Conferenza tenuta a Granada il 4 aprile 2013 nell'ambito della ELP di Marco Focchi La parte conclusiva del seminario di Lacan sull’etica ha come tema, possiamo dire, la politica della psicoanalisi. Lacan ha appena messo a punto il suo testo La direzione della cura e riferendoci all’articolazione che qui fa tra tattica, strategia e politica, le due lezioni si riferiscono al terzo termine di questa tripartizione, la politica, la considerazione cioè degli obiettivi, di ciò a cui punto l’esperienza psicoanalitica. Per quanto queste parole siano state pronunciate nell’estate del 1960, i problemi che pongono sono assolutamente attuali, sono gli stessi con i quali ci confrontiamo nella nostra pratica psicoanalitica oggi. Se consideriamo che la psicoanalisi debba portare in qualche modo a migliorare la condizione del soggetto, rileggere queste lezioni e riprenderne i temi ci serve a non dare per scontato cosa significhi miglioramento, in questo caso e, se il miglioramento è qualcosa che può essere considerato come una guarigione, ci permettono di entrare maggiormente nel merito di cosa s’intende per guarigione, quando trasferiamo questo concetto dal campo della medicina a quello della psicoanalisi. Da cosa vuol guarire il paziente quando chiede un’analisi? Se dicessimo da un sintomo, daremmo una versione riduttiva di quel che il paziente si aspetta. Penso a un mio paziente il cui sintomo era svenire in determinate occasioni, anche in pubblico, per esempio in metro. Dopo i primi mesi di un’analisi che dura ormai da alcuni anni, questo sintomo già non si presentava più, ma il mio il mio paziente non sembra particolarmente contento di questo: esprime ora una sua generale insoddisfazione per la vita e per l’assenza di una felicità che la psicoanalisi, allo stato attuale dei fatti, sembra non riuscire a dargli.
Sentiamo quindi tutta la pertinenza, sul piano clinico, della questione da cui parte Lacan per interrogarsi sugli obiettivi della psicoanalisi: mette infatti esplicitamente sul tappeto il problema della felicità. Quel che ci viene domandato in un’analisi in effetti non è la guarigione o la soluzione di un problema, ma è la felicità. Se Lacan introduce il tema della felicità è evidentemente per portarci nel labirinto in cui si dimostra non solo che è impossibile per la psicoanalisi garantire la felicità, ma per mostrare le antinomie legate a questo concetto. È notevole il fatto che i politici contemporanei invece si siano prefissi si offrire la felicità alle popolazioni europee. Di questo almeno si parlava prima della grande crisi del 2008, e prima che traballasse non solo la felicità ipotetica, ma tutto il sistema del welfare state già acquisito. Lo stesso Lacan parte dalla connessione tra felicità e politica, definendola come peculiarità della condizione moderna. Lacan si riferisce alle dichiarazioni pronunciate durante la Rivoluzione francese, ma il problema resta attuale. Il progetto lanciato da Richard Layard nel 2005, per esempio, mira a sviluppare la massima felicità per il maggior numero di persone. È evidentemente un progetto di marca dichiaratamente utilitarista, che riprende i concetti di Benjamin Bentham declinandoli con gli argomenti di Daniel Kahneman, uno psicologo che ha sviluppato un metodo per misurare la felicità in senso oggettivo. L’idea di Layard è infatti che la felicità sia uno stato corporeo misurabile, come la febbre, e che sia possibile scrivere un grafico dei suoi valori nel corso della giornata. Lacan non si riferisce a Richard Layard, che negli anni in cui si svolgeva il seminario sull’etica non aveva ancora formulato i suoi programmi, ma a Saint-Juste, che nell’Assemblée Nationale del 3 marzo 1794 pronuncia un discorso dove sostiene che con la rivoluzione il popolo può finalmente cominciare a lamentarsi della propria infelicità e chiedere ai governi un intervento per porvi rimedio. Lacan vede questo il segno della concezione moderna della politica, e la differenza tra il modo in cui pensiamo oggi la felicità e quello in cui la pensavano i greci. Per Aristotele la felicità consisteva in un esercizio continuativo della virtù, nel portare all’eccellenza le proprie doti e capacità. Nella misura in cui invece la felicità diventa un problema politico, e si chiede ai governi di provvedervi, è chiaro che si è radicalmente cambiato direzione rispetto alla via aristotelica. La felicità non è più pensata attivamente come correlata a un esercizio, ma come qualcosa che può essere accordato, che si può passivamente ricevere. L’assioma di partenza contemporaneo, secondo Lacan, è che non ci può essere soddisfacimento per nessuno se non c’è per tutti. Bisognerebbe considerare quanto questo assioma abbia tenuto in un mondo dove, a partire dagli anni Ottanta, immediatamente dopo la morte di Lacan, la forbice della disuguaglianza sociale ha cominciato a crescere spropositatamente. Sembra che la felicità sia ora requisita dall’uno per cento della popolazione, e che gli indignados di Puerta del Sol a Madrid abbiano rappresentato la protesta del restante novantanove per cento. Questo è il nuovo contesto in cui siamo, ed è il clima sociale in cui l’analista si trova in posizione di ricevere la domanda di felicità. Non è una domanda alla quale possiamo sottrarci. Dobbiamo offrirci in questa posizione, nonostante la psicoanalisi non abbia mai avanzato nessuna pretesa pari a quella aristotelica. Gli obiettivi definiti dall’ortodossia psicoanalitica classica sono in fondo circoscritti: pervenire alla maturità genitale e trovare un buon modo di andare al passo con la società. Il freudiano disagio della civiltà resta occultato, nella formalizzazione ortodossa, dietro l’aspirazione a innalzare il conformismo a propria parola d’ordine, un po’ come quando si fa pulizia nascondendo la sporcizia sotto il tappeto. Come potremmo allora ambire a far sì che misteriosamente e miracolosamente le cose al soggetto vadano bene attraverso la promessa oscura dell’avvento dell’oggettualità genitale, o dell’accordo con la realtà, cioè dell’adattamento? Lo psicoanalista deve quindi senz’altro accettare di mettersi in posizione di ricevere la domanda di felicità, ma qual è la risposta? Lacan s’interroga in questo senso quando si chiede quale possa essere la felice soddisfazione di una tendenza. Questa domanda lo porta al tema della sublimazione. Si tratta di una via del tutto classica, che parte dall’idea che la sublimazione è una forma di soddisfacimento senza rimozione. Il nevrotico ha le sue modalità di soddisfazione, che però paga sempre a caro prezzo, che sono accompagnate dal senso di colpa, dall’angoscia, dell’aggressività. Si tratta evidentemente di una soddisfazione ottenuta all’interno del conflitto nevrotico, dove ciò che è soddisfatto da un lato, viene addebitato con sovrapprezzo dall’altro. Cosa porta fuori dal conflitto nevrotico? Cosa dà una soddisfazione che non chiede una controparte in rimozione? Prendere questa via è un modo di chiedersi che cosa può portare l’analisi al suo compimento. La sublimazione è comunque solo un modello, un esempio, ma non è la soluzione. Lacan non fa coincidere la fine dell’analisi con la sublimazione, la prende solo come un modo d’interrogarsi sul desiderio nel suo carattere radicale, dove la realizzazione del desiderio si ponga non come transitoria e relativa, ma come condizione assoluta. L’idea è che se dobbiamo considerare un’analisi compiuta a tutti gli effetti, il desiderio deve potersi realizzare senza rimozione, cioè senza controtendenza conflittuale, e deve realizzarsi in via definitiva. Il solo fatto che Lacan porga il problema in questi termini, ci fa provare il retrogusto vintage di un’epoca eroica della psicoanalisi – il riferimento all’eroe contrapposto all’uomo comune ritorna più avanti proprio in queste lezioni – dove l’eroismo è l’eroismo del desiderio. Negli anni Settanta Lacan non si sarebbe espresso negli stessi termini. Il modo in cui si esprime qui infatti riflette la visione drammatizzata delle cose presente nel seminario sull’etica. Lacan utilizza a questo proposito l’espressione “giudizio universale” quando dice che: “La realizzazione del desiderio si formula necessariamente in un prospettiva da giudizio universale”. Bisogna sentire qui tutta la forza dell’espressione: quando si parla di giudizio universale si parla della fine dei tempi, del momento in cui viene pesata la vita di un uomo nel suo insieme. Se consideriamo il problema dalla nostra specifica angolatura, quella dell’esperienza psicoanalitica, il giudizio di cui si tratta è quello sull’azione di un uomo in rapporto al desiderio che la abita. La realizzazione ultima del desiderio, in questo senso, mette in gioco la morte e la domanda su come l’uomo, in qualità di vivente, possa giungere a conoscere qualcosa del proprio rapporto con la morte. Consideriamo inoltre che da un lato la pulsione fondamentale è la pulsione di morte e, dall’altro, che l’inconscio non contiene una rappresentazione della propria morte. Per affrontare questo punto in cui la realizzazione del desiderio ha un valore assoluto, Lacan prende la via di definire un aspetto che, direi, è il precursore della nozione di parvenza che svilupperà dieci anni dopo. Il punto di fondo del desiderio, allo stadio di riflessione in cui Lacan si trova nel seminario sull’etica, è una mancanza d’essere che niente può colmare. Si tratta come di una cornice vuota in cui il soggetto trova il proprio posto rispetto all’Altro, la propria collocazione significante, è qualcosa che un significante inquadra, mettendo però in questo modo in evidenza l’orrore di un abisso senza fondo. Il desiderio come desiderio di niente non è qualcosa che si possa guardare a cuor leggero. Ci vuole qualcosa allora che lo renda visibile velandolo, ci vuole qualcosa che lo spogli vestendolo, qualcosa che sia il contrario dello striptease, che metta a nudo aggiungendo anziché togliendo. Si tratta di ciò che Lacan definisce come il miraggio centrale: questo miraggio indica il posto del desiderio come desiderio di niente. Lacan lo chiama con un nome greco: himeros enarghes, espressione tratta dal secondo coro dell’Antigone, dove viene cantato Eros l’invincibile, Eros che sta in agguato nelle tenere lisce guance della fanciulla, e significa il desiderio che brilla, che splende, che si manifesta, che si rende visibile. Himeros enarghes è ciò che rende manifesto l’invisibile abisso del desiderio di niente. A questo proposito Lacan moltiplica i riferimenti per delineare ciò che rende visibile l’invisibile. I riferimenti sono sostanzialmente due. Uno è il bello. Lacan lo spiega prendendo l’esempio delle scarpe da contadino dipinte da Van Gogh che, abbandonate, manifestano la presenza di un’assenza, e le mette in rapporto con una tensione temporale, ricorrendo addirittura all’idea di una generazione spontanea. Il bello, come segno del tempo, come segno di ciò in cui le cose trascorrono e mutano, appaiono e scompaiono, diventa l’indice stesso della creatività. Il bello non è imitazione proprio perché nasce piuttosto dall’inventiva. Che il bello non sia imitazione significa anche che non è in rapporto con la verità, ma con l’estro, con la produzione del nuovo, con il mutare, con il crescere e il morire. L’altro riferimento è Aidos, il pudore, la “barriera che preserva dall’apprensione diretta di quel che è al centro della congiunzione sessuale”(p.346). Sia il bello sia il pudore sono riconducibili al fallo, il significante-immaginario in presa con la vita che sempre scivola via, il coronamento inattuabile dell’esistenza, come è detto chiaramente in Analisi terminabile e interminabile, dove Freud precisa che proprio su questo punto s’incontra la roccia basilare dell’analisi. Questo permette di definire in modo preciso cosa l’esito di una psicoanalisi non è. La roccia basilare della castrazione infatti, sia per l’uomo sia per la donna, mostra che la conclusione di un’esperienza d’analisi non può consistere nella realizzazione del fallo, e in ciò che rappresenterebbe come acquisizione del Sommo Bene. La risposta alla domanda di felicità che la psicoanalisi può dare non va nel senso dell’acquisizione del Bene – questo è un aspetto su cui Lacan insiste con forza, ed è uno dei suoi maggiori punti di critica al platonismo – ma va piuttosto in direzione dell’accettazione di ciò che Lacan, attingendo anche qui all’Antigone, chiama l’Ate, la condanna che traversa le generazioni, l’uva verde mangiata dai padri che legherà i denti anche ai figli. Ate è la sventura, il termine con cui lo traduce Lacan è malheur. Qui si vede l’aspetto radicale, drammatico che sta sul fondo dell’esperienza psicoanalitica. Alla domanda di felicità, di bonheur possiamo rispondere solo con l’intimazione di accettare l’Ate, il malheur, la mancanza trasmessa dalle generazioni precedenti. Questo naturalmente non vuol dire niente di catastrofico, vuol dire solo che il soggetto, per collocarsi nella posizione dove può fare in modo che le cose vadano meglio, che gli vadano bene, non deve intralciarsi da sé inseguendo l’ideale di un Bene irrealizzabile. Le coordinate di questa posizione non sono date dal Summum Bonum, dal paradiso ritrovato, ma dall’Ate, dal segno della stirpe. Alla luce del successivo insegnamento di Lacan potremmo chiamarlo un segno di godimento, ma non è ancora in questi termini che si pone il problema nel seminario sull’etica. Tolto il Summum Bonum, il Bene celeste, cosa resta? Restano i beni, i beni terreni, e Lacan si domanda a questo punto se il successo dell’analisi debba consistere nella prospettiva di agio individuale, che vede collegato a quel che chiama service des biens, cioè dedicarsi all’amministrazione degli affari correnti. Il quesito dunque è: se consideriamo che l’etica non abbia più di mira la meta, prima platonica e poi teologica, del Sommo Bene, può allora avere forse come obiettivo la prospettiva utilitarista dei beni materiali? La risposta è però implicita nella stessa critica che Lacan ha sviluppato nelle lezioni precedenti alla visione utilitaristica. Lacan delinea qui con nettezza la distinzione tra due campi: quello dell’amministrazione dei beni che ha una sua legittimità, che riguarda la famiglia, la casa, la professione, la società, che riguarda insomma la sfera degli agi borghesi, a cui Lacan contrappone radicalmente il piano del desiderio. C’è una tendenza, che è cresciuta con il tempo, a promuovere fino alle estreme conseguenze, a rendere universale l’ordine fondato sull’amministrazione dei beni. Lo vediamo bene oggi, in un momento in cui il mercato è preso a modello universale, e inghiotte la politica, l’etica, le aree dei comportamenti tradizionalmente non mercantili. Questo non solo non risolve, secondo Lacan il rapporto dell’uomo con il desiderio, ma lo decisamente lo amputa, sulla scia dello stile puritano di un rapporto con il desiderio che consiste semplicemente nel mortificarlo. Il modello è senz’altro l’Inghilterra sotto il governo di Oliver Cromwell, che impose la riforma dei costumi, con la chiusura dei teatri e di tutti i luoghi di divertimento, tanto che quando fu restaurato il regno di Carlo II, questi venne chiamato the Merry Monarch, perché la sua incoronazione poneva fine al cupo periodo in cui ogni fonte di allegria e di gioia per la vita era considerata immorale. In modo diverso il periodo che stiamo attualmente vivendo, quello di un liberismo che universalizza il mercato facendone modello di ogni relazione umana e inaugura lo stile di vita dei protocolli e della valutazione, svuota la vita riducendola a prestazione, a ottimizzazione delle risorse, a gestione protocollare di procedure. Se anche la relazione tra medico e paziente è regolata in modo protocollare, come accade nella evidence based medicine, è chiaro che non c’è più spazio per la curiosità, per il desiderio, per un provvedimento che esca dal seminato, perché qualsiasi intervento non protocollare è esposto a rischio giudiziario. È noto che i medici sono tra le categorie professionali a più alto rischio di cause di risarcimento, e per le specialità di ortopedia, ginecologia, chirurgia, almeno una causa nel corso della carriera non è probabile, è praticamente certa. Il lavoro di ricerca in università poi, dovendosi fondare sulla valutazione dei beneficio che se ne possono ricavare, e se la ricerca deve essere giustificata dalla produzione di beni, sparisce il rapporto della ricerca con il sapere, con ciò che muove il desiderio dello scienziato. La totalizzazione della vita nella sfera dei beni, l’impero dell’utile, il liberismo sfrenato portano a una politica di estinzione del desiderio, che è il prolungamento con altri mezzi del modello puritano di Cromwell. Lacan segna allora questo spartiacque, sganciando l’etica della psicoanalisi dalla ricerca dei beni, per instradarla verso la via del desiderio. La versione che qui Lacan dà del desiderio è piuttosto drammatizzata: il desiderio è visto nel suo rapporto fondamentale con la morte, e l’idea guida è che l’esperienza psicoanalitica debba condurre chi vi si sottopone di fronte alla realtà ultima della condizione umana. Qual è questa realtà? È quel punto di fondo al di là dell’angoscia che Freud indica come Hilflosigkeit, il punto in cui il soggetto si trova senza nessun appiglio, e in cui non deve aspettarsi alcun aiuto da nessuno. Ciò che qui appare come una radicale disperazione, è in realtà il solo vero passaggio che risveglia l’uomo all’azione, che non lo induce ad alzare gli occhi al cielo in cerca di soccorso, e lo porta invece a raccogliere le forze per essere realmente nella vita. Si tratta, dice Lacan, di entrare in una regione in cui l’uomo arriva al termine di ciò che è e di ciò che non è. Per mostrare con maggiore chiarezza la geografia di questa regione, si richiama a due figure, quella di Edipo e quella di re Lear. Sono due personaggi che apparentemente seguono la stessa via, ma in condizioni molto diverse. Il primo è una figura che si staglia nella sua grandezza tragica, il secondo si delinea invece in un profilo ridicolo. Edipo innanzi tutto sfida la Sfinge, e cioè mette in gioco la propria vita, e questa è una prima indicazione. Seguire la via del proprio desiderio non è qualcosa che si possa fare adottando mezze misure. Edipo segue la sua curiosità, il suo desiderio di sapere, ma questo desiderio di sapere lo porta a superare dei limiti, a varcare le colonne di Ercole, vuol sapere di più. Nella ricerca di sapere di Edipo non si lascia portare da una curiosità di studioso borghese. L’amore del sapere ha un prezzo radicale. Vediamo questa estremizzazione nel rapporto con il desiderio anche in un altro personaggio a cui Freud ha dato un posto di rilievo: è il Bassanio del Mercante di Venezia, che deve scegliere tra tre scrigni per avere la mano di Porzia. La prova dei tre scrigni è una prova del desiderio, che si dimostra non andando verso ciò che tutti desiderano, perché tutti desiderano ciò che abbaglia, ciò che incanta e inganna, quell’oro che la fucina del diavolo trasforma in escremento. Non bisogna andare neanche verso una logica del merito, rappresentata dall’argento, perché chi fa valere i propri meriti ragiona in una logica degli scambi, dà solo quanto riceve, è un’economia da piccolo borghese. Solo chi mette in gioco tutto, rivolgendosi allo scrigno di piombo, che minaccia più di quanto non prometta, si può guadagnare l’inestimabile, quel che è fuori dalla parità degli scambi. Perché in effetti il desiderio si articola con l’impari, con l’inestimabile, ma per raccordarvisi deve passare per il grigio piombo della morte. Alla figura di Edipo, eroe tragico, Lacan contrappone quella ridicola di re Lear. Anche re Lear si ritira dall’amministrazione dei beni, ma in un modo completamente diverso da Edipo: re Lear non entra nella zona in cui il desiderio sfiora la morte, ma in quella della festa, dello spasso, alla ricerca della spensieratezza. Abbandonare l’amministrazione dei beni per re Lear è semplicemente la rinuncia all’onere di amministrarli, perché vuol mantenere il suo corteo di cavalieri e di damigelle e andare in giro come ospite delle figlie a cui consegna il carico della gestione.Vuole il frutto senza il lavoro di coltivare la pianta, ed è chiaro quindi che si trova disarcionato. Re Lear, dice Lacan, resta in panne perché “ha trasmesso liberamente quel che gli assicurava la forza”, e si è affidato solo al patto d’amore, coltivando l’idea di essere amato, e la sventura viene proprio dal fatto di essersi fondato solo su una fedeltà privata della forza che la vincola. Lacan fa qui una riflessione sulla natura degli obblighi, estendendola all’uomo comune, e mostrando come quella che chiama la compiacenza morale o l’alibi morale, il fatto cioè d’imporsi dei doveri, nasconda in fondo solo “il timore dei rischi a cui si va incontro se non ce li si impone”. L’esperienza d’analisi lo mostra chiaramente quando fa apparire come sia “più comodo subire il divieto che incorrere nella castrazione”. Se gettiamo ora uno sguardo d’insieme sul cammino che Lacan sta percorrendo nel seminario sull’etica, vediamo che da un lato presenta la dimensione tragica dell’analisi, dove il suo compimento avviene nell’assunzione della maledizione della stirpe, dove il desiderio si profila sullo sfondo della morte, dove i due corni della scelta che il soggetto deve compiere si delineano come quello della gestione dei beni e quello del desiderio. Beni e desiderio sono in alternativa disgiuntiva: o gli uni o l’altro. Sul terreno preparato nel seminario sull’etica, l’anno successivo, con il seminario sulla traslazione, Lacan avverrà il confronto e il regolamento di conti con il platonismo. Se il seminario sull’etica si concentra sulla critica stringente dell’utilitarismo, del modo di vita incentrato sull’amministrazione dei beni, e sull’universalizzazione del mercato, il seguito svilupperà in modo più deciso la critica al Summum Bonum, già abbozzata qui, come riconsiderazione del platonismo, e decostruzione dell’idea platonica di Bene, che definirà come una Schwarmerei, una fantasticheria. Lacan, che nella sua fare classica ha un versante platonico, con l’etica inizia a uscire dal platonismo e sviluppa un’etica alleggerita dalle premesse del platonismo, che s’incentra evidentemente sulla nozione di Bene. Cosa significa questo? Significa abbandonare una visione del mondo dove tutto ciò che esiste emana dal Bene e agisce grazie a esso, significa smettere di considerare un mondo dove l’Uno, che in Platone è il Bene, domina sull’essere e sugli enti, significa uscire dalla trascendenza dove è a partire dal Bene che si formula il giudizio sull’azione umana, e dove l’azione dell’uomo riceve un valore per il fatto di essersi conformata al Bene inteso come un valore assoluto. L’etica del Bene è un’etica del giudizio, è di carattere superegoico, e resta sempre incastrata nel paradosso messo in luce da Freud nel Disagio della civiltà, per cui quanto più l’uomo si adegua al dettato del Superio, tanto più ne sente il peso e il senso di colpa. Ogni etica del giudizio è bloccata in questo paradosso. Per questo Lacan disegna un’etica che implica il rovesciamento del platonismo, cioè l’abbandono del riferimento a un assoluto. Si tratta di un passo significativo, perché il riferimento all’assoluto è stato centrale nel pensiero occidentale nell’etica, e ha il proprio culmine in Kant, che è il primo pensatore a svuotare il pensiero etico di ogni riferimento al Bene, ma perché assolutizza al suo posto il dovere. Per questo Lacan, nel seminario sull’etica mette Kant e Sade uno di fronte all’altro, li articola mostrando il volto sadico di Kant e l’ossessione dell’imperativo in Sade. L’assoluto del dovere e l’imperativo del godimento sono due lati di uno stesso problema. Lacan riprende questo tema proprio nelle lezioni conclusive del seminario, quasi a farne il suggello del suo percorso. “La morale tradizionale definiva quel che si doveva fare nella misura del possibile, come si suol dire, e come si è costretti a dire. Bisogna smascherare il punto chiave per cui essa si situa così, e non è nient’altro che l’impossibile, in cui riconosciamo la tipologia del nostro desiderio. Il superamento ci è dato da Kant, quando pone che l’imperativo morale non si preoccupa di quel che si può o non si può. La testimonianza dell’obbligo, in quanto ci pone la necessità di una ragione pratica, è un Devi incondizionato. Tale campo trae tutta la sua portata dal vuoto in cui lo lascia, se si applica in tutto il suo rigore la definizione Kantiana” (p.366). È questo posto delineato in filigrana da Kant quello in cui riconosciamo le coordinate del desiderio. Kant, in negativo, individua un posto del desiderio, e possiamo dire che, in un certo senso, la formula con cui Lacan conclude il seminario: “Non cedere sul proprio desiderio” è un traduzione di della formula kantiana che impone di: “Fare il proprio dovere”. Tutto fin qui andrebbe bene, dice Lacan, se non fosse che Kant reintroduce, in altro modo, una contabilità che declina il dovere in direzione del merito, come se, all’ultimo momento, dopo aver ben guardato lo scrigno di piombo, scegliesse quello d’argento. In un certo senso Lacan ci fa vedere che dietro lo scrigno di piombo Kant nasconde ancora lo scrigno d’argento, quello che contabilizza il merito. Come si distoglie Kant dalla via del dovere incondizionato per ritrovare la via del merito? Con la prova dell’immortalità dell’anima. Attraverso l’argomentazione di questo tema si reintroduce infatti un riferimento in Kant al Bene Supremo che aveva eliminato, anche se lo ritrova in una diversa versione. In un’etica in cui l’idea centrale è fare categoricamente – senza deflettere – il proprio dovere, il Sommo Bene, la fonte della felicità, è la virtù. Troviamo allora che la virtù è il Bene Supremo ma, per essere tale deve essere unita alla felicità. Kant si rende conto però che in questo mondo felicità e infelicità dipendono ampiamente da cause naturali, da colpi o da rovesci di fortuna. Le cause naturali ovviamente non sono connesse ai meriti, e questo fa sì che la felicità a sua volta non lo sia. Ci dev’essere allora un’altra vita, dove la felicità è necessariamente connessa alla virtù, e quindi al merito. Questo è quel che Lacan chiama contabilità, e che esemplifica anche in modo meno aulico che con Kant, riferendosi al film di Jules Dassin Mai di domenica. È la storia, che si svolge in Grecia, di una prostituta per vocazione – da cui si capisce il senso del titolo. Conoscendola, un visitatore americano se ne innamora e si prefigge di redimerla. Entra allora in conflitto con l’entourage locale della ragazza, interpretata da una splendida Melina Mercouri, un conflitto che in diversi momenti degenera in risse. Le scazzottate nelle taverne greche finiscono per sfasciare un po’ di arredamento, e le spese di questi dissesti vengono contabilizzate, e rese visivamente nel film dall’immagine di un contatore di cassa che fa tintinnare il suo campanello, facendo da contrappunto alle risse del moralista americano. Questa contabilità dei meriti mantiene l’orizzonte dal senso di colpa. Nel mondo retto dalla logica o dall’etica dei meriti infatti, quando sacrifico qualcosa lo faccio sempre con riserva. Se perdo qualcosa è sulla base di un calcolo per ritrovarlo remunerato con gli interessi. Conduco una vita retta e parca su questa terra solo per avere il godimento differito di entrare in un momento successivo nella cerchia degli eletti e dei beati. A volte questo modo di fondarsi sul merito, privandosi del vantaggio immediato, è accompagnato da una sfumatura sadica, evidente in alcune descrizioni antiche dei beati che godono nel vedere le sofferenze dei dannati all’inferno. La teologia contemporanea non presenta più immagini simili, perché non sono in sintonia con la sensibilità contemporanea, ma è evidente che nel mondo fondato sul merito il godimento assoluto ha bisogno del contraltare di una dannazione altrettanto assoluta. Questo va necessariamente insieme a un certo senso di colpa. Ora una cosa è il senso di colpa e altra cos’è la responsabilità. Per dirlo in modo semplice e immediato, il senso di colpa è trascendente: sono messo di fronte a un modello che mi trascende e il senso di colpa misura la mia inadeguatezza a esso. È il dominio di quello che Spinoza chiamava le passioni tristi. Nella responsabilità invece ho deciso mia la strada, che voglio seguire, e so che spetta solo a me percorrerla e sopportarne le eventuali conseguenze. Per questo Lacan formula il problema in modo molto radicale, dicendo che “l’unica cosa di cui si possa essere colpevoli, nella prospettiva analitica, è di aver ceduto sul proprio desiderio”(p.370). Fare le cose in nome del desiderio è tutt’altra questione che farle in nome del Bene, dove ci si può sempre chiedere: “In nome del bene di chi?” Lacan delinea la figura dell’eroe proprio a questo punto: l’eroe è chi va incontro al proprio destino. L’eroe non è la figura d’eccezione, è l’uomo comune e – dice Lacan – “In ciascuno di noi è tracciata la via per un eroe, ed è da uomo comune che la si percorre”. Non è l’impresa straordinaria a qualificare l’eroe, ma il fatto di passare attraverso le passioni in cui l’uomo comune s’ingarbuglia. Sembra un’espressione tratta dall’ultimo insegnamento di Lacan, quando sostiene che occorre se debrouiller avec le symptôme. Così l’eroe non è solo Antigone, ma anche per esempio Filottete, che non compie nessuna impresa memorabile, se non starsene dieci anni nell’isola in cui viene abbandonato dai compagni perché la sua ferita puzza troppo. Perché Filottete allora è un eroe? Perché persevera aderendo al proprio odio fino in fondo. La dimensione dell’eroe, ma anche quella del pensatore, dell’uomo d’azione, dello psicoanalista, è di andare fino in fondo, al di là del tornaconto dei beni, un al di là il cui nome sarà agalma, la cosa preziosa, la cosa che il denaro non può acquistare. Deviando da questo tracciato si incontra sempre solo la dimensione del tradimento, sia quando si tradisce l’altro spinti dall’idea di un bene, di un vantaggio materiale, sia sopratutto quando si tradisce se stessi, cosa che avviene quando si riducono le prospettive alla malparata, quando, date le circostanze, si abbassano le proprie pretese, si dice di sé stessi, o dell’altro, che non si vale poi tanto, che il gioco non vale la candela e che è meglio rientrare nei binari della vita ordinaria. Questo è cedere sul proprio desiderio, e su questa via s’incontra il disprezzo di sé e dell’altro. Il senso d’inadeguatezza, che tante volte s’incontra nell’esperienza clinica, è legato a quest’incapacità di tenere la via del desiderio certamente più che non al dovere della prestazione. L’ansia di prestazione mostra in ultima istanza sullo sfondo ancora una riserva sul desiderio, un’esitazione nel giocarsi fino in fondo, un attaccamento a qualcosa che si teme di abbandonare, fosse anche, se non un bene, l’immagine narcisistica su cui il soggetto si sostiene, e che costituisce il suo rifugio.
3 Comments
22/3/2016 11:29:26 am
Questo è un ragionamento di grande valore e da più punti di vista. Se l'etica del desiderio dovrebbe essere l'unica etica guida del soggetto, non possiamo non ammettere che lo dovrebbe essere a maggior ragione in una società votata alla omogeneità più spietata e radicale. Oggi l'etica del soggetto si presenta come un atto politico assoluto perché la sopravvivenza del soggetto ha assunto la necessità del mettersi contro, del dire di no, dell'articolare un "io non ci sto " che espone all'esclusione. Perciò viene da chiedersi se e come, in futuro, la clinica non sarà costretta a diventare anche una clinica "dei rifugiati" ossia di quei soggetti che vivono il disagio dell'essere non omologati. Un secondo punto veramente importante (sarebbe utile che chiunque coglia avvicinarsi alla psicoanalisi leggesse questo post di Marco Focchi) è a mio parere questo: la dimensione dell'eroico elaborata da Lacan entra in conflitto (ma un conflitto che dovremmo imparare a considerare salutare) con la tendenza a vedere nel grandioso il senso ultimo di una esistenza. I risultati roboanti sul lavoro (il culto della performance ), la brillantezza della resa sociale ed erotica, viaggi oltre oceano in posti di cui non si sa nulla ma di cui è bene vantarsi su Facebook, in generale un iper investimento nel grandioso sono tratti comuni nelle persone, ormai. Sembra che la normalità sia "troppo", eccessivamente umana per essere accettabile. Ma, come spiega Focchi, la normalità è invece molto impegnativa, sicuramente di più che un biglietto aereo comprato su edreams. La normalità è quella mediazione estrema con i propri limiti su cui si costruisce l'intero lavoro dell'inconscio e del sapere su di se', che è poi la promessa per la conoscenza - minima - del mondo. Questa mediazione è a mio parere fatta della possibilità dell'incontro con la contingenza, con la intensità e con la imprevedibilità. Anche questi sono attributi di agalma, la bellezza. L'esempio fornito da Focchi - Filottete - me ne ha fatto venire alla mente un altro di recente lettura. Proviene da un romanzo di G.W.Sebald, Gli Emigrati. Max Freber è un pittore sconosciuto e povero di Manchester . Dipinge senza sosta una tela che poi gratta, perché incapace di fissare per davvero l'immagine ideale che ha in animo. Il suo soggetto gli sfugge. Vive con un albero di mandorle e un gatto. Gli occorrono venti anni per smettere di scorticare le sue tele e arrivare così ad esporre alla Tate di Londra. Ferber è un uomo essiccato dal suo trauma - rimasto orfano da bambino - che però rimane fedele alla sua ferita sono alla fine. Non la usa come allibiti, la usa per dipingere. Questa è la psicoanalisi oggi, a mio parere. Imparare a essere eroi senza finire in prima pagina.
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Marco Focchi
22/3/2016 05:02:10 pm
Cara Elisabetta, grazie mille per le sue osservazioni, che sono sempre molto stimolanti! Un saluto
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