiere dove lei beveva di solito e viene presa da un moto di disgusto. Questo ricordo è cancellato sul piano cosciente. Allo stato di veglia, quando la paziente è desta, non ha presente la connessione con questo ricordo, ma ne rimane traccia come sintomo, sotto forma di disgusto, della nausea che si manifesta in lei apparentemente senza ragione. In realtà la ragione c’è e sta nell’inconscio, in questo ricordo che è rimosso dalla coscienza. Qui siamo all’ABC della psicoanalisi, al momento costitutivo. È chiaro che Freud vede questa connessione e si dice: “Ho capito il trucco!” Il sintomo evidentemente è un sostituto, è il sostituto di un ricordo che viene eliminato dalla coscienza, che scompare dalla visibilità, dalla consapevolezza. Il sintomo è dunque una sorta di supplente. Se noi restituiamo al ricordo il posto che gli spetta, il sintomo non serve più, giacché è solo un supplente. Se a scuola un insegnante manca, si chiama un supplente, ma quando torna il titolare, il supplente non serve più, è fuori gioco. Freud, in fondo, fa un ragionamento di questo tipo, molto semplice. Il sintomo è un supplente del ricordo assentatosi dalla coscienza. Facciamo ritornare il ricordo, il titolare, e il supplente cessa le proprie funzioni. Ed è così che in effetti funziona. Questo è il primo tempo, la prima battuta, il momento costitutivo della psicoanalisi, ed è anche il momento del suo slancio ottimistico, quando effettivamente la terapia funzionava attraverso l’interpretazione, perché in effetti, nel caso di Anna O. il sintomo si interpreta. Lo si interpreta perché ha un senso, e il senso è quel che troviamo nel repertorio dei ricordi rimossi. Ritrovando il senso togliamo la sua funzione e quindi eliminiamo la componente del disturbo. Andando avanti con il lavoro però poi le cose si sono complessificate. Purtroppo quando si tratta di soggetto, quando è in gioco fattore umano, le cose non sono mai tanto semplici, e nella pratica spesso si vede che inizialmente il paziente viene con un sintomo e se ne vuole liberare, ma in un secondo tempo è come se il paziente si abituasse al sintomo, è come se l’elemento straniero che prima era un invasore diventasse qualcosa con cui è necessario trovare una composizione, con cui occorre arrivare a compromessi. Quel che prima è un invasore poi viene preso un po’ come un ospite, e così facendo si trovano tornaconti secondari al sintomo. Il secondo tempo è così quello in cui il paziente riconosce i tornaconti secondari del sintomo, e non vuole più liberarsene tanto facilmente. C’è una sorta di adattamento al sintomo. Si ha a volte un’idea volgarizzata della psicoanalisi, secondo cui l’obiettivo sarebbe di riadattare il paziente alla realtà, alla norma, alla socialità. Non è vero, non è questo, non c’è una norma a cui adattarsi, perché se ci fosse sarebbe universale e, dicevo all’inizio, trattiamo ogni caso nella sua singolarità. Non c’è dunque nessuna possibilità di condurre a una norma. C’è piuttosto un adattamento del paziente al sintomo. Potrebbe sembrarvi che dire così sia prender le cose alla men peggio. Del sintomo non ci si può liberare, oppure liberarsene ha un costo troppo alto, allora ci si adatta ed è un po’ come dirsi: “La vita poteva andare meglio, ma già che ora capiamo le ragioni del sintomo, teniamocelo”. In realtà non è così, perché proprio qui entra in scena propriamente la funzione del sintomo, qui vediamo in cosa consiste. La funzione del sintomo Se il sintomo, come dicevo all’inizio, non è solo un disturbo, ma ha una funzione, che funzione ha? Un sintomo viene nel punto stesso in cui il soggetto incontra il trauma. Anche su questo occorre fare delle precisazioni. Potremmo pensare che il trauma sia un incidente, che ad alcuni capiti e ad altri no. Viene da noi chi è stato traumatizzato, ma chi non lo è stato semplicemente non viene dallo psicoanalista, perché non ha i sintomi. Anche questa è un po’ una caricatura della psicoanalisi, che però circola nell’opinione. Capita che alcuni pazienti, le prime volte che vengono, nel corso degli incontri iniziali, prima ancora di entrare nel dispositivo, nel meccanismo della psicoanalisi, cominciano a cercare in se stessi, come per trovare il filo di una sorta di eziologia immaginaria. Alcuni dicono: “Dottore non riesco a capire, non ho avuto nessun trauma infantile, ho avuto un’infanzia felice, i miei sono brava gente, non mi hanno picchiato, né abusato, eppure sto male”. Cosa vuol dire trauma In realtà per tutti c’è un trauma, ma non perché tutti siano sfortunati. Per tutti c’è un trauma all’origine perché tutti parliamo, e l’incontro con il linguaggio ha l’effetto di disorganizzare l’istinto. Freud non parlava d’istinto, parlava di Trieb. C’è stato un lungo dibattito su come tradurre il termine Trieb, e ora la parola adottata è pulsione. Perché l’uomo ha una pulsione e non un istinto? L’istinto nell’animale è qualcosa di molto preciso, che gli etologi hanno studiato accuratamente. L’istinto è un determinato comportamento. Prendiamo per esempio il comportamento sessuale, che c’interessa maggiormente per l’eziologia delle nevrosi. Nell’animale ci sono inneschi che fanno partire un determinato comportamento, fatto di sequenze precise, dove attraverso una corrispondenza di segnali tra il maschio e la femmina si arriva a realizzare l’incontro sessuale, l’accoppiamento, la fecondazione, e poi la riproduzione. L’animale ha quindi come una sorta di binario su cui è condotto dall’istinto che lo porta esattamente a riconoscere il partner conspecifico. Gli etologi hanno fatto alcuni esperimenti cercando di ingannare l’animale, mettendo un individuo di una specie molto vicina ma non identica, una tinca per esempio al posto di uno spinarello, ma a un certo punto della sequenza lo spinarello si accorge che qualcosa non va, e non c’è niente da fare, lo spinarello, possiamo dire, vuole proprio la spinarella, e non potete dargli una tinca. C’è un binario sicuro, preciso che guida l’animale verso il partner sessuale. Il “no” e il deittico Nell’uomo questa stessa cosa non c’è, proprio perché l’uomo è un essere parlante, e il linguaggio scompagina la sua costituzione istintuale. Sentiamo in noi una pressione naturale verso il soddisfacimento, ma non ci rapportiamo con il partner attraverso la guida dei segnali istintuali. Cerchiamo, per esempio, il dialogo. Quando corteggiate una ragazza la prima cosa che fate è parlarle, e l’incontro con il partner nell’essere umano è mediato attraverso la parola. Ma la parola non è una cosa così semplice. Gli psicologi hanno studiato le fasi costitutive iniziali dell’essere umano, e il momento decisivo è quello in cui si costituisce il “no” in senso semantico. In senso semantico cosa vuol dire? Che il bambino all’inizio dice tante cose, usa la parola per quella che si chiama lallazione, gioca con i suoni che sente intorno a sé, è il suo modo di appropriarsene. I genitori lo ascoltano con attenzione e: “Senti! Ha detto papà!” Ma forse: “No, non ha detto papà, ha detto mamma.” Possono nascere grandi contese intorno alle prime parole del bambino. Qual è stata la prima parola? Bisogna sapere che, comunque vadano le cose, la prima parola che abbia un senso è sempre “no”. Quando il bambino dice “no” in senso semantico, con il senso che ha il “no”, negare una cosa, allontanarla da sé, allora lì si costituisce il linguaggio. Da cosa lo capiamo? Dal fatto che solo dopo il “no”, solo dopo che si è costituito il “no” semantico, il bambino capisce il gesto deittico. Questo avviene intorno a un anno, un anno e mezzo. Se fate un gesto indicativo a un bambino prima che si sia costituito il “no”, prima che abbia acquisito l’uso del “no”, il bambino non lo capisce. È come per l’animale, se fate un gesto indicativo al cane vi guarda il dito. Un bambino prima di avere un anno, fa la stessa cosa, guarda il dito, guarda voi, ma questo gesto non ha per lui un valore indicativo, di rimando a un referente, a qualcosa d’altro dal dito stesso. Soltanto dopo che si è costituito il “no”, facendo il gesto di indicare il bambino ne capisce il valore deittico, il rimando referenziale. Questo è quindi il momento costitutivo in cui il linguaggio si instaura come linguaggio, e non solo come lallazione, come gioco, come elemento ludico, come gioco con i suoni, gioco con le parole. Dopo il “no” il linguaggio rimanda a un referente, perché il “no” per il bambino ha un valore sostanzialmente difensivo, è un “no” attraverso cui il bambino si sottrae alla pressione dell’Altro, si ripara dall’invasione dell’Altro, elude la domanda dell’Altro. Prima il bambino è solo una specie di bambolotto della mamma, fa tutto quello che la mamma gli fa fare: corrisponde al sorriso della mamma, va dove la mamma lo porta, è la sua appendice. Non può evidentemente essere sempre così, e a un certo punto, se non si costituisce uno spazio diverso da quello in cui il bambino è alienato nell’alterità che lo nutre, che lo ama, che lo sostiene, la presenza materna diventa soffocante. È qui che appropriandosi del “no” in senso semantico significa anche disalienarsi, separarsi, avere uno spazio di autonomia. Un bambino di un anno e mezzo costituisce il proprio spazio, si differenza dall’Altro attraverso il “no”. Il “no” è dunque prima di tutto una difesa dall’Altro, perché le cure materne sono la cosa migliore del mondo, ma se non c’è una intervallo in queste cure, se non c’è un andare e venire, un momento in cui la madre è presente, ma anche un momento in cui si allontana, se non c’è una distanza le cure diventano soffocanti e, in genere, quella che è chiamata una madre sufficientemente buona ha il senso di questa distanza, sa proporsi e sa sottrarsi, sa regolare nel bambino un ritmo equilibrato. Il problema è che non tutte le madri sono sufficientemente buone. Ci sono madri un po’ apprensive. Una madre apprensiva vuole tutto il bene del mondo al bambino. Se piange di notte si alza, se percepisce che ha un bisogno cerca subito di soddisfarlo. Capite che, gira rigira, questa tipo di attenzione costante diventa opprimente e quindi il bambino ha bisogno – anche un bambino che ha una madre sufficientemente buona, ma a maggior ragione un bambino che ha una madre un po’ ansiosa – un bambino ha bisogno di redini con cui regolare il flusso della presenza e dell’assenza dell’Altro materno, e queste redini le ottiene attraverso l’acquisizione del “no”.Capite quindi perché l’acquisizione del linguaggio, passando attraverso questa sequenza, risulti sempre traumatica. Segna infatti un distacco, ma non soltanto nel senso di un allontanamento da qualcosa che amavamo e che perdiamo. Sì, anche questo, da un lato. C’è però piuttosto, nel distacco, la mossa di separarsi da qualcosa che è eccessivo, e che se non ce ne stacchiamo ci soffoca, ci impedisce di vivere. Le patologie più gravi nel campo psichico, le psicosi, vengono proprio da un difetto, da una carenza radicale di separazione. Si verificano quando il soggetto non riesce a realizzare l’operazione di separazione, e va in una deriva psicotica. Il momento del distacco è traumatico, ma è anche necessario, serve a strutturare la soggettività. È un momento bivalente, ci si distacca da qualcosa che è in eccesso, ma anche da qualcosa che costituisce cure, amore, benessere. Avendo tutto questo, c’è un momento in cui lo sentiamo eccessivo ma, non appena ce ne stacchiamo, ci manca, e qui si depositano i primi segni. Dove si crea il vuoto dovuto al distacco restano dei segni. Questi segni sono un po’ come i monumenti nelle città, indicano che è successo qualcosa. Un monumento di Garibaldi in una piazza – ogni città d’Italia ha un monumento a Garibaldi – è il segno che in Italia è successo qualcosa legato a questo personaggio, che ha condotto una spedizione decisiva, che ha segnato un momento importante nella storia del nostro paese. Anche nella storia individuale questi segni commemorano qualcosa. Sono segni che si depositano dove si è sottratto il godimento dell’intimità con l’Altro, con la sicurezza che dava, con il suo calore, che è diventato eccessivo e ce ne siamo dovuti allontanare, ma che al tempo stesso ora ci manca, e il nostro corpo porta un segno di questa mancanza, commemora quel che non c’è più. Segno di godimento Chiamiamo questo segno un segno di godimento, del godimento che abbiamo perduto nel momento in cui abbiamo avuto bisogno di difenderci. Ebbene, questi segni di godimento sono il sintomo, sono i segni che si sono costituiti dove si è creato un vuoto, dove qualcosa manca, sono segni che vengono a supplire un vuoto. Per questo con il sintomo non dobbiamo lavorare soltanto tramite un’interpretazione di senso. Quella che si offre all’interpretazione è soltanto la prima fascia del sintomo, la più evidente, quella che appare nel modo più manifesto nell’isteria, che ha una propensione particolare per la rappresentazione, per la teatralità. Man mano però che andiamo alla radice, verso quelli che sono i primi segni di godimento, si verifica una rarefazione del senso, fino alla completa sparizione. Dove prima c’era il piacere dell’intimità, il piacere di essere nutriti, di guardare il volto della madre, di colui o colei che si occupava del bambino, non c’è nessun senso da recuperare. Non è come per Anna O. dove il disgusto nasconde il ricordo rimosso di un episodio. C’è solo la sparizione di un godimento che il segno contrassegna, c’è la traccia dei momenti perduti, che il segno indica e a cui il soggetto attinge per tutta la vita. Freud, a un certo punto, ha parlato di automatismo di ripetizione. Ebbene, l’automatismo di ripetizione è proprio questo: un movimento in cui, cominciando a parlare, cerchiamo di attingere di nuovo alla fonte svanita del godimento originario, giriamo intorno al vuoto, alla mancanza primaria che il linguaggio ha costituito. Questo tentativo, poiché siamo esseri parlanti, si formula come domanda, domanda di ritrovare una sorta di paradiso perduto, come se ci chiedessimo dov’è sparito quel che un istante prima era lì e adesso non c’è più. Dov’è sparito il seno da cui mi nutrivo, il seno mitico, originario? Certo che la madre è ancora lì con i suoi seni, ma non è quello il seno che cerco. Il seno che cerco è invece quello che c’era quando ancora non potevo neanche pensarlo perché vi ero immerso, nel momento immediatamente precedente la costituzione traumatica in cui c’è stata la separazione. Nulla può più essere come prima, e tuttavia la domanda insiste su quello, vi ritorna, e quel che chiamiamo automatismo di ripetizione è precisamente il ritorno sul momento in cui qualcosa irreversibilmente si è perduto. Il soggetto non riesce a rassegnarsi alla perdita, per questo vi torna. Il sintomo ha un valore surrogativo, nel senso in cui vi dicevo all’inizio, prende cioè il posto di un ricordo che è sparito. Una rappresentazione sintomatica viene al posto di una rappresentazione mnestica: si determina questa sostituzione, questa supplenza. In realtà però questo scambio è gia un fatto derivato. Quando il segno entra nelle rappresentazioni e gli si può dare un senso, è già qualcosa di derivato. All’origine infatti il segno, il sintomo, non è in rapporto con un altro segno in modo da produrre un senso, ma è in rapporto con il godimento originario che si è perduto. E questa perdita è inguaribile, ed è al tempo stesso ciò a cui il soggetto ritorna. Intorno a questo si può costruire, si può fare un montaggio simbolico, di carattere sublimatorio, per esempio nell’arte, e il soggetto può trarne piacere. L’arte è qualcosa da cui traiamo piacere, ma non è la sola possibilità. Si possono amare tante cose, ci sono tante costruzioni simboliche da cui è possibile trarre piacere, svago. Possono essere la lettura, un bel paesaggio, un film, un’attività manuale. Sono tutte costruzioni che girano intorno al vuoto. Se il sintomo è segno di godimento – ed è in rapporto con il godimento in modo più originario di quanto il sintomo di cui parlavamo prima nell’isteria non sia in rapporto con il senso – allora dobbiamo dire che ogni godimento è sintomatico. Nell’esperienza analitica dobbiamo dare spazio a un altro lavoro oltre a quello interpretativo, perché non vogliamo ridurre quel tipo di sintomo, quello che è segno di godimento, ma vogliamo semplicemente far sì che smetta di essere fonte di sofferenza, di conflitti, di contrasto con aspetti dell’io che non accettano questo godimento. Perché non l’accettano? Perché tante volte il fantasma contrasta con l’ideale in cui l’io crede. In tal caso sono gli ideali da decostruire, non il sintomo. Gli ideali sono la vera fonte della sofferenza nevrotica. Sono gli ideali quindi da depotenziare anziché il sintomo. Decostruire gli ideali Se pilotassimo l’esperienza analitica verso l’adattamento del soggetto a una norma, non faremmo altro che spingerlo verso un’adesione sempre maggiore agli ideali sociali, o personali, con il risultato di costruire una nevrosi più forte, di rafforzare le sua barriere. Costituiremmo ideali che hanno la funzione di coprire, nascondere il conflitto con la pulsione, e non è questa la via da seguire, anche se spesso può essere una soluzione che il soggetto trova spontaneamente. È una soluzione tuttavia che non regge. Ho visto a volte uomini forti, saldamente identificati con i propri ideali, persone come manager che avevano ottenuto un grande successo nella vita. Gli ideali per loro erano effettivamente una sorta di tamponamento rispetto alla costituzione originaria del vuoto che sto cercando di mostrarvi. Proprio a questi uomini forti possono capitare episodi apparentemente irrilevanti che diventano fomite di nevrosi. Una di queste persone, che amava lo sport, ebbe un piccolo incidente di sci che gli procurò una ferita seria ma non particolarmente invalidante, lasciandogli una cicatrice che rimaneva più a lungo di quanto si aspettasse. A un certo punto, durante una delle ultime visite di controllo, il medico gli disse che tutto era risolto, che non c’erano più segni di sofferenza fisica, che l’incidente era superato. “Come superato? – rispose – C’è questo segno!” “Mi dispiace –replicò il medico – questo segno resterà, non possiamo eliminare la cicatrice”. Quest’uomo sentì la cicatrice come talmente deturpante, come talmente lesiva della sua immagine, da avere un effetto disgregativo sull’ideale fisico in cui si riconosceva. Caduto il puntello ideale che l’aveva sostenuto fino a quel momento, l’uomo sprofondò nella nevrosi, lasciando affiorare il conflitto che fino a quel punto l’ideale aveva coperto. A volte bastano eventi insignificanti per produrre qualcosa di psicologicamente equivalente a un valore traumatico. Vi domanderete se sia mai possibile che una persona precipiti nella nevrosi per un fatto così banale, una piccola cicatrice sul corpo? Certo, il problema, non è la cicatrice in quanto tale, il problema è che incrinando l’ideale fisico che lo aveva sostenuto, la cicatrice toglie il puntello, la soluzione specifica che l’uomo aveva trovato, mettendo allo scoperto il problema, il conflitto. Non ci sono mai cause abbastanza piccole da essere irrilevanti rispetto alla costituzione di una nevrosi. A volte quando nell’analisi del soggetto si risale il là nel tempo per cercare di cogliere i momenti d’insorgenza di certi fenomeni, si ha l’impressione che le cose siano sempre state così come sono, che la nevrosi, i disagi di cui il soggetto si lamenta, ci siano sempre stati, e spesso si vede che si compongono alle soglie dell’adolescenza, nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza, che è il momento critico in cui un soggetto si costituisce come quello che è. Il soggetto si allontana man mano dalla sfera protetta dell’ambiente famigliare, si stacca dalla dipendenza vitale dai genitori per entrare in un contesto più ampio e lì, in quel passaggio, prendono forma le contraddizioni, i conflitti, i problemi che accompagneranno il soggetto nel corso della vita.Cerco in questo modo di mostrarvi perché consideriamo che la psicoanalisi non sia una terapia soppressiva del sintomo, tento di farvi apparire la funzione che il sintomo svolge nell’economia soggettiva. Se prendiamo infatti il sintomo all’origine vediamo che solo in modo derivato diventa fonte di sofferenza, ma che, inquadrato nella luce giusta, diventa risorsa e fonte, modo di accesso, al godimento dell’inconscio.
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Settembre 2024
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