Marco Focchi Conferenza tenuta l'11 febbraio 2016 a Granada, presso la sede della Escuela lacaniana de psicoanalisis Il desiderio in psicoanalisi è un concetto che entra in scena nella psicoanalisi con l’insegnamento di Lacan. Anche Freud naturalmente parla di desiderio: il termine freudiano è Wunsch, e lo sviluppo maggiore di questo concetto si trova nell’Interpretazione dei sogni, dove il sogno è definito come la raffigurazione di un appagamento di desiderio. Questo modo di considerare il desiderio implica però che il desiderio in Freud sia concepito in relazione alla rappresentazione. Nei termini in cui il problema viene ripreso da Lacan, si tratta invece di un’articolazione significante. Nel famoso sogno del padre che era morto ma non lo sapeva, per esempio, l’interpretazione di Freud si realizza aggiungendo due clausole al testo del sogno: la prima, che il padre era morto secondo il desiderio del sognatore; la seconda, che non sapeva di essere morto a causa di questo desiderio. Lacan riprende questo sogno a partire dalla considerazione che l’interpretazione di Freud consista in in realtà in un’aggiunta di significante, dove nel testo le due clausole siano un innesto di significante che rivela la verità di un desiderio nascosto. Il desiderio si formula in una frase: “Vorrei che fossi morto!” Nell’età adulta questo auspicio assume la maschera della pietà filiale, dell’insopportabilità della sofferenza del padre, che può cessare solo con la morte. Riferito però al tempo dell’infanzia si rivela invece come la formulazione di un desiderio incestuoso.
Nel codice edipico freudiano il desiderio in ultima istanza è desiderio di un oggetto proibito, di un oggetto che il nevrotico insegue sotto diverse forme e trasfigurazioni, senza tuttavia mai poterlo raggiungere. In Freud il desiderio si rivolge a un oggetto arcaico, primordiale, la cui sola immagine di appagamento è quella del bambino che succhia dal seno materno. Dopo lo svezzamento, non solo quello dal seno, ma più in generale con lo svezzamento dall’intimità del corpo materno operato dal linguaggio questa modalità di appagamento non è più possibile. Lacan riprende i termini freudiani per metterli in forma, per formalizzarli. Parla così della metonimia del desiderio, cioè del desiderio che insegue un oggetto che sempre si sottrae, dove il solo punto di arresto della fuga metonimica infinita è la metafora, in cui il senso del desiderio si rivela, ma attraverso una sostituzione. Se così da una parte il desiderio è sempre lanciato verso la fuga della metonimia, la piena realizzazione della metafora è quella che Lacan svilupperà come metafora dell’amore, che sposta tutto su un altro piano Questa ripresa delle tematiche edipiche freudiane, nel formalismo linguistico ha un punto culminante in quello che Lacan, nel seminario V, formula come metafora paterna, che è la messa in forma di metafora della struttura edipica, dove il significante del Nome del Padre si sostituisce al significante del desiderio materno, dando luogo al significante fallico. Il fulcro dell’operazione qui è il fallo, cioè il significante di una mancanza. Il presupposto di questa logica sta nel fatto che la donna desidera il fallo, e che lo riceve dall’uomo attraverso il rapporto sessuale, ma può anche farlo suo concependo un bambino come equivalente simbolico. Il bambino desiderato dalla madre occupa così il posto del fallo, e l’operazione paterna consiste nel disidentificare il bambino dal fallo, nel separarlo dalla madre e nel far emergere così il significato del desiderio, che è il significato fallico, ovvero una mancanza. Il desiderio è quindi una mancanza: se desidero qualcosa è perché mi manca. Questo è anche il motivo per cui il desiderio vive nel regime della metonimia, inseguendo, senza mai poterlo veramente afferrare, l’oggetto che sempre gli si sottrae. Il continuo rimando lascia però il soggetto in una permanente insoddisfazione, in una frustrazione, in una sorta di impotenza e l’analisi, nella concezione che ne ha Lacan nel primo decennio del suo insegnamento, deve portare il soggetto a una posizione più radicale. È quel che vediamo all’opera nel caso del piccolo Hans, di cui potremmo discutere che sia un’analisi terminata, ma che permette di esplorare tutti i montaggi e tutte le combinazioni possibili del fantasma. Il punto di arrivo dell’analisi è dunque questo: l’incontro del soggetto con una mancanza. Non si tratta più però della mancanza relativa a un oggetto, ma della mancanza in quanto tale, della mancanza strutturale, della mancanza di fondo della struttura soggettiva. È quel che in termini freudiani chiamiamo castrazione, che implica un passaggio dall’impotenza, – ovvero l’incapacità soggettivamente sentita di raggiungere l’oggetto di desiderio – all’impossibilità, dove non sono io a non riuscire, ma è oggetto come tale a mancare. Il desiderio come mancanza di un oggetto implica l’idea di un oggetto che non è al proprio posto, e il soggetto può aspirare a recuperarlo. Il riconoscimento della castrazione invece, come riconoscimento della mancanza in quanto tale, non riporta l’oggetto al proprio posto. Piuttosto possiamo dire che colloca la mancanza al proprio posto, rivelandola come una mancanza che nulla può colmare. La concezione del desiderio così disegnata ha un preciso presupposto: il Nome del Padre. Il desiderio come mancanza e come significato fallico vige sotto l’impero del Nome del Padre, che unifica la realtà sotto la propria insegna. D’altra parte la concezione ̶ filo rosso che traversa tutto l’insegnamento di Lacan ̶ del desiderio come desiderio dell’Altro, se da un lato, nella versione immaginaria, si può leggere come desiderare ciò che l’altro desidera ̶ voglio, per esempio, il giocattolo con cui gioca mio fratello ̶ da un altro lato, sul piano simbolico, desiderare il desiderio dell’Altro significa desiderare una mancanza, non ciò che manca all’Altro, ma la mancanza dell’Altro in quanto tale. Sotto il regime del Nome del Padre il desiderio è quindi essenzialmente una mancanza il cui significato è fallico. Alcuni filosofi, Clement Rosset tra questi, hanno accusato di idealismo questa visione. Considerando lo sfondo hegeliano che in Lacan hanno questi temi, l’idea non è da scartare senza che prima la si prenda in considerazione. In fondo la definizione stessa del desiderio dell’uomo come il desiderio dell’Altro è prelevata da Kojeve, e della lettura che Kojeve fa di Hegel, della logica servo-padrone. L’argomento di Rosset è: il desiderio è mancanza, perché è fondamentalmente insoddisfatto, e non c’è nessun oggetto reale che possa soddisfarlo. La logica consumistica del capitalismo si regge su questo: ci vende immagini di oggetti che, quando sono poi realmente nelle nostre mani scadono a scarti, perdono interesse, diventano inutili. Se le cose stanno così, se il desiderio è effettivamente mancanza perché nessun oggetto del mondo reale può corrispondervi, allora si apre l’orizzonte di un altro mondo in cui è idealmente ospitato l’oggetto, che in questo mondo risulta invece essere solo miraggio. Questa critica in realtà non tocca la concezione di Lacan, perché, come abbiamo detto sopra, il fatto che il desiderio sia mancanza non implica un oggetto correlato a questa mancanza, non implica un mondo ideale in cui questo oggetto avrebbe posto. L’articolazione del fantasma non ha nulla a che vedere con uno spazio ideale. Il versante immaginario del fantasma contiene certo dei miraggi, ma che non hanno nulla a che vedere con l’ideale. Sono piuttosto analoghi, sul piano umano, a quel che nell’animale costituisce l’innesco del comportamento istintuale. Sul piano simbolico poi, il fantasma è la costruzione di una frase, che spogliata, scarnificata dal senso, è né più né meno che un’articolazione letterale, esattamente nel modo in cui, in Lituraterre, Lacan definisce la lettera come il contorno di un buco. Ma con Lituraterre entriamo in uno spazio concettuale dove non vige più l’impero del Padre. Nel seminario dell’anno precedente alla data di stesura di Lituraterre Lacan infatti ha già aperto lo spazio che chiamiamo di solito al di là dell’Edipo. Quando Lacan fa uscire la psicoanalisi dalla strozzatura edipica, fa apparire quel che è lo spazio contemporaneo, fatto di pezzi sciolti, uno spazio, potremmo dire, antileibniziano, perché se per Leibniz le monadi erano accordate da un’armonia prestabilita, a determinare questa armonia era necessario Dio. Nel mondo contemporaneo, non retto dal Nome del Padre, possiamo dire che ci troviamo nella situazione di una “disarmonia prestabilita”. Il mondo in cui viviamo è un gomitolo intricato, un labirinto con infinite diramazioni, un castello dei destini che non si incrociano. C’è di che smarrirsi e certamente anche nella nostra pratica conosciamo questo smarrimento nelle persone che si presentano con attacchi di panico ̶ patologia che non a caso è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni. Come si riflette questa situazione attuale sul desiderio? È quel che ho cercato di descrivere nel mio libro Sintomi senza inconscio di un’epoca senza desiderio. Non siamo più nella condizione in cui potremmo dire che l’analisi si conclude quando la mancanza è andata al suo posto e il soggetto ritrova così il filo del proprio desiderio, e anche la categoria di mancanza utilizzata per definire il soggetto – la mancanza d’essere – svanisce nell’ultimo insegnamento di Lacan a favore della nozione di buco. Se ne capisce bene la ragione: la mancanza è in effetti relativa a un ordine che non è più pensabile nel mondo contemporaneo. Diversamente dalla mancanza il buco non è posto in nessuna successione: non c’è un posto del buco. Lacan parla piuttosto di un contorno del buco, che è questione completamente diversa. Potremmo domandarci: cosa è il desiderio quando passiamo da una concezione imperniata sulla mancanza a concezione una imperniata sul buco? In altri termini questo significa: che cosa è il desiderio nella modernità? Che cosa è il desiderio in un tempo in cui per un verso non abbiamo più indicazioni su cosa possa essere desiderabile, mentre per altro verso abbiamo troppe suggestioni su quel che dovremmo necessariamente avere, dato che il consumismo motore del capitalismo, ci avvolge di cliché di prodotti, immagini, spunti su ciò di cui non è possibile fare a meno? Prima ancora però di venire ricatturata nella logica consumistica del capitalismo, che sfrutta il fenomeno ai suoi fini, possiamo vedere già nella letteratura la rifrazione infinita del desiderio che ha perso il punto focale datogli dal Nome del Padre. Voglio leggervi un bellissimo passaggio di Proust, da La Prigioniera, che mostra chiaramente la pluralità del desiderio, l’esplosione in mille schegge, l’impossibilità di comporlo in una figura, giacché l’immagine che lo innesca è polverizzata nell’infinito di un mondo senza confini. “E comprendevo l’impossibilità contro la quale urta l’amore. Noi ci figuriamo che esso abbia come oggetto un essere che può star coricato davanti a noi, chiuso in un corpo. Ahimè! L’amore è l’estensione di tale essere a tutti i punti dello spazio e del tempo che ha occupato e occuperà. Se non possediamo il suo contatto con il tale luogo con la tale ora, noi non lo possediamo. Ma tutti quei punti non possiamo toccarli. Forse, se ci venissero indicati, potremmo arrivare sino a essi; ma noi procediamo a tentoni senza trovarli. Di qui la diffidenza, la gelosia, le persecuzioni. Perdiamo un tempo prezioso su una pista assurda, e passiamo senza accorgercene accanto alla verità.” Quando diciamo oggetto di desiderio nel lessico comune psicoanalitico, prelacaniano, diciamo in genere l’altro immaginario. Nel codice edipico, l’oggetto di desiderio per eccellenza è la madre, ben circoscritta, ben individuata, e poi i suoi successori, chi ne prende il posto nella catena metonimica delle sostituzioni. Nella descrizione di Proust vediamo una situazione completamente diversa: l’oggetto non è circoscrivibile, non è “chiuso in un corpo”, non è stabilizzato, pur nella sottrazione metonimica. È pensato nel suo movimento, nel suo mutamento, nella sua estensione spazio-temporale, che non ha confini. Non è qualcosa che manca al suo posto, è piuttosto qualcosa che non ha un posto in cui mancare, perché appartiene a tutti i posti possibili e immaginabili. Il fatto che possa essere dappertutto non porta però a un riempimento della realtà. Al contrario: anche quando è qui, accanto a me, Albertine in un altro momento è stata da un’altra parte, e questo lascia un vuoto nel momento presente in cui è qui. Perché ora è qui, ma ieri, un minuto fa, era altrove, e l’altrove di ieri lascia un vuoto nel qui e ora, perché non è solo la sua presenza fisica, corporea che desidero nel momento in cui posso riempirmi le braccia di lei, ma è lei nel mondo, in un mondo che continuamente me la sottrae anche quando la sto abbracciando, anche quando la tengo stretta illudendomi di farla prigioniera, ma la prigioniera di oggi è l’evasa di ieri e di domani. Qui è il punto decisivo che Proust ci mostra: desiderare Albertine non significa desiderare il suo corpo, il suo sorriso, la curva del suo seno, il modo in cui cammina. Non è un tratto, come la posizione accucciata della Grŭsa per l’Uomo dei lupi, che fa scattare l’automatismo libidico. Desiderare Albertine è desiderare il suo mondo, un modo di vita. Sappiamo la declinazione ossessiva sotto la quale Proust sviluppa questa prospettiva: quella della gelosia. L’inferno della relazione con Albertine è l’inferno della gelosia. Ma questa è, per l’appunto, la sua specifica modalità, la via in cui incanala questa sua straordinaria scoperta. Il desiderio che non circoscrive l’oggetto e si estende a un modo di vita ha tuttavia infiniti sviluppi possibili. Scegliere un oggetto di desiderio è scegliere la vita che si vorrà vivere accanto a esso. Per Proust è la gelosia. Per Leopardi è la nostalgia dell’irraggiungibile. Per Laurence è la fuga dal mondo delle convenzioni. Per Fitzgerald la donna al centro della festa. Per Masoch l’imperatrice con cui firmare un contratto. Per Houellebecq è la possibilità di un’isola. In nessuno come in Proust tuttavia appare con chiarezza come la presenza dell’oggetto di desiderio, lungi dal colmare la realtà, la buchi. Credo che questo ci aiuti a capire la posizione del desiderio nell’ultimo insegnamento di Lacan, quando dalla mancanza d’essere passa all’idea del buco, ma già prima possiamo vedere una svolta nel seminario X sull’angoscia, quando Lacan dà corpo all’idea di un oggetto causa di desiderio. È un tema che J.-A. Miller ha ampiamente commentato. Formulando l’idea di un oggetto causa di desiderio, Lacan rovescia l’ordine abituale del nostro pensiero riguardo al desiderio. L’ordine abituale parte dal presupposto di una mancanza: qualcosa ci manca e di questo qualcosa ci mettiamo all’inseguimento. Prima c’è la mancanza, poi l’oggetto da inseguire, come il cacciatore dietro alla preda. Nella concezione che Lacan inaugura a partire dall’angoscia, prima c’è l’oggetto, ed è l’oggetto a causare, a produrre il desiderio. È il rovescio della concezione metonimica del desiderio, con un oggetto che sempre si sottrae. L’oggetto, in questa versione, non si sottrae affatto, sta dietro e spinge, produce, fa nascere il desiderio. Proprio perché l’oggetto non è un oggetto disponibile, ma è l’oggetto che noi siamo al di qua dell’immagine in cui ci riconosciamo, è l’oggetto che rende bucata la realtà. In Lituraterre questi temi si sviluppano come articolazione tra la parvenza e il reale. Ho sempre trovato curioso il bisogno che Lacan ha, in Lituraterre, di passare per delle metafore metereologiche. Parla della pianura siberiana vista dall’alto dell’aereo, parla dei solchi che l’acqua lascia nel terreno scorrendovi. Sembra una grande mitologia atmosferica che fa respirare la terra, la rende viva, come nel Timeo platonico. Ci si domanda perché Lacan abbia bisogno di ricorrere così estesamente a una metafora in anni cui sta esplorando la topologia di cui ripetutamente tiene ad affermare che il suo uso non ha niente di metaforico. La topologia in effetti non è né esemplificativa né modellizzante, perché la topologia è la struttura, non qualcosa che la rappresenta. Spesso commentando Lituraterre ha detto che non si tratta di una metafora, ma di una sorta di lente d’ingrandimento. Ora direi che mi sembra di scorgere un aspetto ulteriore: attraverso questo carnevale di nuvole, ruscelli, solchi sul terreno, Lacan mostra il differente trattamento che il discorso scientifico e la psicoanalisi fanno della parvenza. Il discorso scientifico tratta la parvenza come illusione, dissipata la quale si rivelano le veri leggi della natura, che obbedisce al calcolo. Non è il sole che sorge o cala, e quando usciamo da questa idea ingannevole possiamo calcolare le orbite dei pianeti, e il calcolo funziona grazie all’evacuazione del godimento. A partire da questa rottura della parvenza, che dissolve quel che costituisce la forma, il fenomeno, l’effetto atmosferico, la scienza, andando al di là del fenomeno, della parvenza, si adopera a penetrare il reale a prezzo di congedarne il godimento “ce qui de cette rupture ferait jonissance à ce que le monde ou aussì bien l’immonde, y ait pulsion a figurer la vie” La scienza, in altri termini, disseziona il mondo sul tavolo anatomico, quando è privo di vita. La rottura della parvenza nella psicoanalisi non ha lo stesso effetto, o lo stesso punto di mira, perché “il godimento evocato dalla rottura della parvenza si presenta nel reale come dilavamento” (Lituraterre p.17) In fondo è questa la ragione per cui nell’epoca in cui i sintomi si presentano senza inconscio, è anche un’epoca senza desiderio. Tutte le pratiche vengono infatti fatte passare attraverso procedure che chiamano in causa la scienza, o che quantomeno la minano. Se così facciamo però nella nella pratica psicoterapeutica, ci troviamo ad aver già messo il fantasma sul tavolo anatomico in cui, anziché supporto del desiderio, appare come un errore cognitivo, un’illusione da dissipare, una chimera senza nessuna presa sul reale. Credo sia compito della psicoanalisi, compito politico e non solo clinico, ritrovare il lampo di vita del desiderio, ripercorrere il filo, la spinta produttiva, e restituire il fantasma all’articolazione tra parvenza e reale, anziché consegnarlo in ostaggio al mondo delle illusioni come è oggi pratica corrente.
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