![]() Conferenza tenuta il 14 gennaio 2012 presso lIstituto freudiano di psicoanalisi Marco Focchi Il caso di Anna O. è quello che potremmo definire come il caso paradigmatico della psicoanalisi, il caso zero. Viene con esso infatti alla luce il meccanismo su cui si fonda l’interpretazione in senso propriamente analitico. Vediamo all’opera qui, per la prima volta, la connessione tra un sintomo e il ricordo di un episodio, e si fa luce il meccanismo per cui il recupero del ricordo induce la remissione e la sparizione del sintomo. Naturalmente quando consideriamo il sintomo nel testo di Freud non dobbiamo dimenticare che inizialmente Freud è innanzitutto un medico preoccupato di trovare una cura per una patologia un po’ difficile, e che il sintomo entra quindi per lui in una costellazione di concetti accanto, tra l’altro, al segno e alla sindrome. Il sintomo è un indice soggettivo, qualcosa che viene lamentato dal paziente, e può avere riscontro in un segno oggettivo, che viene riscontrato dal medico, mentre un insieme di segni conduce a quella che si definisce come un’entità patologica. Ridotto il corpo a oggetto dello sguardo medico la medicina ottocentesca fa passi da gigante nel riconoscimento delle patologie e nel loro trattamento. Di fronte alle manifestazioni dell’isteria invece, la medicina non può predisporre le collaudate strategie terapeutiche messe a punto da una disciplina sempre più integrata alla scienza, perché non reperisce la sicura correlazione del sintomo con un’entità patologica oggettiva. Più che l’atlante anatomico le contratture isteriche tendono a seguire la cartografia fantastica dei mesmeristi, e occorre per questo dare il giusto peso al corpo vissuto fantasmatico, che non coincide necessariamente con quello costruito in base allo studio dei cadaveri.
I sintomi di Anna O. sono tanti e tali che il biografo di Freud, Ernest Jones, li descrive come un “museo di sintomi”, una sorta di campionario di tutte le possibili affezioni dell’isteria. In effetti questa fanciulla ventenne presenta una varietà di contratture, di disturbi visivi, di impedimenti di linguaggio, di disturbi nell’alimentazione. Il catalogo di malanni di cui soffre Anna O. sembra praticamente inesauribile, ed è variato con grande inventiva. Si manifesta però con maggiore evidenza, agli occhi di Joseph Breuer – il collega anziano di Freud che segue il caso – una sorta di sdoppiamento della personalità che fa oscillare la paziente tra una situazione in cui si presenta con il proprio io normale, e una in cui sembra esibire quella che Breuer, riprendendo un termine di Eugene Azam, definisce una condition seconde. Il caso di Anna O. è certamente un campionario di sintomi non comune, ma non è questo il motivo per cui diventa il paradigma di riferimento della psicoanalisi, il caso princeps che costituisce un modello insostituibile, il capostipite da cui prende avvio la serie dei casi che formano la letteratura psicoanalitica. Proprio per il suo carattere fondativo, come si può immaginare, il caso è stato esaminato in tutti i modi, i suoi dettagli sono stati verificati, la veridicità storica dei fatti in esso contenuti è stata meticolosamente vagliata. Il caso di Anna O. è diventato così come un campo di battaglia tra i sostenitori e i detrattori della psicoanalisi. Per sgombrare il campo da alcuni equivoci credo sia importante innanzi tutto considerare cosa significa un caso nel senso in cui ne parliamo in psicoanalisi. In primo luogo un caso in psicoanalisi non è elemento che rientra nell’insieme di cui si compone una casistica, non appartiene cioè a una serie che viene raccolta con l'intento di desumerne un principio generale. La collezione di casi finalizzata a determinare una casistica si basa su principi statistici. Quando si vuol realizzare una casistica operatoria, per esempio, si procede a una raccolta ordinata, per dar luogo a una stesura e a una elaborazione di dati, e per scoprire le leggi che regolano un insieme solo apparentemente caotico di elementi, definendo una variabile di riferimento. Il problema che si pone in primo luogo con la statistica è quello della misurazione. Se i dati non sono quantificabili, l'intera ricerca risulta inutile. La statistica si basa inoltre sull'inferenza: se i dati misurati su un campione sono validi, possono essere considerati validi per tutta la popolazione che si vuole studiare. Questo può sembrare un metodo particolarmente moderno, ma all'epoca di Freud esisteva già. Ignac Semmelweis, per esempio – su cui Ferdinand Celine scrisse la sua tesi di medicina – appartiene a una generazione di medici precedente a quella di Freud. Semmelweis visse infatti nella prima metà del diciannovesimo secolo e, per scoprire le cause della febbre puerperale, applicò un metodo che si può senza esitazione definire statistico, e che Celine sa rendere straordinariamente vivo nel suo racconto. Per gli Studi sull’isteria, dove è riportato il caso di Anna O, vediamo che le cose vanno diversamente: abbiamo il caso di Anna O., poi quello di Emmy von N., poi quello di Lucy R., poi quello di Katharina, e questi casi non sono messi in serie, non vengono da essi estratti dati quantificati, e non ne vengono desunte generalizzazioni. Gli Studi sull'isteria non sono composti con il criterio di un'indagine funzionante in base al metodo statistico: ogni caso è una storia a sé. I casi non sono mai astratti dalle loro qualità singolari per farli diventare numero. Ogni sviluppo narrativo presenta peculiarità che non sono traducibili in principi universali. Non è la legge del numero qui a valere, ma il carattere esemplare del caso in quanto tale. Breuer e Freud non puntano a un passaggio dal singolare al generale, dal caso alla legge, e la psicoanalisi non nasce da una raccolta di dati né da una campionatura, ma da una serie di racconti che rimanda a una realtà fantasmatica – il teatro privato di Anna O. – più che a una realtà storica o empirica. Ogni racconto si costituisce nella propria verità. Il punto qualificante di un caso preso nella prospettiva psicoanalitica – a differenza di uno preso nel campione statistico – è il suo carattere non oggettivabile, carattere che lo rende irriducibile al numero. Il caso analitico ha senso infatti solo nella misura in cui porta in sé un segno della traslazione. Nella descrizione oggettiva, riconducibile alla statistica, l’oggetto descritto è indipendente alla descrizione. Non possiamo dire la tessa cosa per l’oggetto di desiderio che appare nei racconti presentati negli Studi sull’isteria, dove si evidenzia piuttosto il tratto inoggettivabile del desiderio. È importante considerare che non si tratta solo del desiderio del soggetto in trattamento, ma anche del desiderio dello psicoanalista. Nel caso di Anna O. chi fa funzione di psicoanalista è Breuer. Il primo caso propriamente analitico, il caso paradigmatico, costitutivo dall'esperienza psicoanalitica, non proviene da Freud, ma dal suo più anziano collega, ed è stato inserito negli Studi sull’isteria solo su insistenza di Freud, che ha indotto Breuer a riprendere gli appunti della cura condotta una decina d’anni prima. Il desiderio che si esprime nella traslazione di Anna O. su Breuer ai nostri occhi è ormai trasparente in molti punti significativi che affiorano tra le note del caso. Sappiamo infatti che la traslazione singolarizza un particolare altro, lo estrae dalla serie e dandogli un posto privilegiato. Dopo la morte del padre, per esempio, Anna produce un nuovo sintomo: la difficoltà di riconoscere i volti. La paziente non riesce a collegare nomi e volti di chi ha di fronte, e deve in un certo senso ricostruire l'identità delle persone assommando i loro tratti somatici. Tutte le persone diventano così come “figure di cera”. Breuer invece, a differenza di tutti gli altri, era il solo a essere sempre riconosciuto. "Io solo ero sempre riconosciuto – scrive – e rimaneva sempre presente e desta fintantoché parlavo con lei, salvo le assenze allucinatorie che intervenivano sempre in modo improvviso”. Un altro segno inconfondibile della traslazione nei confronti di Breuer è relativo al fenomeno delle allucinazioni negative. Quando, dopo la morte del padre, un altro medico è chiamato a consulto, Anna non lo vede, e non ne registra la presenza neanche quando lui tenta di interloquire con lei. Le si manifesta solo quando le soffia del fumo in faccia, e la sua apparizione improvvisa, sentita quasi come una violenza, provoca in Anna un accesso d’angoscia e d’ira. L’aspetto interessante del caso sta tuttavia nel peculiare modo in cui ci permette di rilevare i segni del desiderio di Breuer nei confronti di Anna. Li possiamo cogliere infatti solo attraverso la maschera dell’omissione, che risulta chiaramente leggibile nelle poche righe relative alla conclusione della cura. Dopo aver descritto il metodo elaborato per realizzare la terapia di Anna, Breuer sottolinea come nell'ultimo periodo la ragazza si dedicasse con particolare intensità a quella che lei stessa aveva battezzato talking cure. Grazie alla cura della parola Breuer era riuscito a risalire all'allucinazione d’angoscia che le aveva impedito di parlare la propria lingua materna, il tedesco, costringendola ad esprimersi solo in inglese. Anna riusciva ora di nuovo senza fatica a esprimersi nella sua lingua materna, e si era liberata, uno per uno, dai sintomi che l’avevano tormentata nel corso della malattia. Aveva quindi avuto una completa remissione delle manifestazioni sintomatiche. Un vero e proprio successo terapeutico. Dopo questa guarigione però, Breuer scrive che Anna lasciò Vienna per un viaggio, e “le ci volle tuttavia parecchio tempo prima di ritrovare del tutto il suo equilibrio psichico. Da allora gode perfetta salute". La conclusione sembra stridente: guarisce da tutti i sintomi e poi le ci vuole ancora parecchio tempo per recuperare la salute. È chiaro che c’è qui quanto meno qualcosa di non esplicitato. Gli Studi sull’isteria furono pubblicati nel 1995, e il caso di Anna fu trattato da Breuer tra il 1881 e il 1882, ma il retroscena di questa omissione fu svelato da Freud solo nel 1932 in una lettera a Arthur Tansley, suo ex paziente e fondatore dell'ecologia in Gran Bretagna. I dettagli della vicenda sono poi stati resi pubblici nel 1953 da Ernest Jones nella biografia di Freud. Freud scrive che dietro le scarne righe conclusive di Breuer si nasconde in realtà la sua fuga. Breuer abbandonò la paziente, e Anna ricadde in uno stato grave di malattia. Restò a lungo ricoverata in una clinica in Svizzera, il Burghöltzli, l’istituto diretto da Eugen Bleuler. Alla fine i disturbi cessarono ma, dice Freud, quella di Anna fu una guarigione con un difetto, eine Heilung mit Defekt. Oggi sappiamo bene perché Breuer sia fuggito nel momento conclusivo. Breuer nella cura con Anna O., che si è svolta con incontri quotidiani per diciotto mesi, ha trascorso con lei molto tempo, rimanendo esposto ai segni espliciti del di lei desiderio che, come appare chiaro nel resoconto della cura, lui aveva perfettamente colto. E doveva essersene accorta anche Mathilde, la moglie di Breuer, che aveva cominciato a manifestare chiari indici di gelosia. Freud ritiene dunque che Breuer si fosse accorto di corrispondere ad Anna – quel che oggi chiameremmo controtraslazione – e spaventatosi dei suoi stessi sentimenti non abbia voluto procedere. La sua fuga nasce quindi dal fatto che Breuer, uomo maturo ma ancora nel fiore dell’età, si accorge di non essere indifferente alla predilezione che la sua giovane paziente gli dimostra. Il tutto ha un momento culminante in una scena fortemente drammatizzata, raccontata da Freud in una lettera a Zweig, sempre nel1932. La sera seguente al giorno in cui tutti i sintomi erano stati risolti grazie alla terapia, Breuer viene richiamato presso Anna, e quando arriva la trova in preda a grande agitazione con forti dolori all'addome. Le domanda cosa abbia e Anna risponde: "Adesso verrà il bambino che ho avuto dal dott. Br". In quel momento Breuer, secondo il racconto di Freud, preso da panico convenzionale, volta i tacchi e se la fila, lasciando la paziente in carico a un collega. Parte quindi con la moglie per Venezia in una sorta di secondo viaggio di nozze, facendo fare alla moglie, in questa replica di luna di miele, il figlio che Anna gli aveva attribuito. Come si può immaginare, l’attendibilità storica di questa ricostruzione è stata passata al setaccio in tutti i modi dagli studiosi. Per quel che ci riguarda, possiamo dire che la verità fattuale della vicenda, dal nostro punto di vista, non ha alcuna rilevanza. Parliamo infatti del caso di Anna O., non della storia di Bertha Pappenheim. Questa ricostruzione dei fatti – la controtraslazione di Breuer su Anna, la sua fuga, la gravidanza isterica, la figlia nata tramite lo spostamento del desiderio da Anna alla moglie – tutto questo fa parte dell’interpretazione di Freud, che tocca un nucleo così reale da essere senz’altro decisivo in ultima istanza. Non è un problema di verità storica, di esattezza circostanziale. È un problema strutturale di clinica. In nessun caso clinico psicoanalitico ci si pone il quesito della realtà fattuale di quel che il paziente racconta: quel che ci dice trasmette, o ci nasconde, la verità che conta per lui, che sia storicamente accaduto o no. È un po’ come i cento talleri di Kant, la cui esistenza reale non cambia nulla rispetto al concetto. Lo stesso vale per i cosiddetti ricordi di copertura, che possono riferirsi o no a fatti realmente accaduti, ma dove la realtà dei fatti a cui si riferiscono è l’ultima delle nostre preoccupazioni, perché i ricordi di copertura sono un modo di mettere in forma la realtà impalpabile di una struttura che può trovare espressione solo attraverso la finzione-vera di cui si costituisce il racconto. Se confondiamo la realtà dei fatti con il senso che gli episodi della vita del soggetto assumono per lui, ci perdiamo in un labirinto infinito di storicismo positivista poco pertinente con quel che ci interessa dal punto di vista psicoanalitico. Quel che ci interessa, nella prospettiva della clinica psicoanalitica, è l’affermazione di Freud che la guarigione di Anna O. è incompleta perché non ha potuto avervi spazio l’elaborazione della traslazione o, meglio, perché la traslazione è entrata nella cura in modo incontrollato, facendo esplodere tutto e portando i protagonisti su strade divergenti verso diverse soluzioni, ciascuno la propria. La soluzione di Breuer fu quella del secondo viaggio di nozze, fu reinventarsi l’amore per la moglie, o riversare su di lei la scossa sentimentale che Anna gli aveva suscitato. Fu una risposta con effetto immediato. La soluzione di Anna si sviluppò invece nei tempi lunghi, e fu senz’altro un modo di guarigione differito, il cui primo impulso venne dalla terapia svolta con Breuer. Si tratta, per Anna, dell’impegno sociale che la portò a battersi a favore degli orfani e in difesa delle ragazze intrappolate nella tratta delle bianche e cadute poi nel gorgo della prostituzione. Anna sviluppò dunque un senso di protezione del debole, le cui premesse si possono già vedere nel materiale del caso presentato da Breuer. La propensione a prendere le parti delle vittime appare per esempio nell’episodio in cui fustiga spietatamente il cane di Terranova suo beniamino quando questo aggredisce un gattino inerme. Rileggendo, nel 1932, il caso di Anna O. in base alla controtraslazione di Breuer, Freud ha ben presente che si tratta di una difficoltà che lui stesso ha incontrato, ed è un aspetto della cura psicoanalitica che gli si è chiarito con il caso di Dora, quando anche lui ha inciampato nel problema della traslazione, ottenendo un risultato incompleto o, per riprendere i termini che ha usato con Anna O., una “guarigione difettosa”, o ancora, piuttosto, un trattamento con una pecca Il Freud che interpreta il caso di Anna O. con la fuga di Breuer vede in Breuer lo specchio di quel che è accaduto a lui parecchi anni dopo. Lui non è fuggito, ma non ha messo in gioco il suo desiderio quando Dora gli ha detto che avrebbe interrotto il trattamento, e l’ha semplicemente lasciata andare. Se diciamo quindi che non ci interessa la ricostruzione empirica dei fatti nella psicoanalisi, è perché questa non ha valore se i fatti non includono lo sguardo di chi sta osservando. Il quadro clinico deve delineare la parte che il desiderio dell’analista ha nell’insieme dello svolgimento della cura. Il quadro clinico è come il quadro di un pittore, che è diverso dall’oggettività fotografica – se mai esistesse – perché mostra, insieme al soggetto, anche lo sguardo stesso del pittore. Las meninas mette sotto la lente d’ingrandimento questo aspetto, lo esibisce in modo macroscopico. Ne Las meninas lo sguardo di Velasquez è il vero e proprio protagonista, ma ogni quadro è così: se vogliamo vedere un bel paesaggio andiamo in riva al mare, in campagna, o in montagna, ma se andiamo al Louvre a vedere un paesaggio di Claude Lorrain è perché stiamo cercando qualcos’altro che non le forme sublimi della natura. La clinica psicoanalitica è, come diciamo abitualmente, una clinica sotto traslazione, ovvero una clinica che include nel proprio quadro lo psicoanalista. Se prendiamo come riferimento questa definizione possiamo capire perché, in uno dei suoi ultimi interventi all’Ecole freudienne de Paris Lacan, interrogato sulla guarigione in psicoanalisi, sottolineasse il ruolo che ha in questa la traslazione. La guarigione viene infatti da quel che si dice nella cura, ma il modo in cui lo si dice conta forse anche più del contenuto, e il modo giusto di dire le cose viene senz’altro dalla sensibilità personale di chi le dice. La stessa cosa si può presentare in molti modi e in tempi diversi, e su come o quando dirlo non ci sono prescrizioni possibili, più di tutto vale l’esperienza dello psicoanalista. Tutto prende senso ed è effettivo soltanto se si svolge all’interno di una relazione dove si è stabilita la traslazione, dove cioè esiste una relazione di fiducia che rende possibile dar peso alle parole. A funzionare non è l’automatismo del linguaggio, o la macchina interpretativa, o l’ermeneutica che cerca il senso nascosto. Perché il lavoro analitico prenda consistenza occorre una relazione di fiducia che ha il proprio punto di ancoraggio in quel che Lacan chiama soggetto supposto sapere. Il soggetto, in un certo senso, formula l’ipotesi che in un punto al di fuori del suo orizzonte ci sia un sapere, collocato in un’altra scena rispetto a quella della coscienza, un sapere che lo riguarda. Lo psicoanalista deve essere in grado di rapportarsi con il luogo in cui questo sapere è supposto, e attivare per questa via l’operazione analitica. Senza il dispositivo della traslazione tutto il senso che possiamo far risalire alla coscienza mantiene un carattere puramente ipotetico, dove il paziente potrebbe dirci che la nostra interpretazione è senz’altro interessante, potrebbe persino essere vera, ma in cosa lo riguarda? Consideriamo come si svolge concretamente la cura di Anna. Breuer, abbiamo detto, visita la sua paziente quotidianamente. Anna vive una vita monotona, ma è una ragazza piena di fantasia e si intrattiene con invenzioni rigogliose e sogni straordinari ad occhi aperti. Questa attività mentale si svolge costantemente e provoca in Anna una sorta di sdoppiamento: se qualcuno le si rivolge per chiederle qualcosa risponde a tono senza che nessuno si accorga di nulla. Queste fantasie, che sono una forma di soddisfacimento surrogativo, eccitano Anna, ma la sua eccitazione non ha possibilità di scaricarsi nell’azione. Quando Breuer viene da lei per la sua visita quotidiana Anna comincia allora a raccontargli delle storie, e questo la calma, e se per qualche motivo, quando Breuer la mette in ipnosi, lei non riesce raccontargli una storia, non riesce neppure a calmarsi e il giorno dopo deve raccontarne due per recuperare. Questa modalità di lavoro resta costante per tutto il periodo in cui Breuer vede Anna. Raccontare storie consente ad Anna di allentare le tensioni, di scaricare la propria energia e di smorzare la propria ribellione. Per questo Anna aveva battezzato la sua cura chimney sweeping, la cura spazzacamino. Breuer-spazzacamino veniva a ripulirla dalle scorie, ad alleggerirla, a darle sollievo permettendole di parlare. Con questa modalità di raccontare le proprie storie che Anna aveva inventato era nata la talking cure, ma non ancora la psicoanalisi. Ad Anna parlare faceva bene, e l’idea che parlare faccia bene oggi si è generalizzata, è diventata un luogo comune. Nelle più diverse istituzioni si moltiplicano i centri di ascolto. Le persone hanno bisogno di parlare, di raccontare le loro storie, di liberarsi, di sentire che si fa loro attenzione e che i loro guai vengono riconosciuti. Quel che però costituisce il nucleo generatore della psicoanalisi appartiene a un altro lato della cura di Anna, un passaggio molto noto e spesso commentato. Riguarda il momento in cui emerge un sintomo specifico manifestatosi nel corso di un’estate molto calda, durante la quale Anna aveva sofferto parecchio di sete e al tempo stesso, senza sapere dire perché, le era diventato impossibile bere. Breuer osserva che Anna si comportava come un idrofoba, respingendo il bicchiere appena tentava di avvicinarlo alle labbra. Riusciva dissetarsi solo mangiando frutta. Questa situazione si era protratta per oltre un mese finché una sera, mettendola in stato ipnotico, Breuer la fa parlare e Anna comincia a discutere della sua antipatia nei confronti della dama di compagnia inglese. Rievoca allora un episodio in cui, entrando nella sua stanza, vide “quella bestia ripugnante” – cioè il cagnolino della dama – bere da un bicchiere. In quel momento, per non uscire dai canoni delle buone maniere, non aveva detto nulla. Nella rievocazione Anna sfoga però energicamente tutta la rabbia che le era rimasta in corpo durante l’episodio, dopodiché chiede dell’acqua, e ne beve senza difficoltà un grande quantità. Si sveglia dall’ipnosi con il bicchiere ancora accanto alle labbra, dopodiché il disturbo è scomparso per sempre. Questo breve episodio costituisce il nucleo generatore della psicoanalisi. Qui infatti c’è la prima intuizione di come si costituisce il sintomo in senso psicoanalitico. Se consideriamo infatti la sequenza riportata da Breuer all’origine del sintomo, vediamo un episodio che provoca una forte emozione. In questo caso si tratta di un’emozione di ripugnanza, di un senso di disgusto, di qualcosa che fa dire al soggetto “Voglio allontanare da me l’immagine collegata a questo sentimento insopportabile”. Potremmo considerare questa ripugnanza del tutto naturale, ma non ci facciamoci troppo facilmente sviare dal fatto che il cagnolino beve nel bicchiere, e che questo potrebbe semplicemente costituire un’immagine di scarsa igiene, perché il problema non è affatto l’igiene. Il racconto di Breuer ci fa capire che l’avversione si rivolge innanzitutto alla governante inglese. Il primo spostamento incosciantemente realizzato dalla paziente va dunque dalla persona della governante all’immagine dell’animale. Non sappiamo gran che sui rapporti tra Anna e la sua governante inglese, nulla più di quanto ce ne dice Breuer, sappiamo cioè solo il fatto che l’aveva in antipatia. Potremmo considerare in questa luce significativo che, dopo la prima fase di disorganizzazione del linguaggio, la paziente parli solo inglese. Potremmo essere condotti a fare delle ipotesi a partire da qui, ma non abbiamo elementi. C’è poi un altro cagnolino che compare nella storia, il Terranova che lei prende a frustate dopo l’aggressione al gattino. Ma anche qui potremmo fare solo congetture. Quel che vediamo con chiarezza invece è lo spostamento dalla donna al cagnolino, prima, e la sparizione del ricordo dell’episodio dello stato cosciente poi. La sparizione del ricordo lascia una lacuna nella coscienza, e potremmo fermarci qui. La storia però non si ferma qui, perché la lacuna del ricordo viene colmata da un sostituto che svolge le stesse funzioni dell’episodio. Perché non può restare semplicemente la lacuna e deve formarsi un sostituto? C’è una sola risposta possibile: perché il sostituto, accanto al sentimento di repulsione legato all’episodio, dà al soggetto una forma di soddisfacimento. Anna prova avversione e reprime la propria rabbia, si contiene per ragioni di decenza, ma sente prepotentemente il bisogno di sfogarsi. Il sintomo d’idrofobia che sviluppa va esattamente in questo senso: le permette di esprimere la propria rabbia in forma differita e mascherata. Cosa bisogna vedere in questa modalità espressiva? Che non c’è solo un senso del sintomo, un senso che si tratta di interpretare risalendo all’episodio dimenticato, ma che c’è anche un soddisfacimento attuale che il sintomo offre. La duplice funzione del sintomo in senso analitico è già pienamente presente nel primissimo momento in cui la questione si presenta e viene formulata da Freud e da Breuer. L’episodio germinale della psicoanalisi nella storia di Anna O. contiene già a tutti gli effetti i due versanti del sintomo, che vedremmo oggi per un lato nella correlazione con l’inconscio, per un altro lato nel rapporto con la pulsione. La formalizzazione del sintomo che molti anni dopo verrà data da Lacan non è strutturalmente diversa dalla prima versione freudiana. Lacan definisce il sintomo come una metafora il cui significato è rimosso. È esattamente quel che si vede nel caso di Anna O. Cosa viene rimosso? Viene rimossa la scena del cagnolino. Che significato potrebbe avere il sintomo d’idrofobia senza questa scena? Nessuno. Nessuno infatti capisce perché Anna si trovi in tale impossibilità di soddisfare la propria sete, e meno ancora lo capisce Anna stessa. Se però ristabiliamo la connessione con la scena del cagnolino, il significato della repulsione per l’acqua appare subito evidente. Anna, inoltre, non può soddisfare la sete perché soddisfa, attraverso il sintomo, qualcosa di più fondamentale: non un bisogno, ma una pulsione di natura aggressiva che ha dovuto reprimere nel momento in cui si è verificato l’episodio. Affiora con questo un problema strutturale, che fa capire come per il soggetto sia possibile pagare un alto prezzo di sofferenza nevrotica, con la ricaduta di disagi e di difficoltà, a volte invalidanti, che questo ha per la vita quotidiana. Per il soggetto infatti il soddisfacimento della pulsione è più essenziale dei bisogni vitali, e questo è all’origine dei numerosi ostacoli che si incontrano a volte nel lavoro analitico. Il soggetto è disposto a sacrificare parti essenziali della propria vita per non rinunciare alle forme di soddisfacimento che il sintomo offre in via differita. Se teniamo conto del soddisfacimento presente nel sintomo, vediamo che l’esperienza psicoanalitica non può ridursi a restituzione del senso, a operazioni ermeneutiche, a narrazione di storie. Entra in gioco qualcosa di più drammatico, un vero e proprio conflitto tragico. Non per nulla Freud ha cercato il suo primo modello nella tragedia greca, nell’Edipo. Non è solo letteratura, ma l’esibizione di un conflitto di forze fondamentale e irriducibile in gioco nella soggettività. Nello sviluppo del testo su Anna O. l’idea che Breuer si fa è che i sintomi si risolvono quando vengono ricondotti al primo momento in cui si sono manifestati, e quindi all’originaria connessione causale. Sul problema delle causalità occorrerebbe introdurre però alcune riflessioni che Breuer non poteva ancora fare. In natura, e di conseguenza nelle scienze naturali, la causalità corrisponde alla concatenazione tra un’azione che un corpo esercita su un’altro e la reazione immediata che in esso suscita: non c’è iato tra l’azione la reazione. Nel modo in cui si determina un sintomo vediamo invece insinuarsi una sorta di sospensione: la reazione di rabbia di Anna non ha avuto luogo nel momento in cui ha visto il cagnolino bere nel bicchiere, ed è rimasta come congelata. Non si è però annullata. Ha come lasciato un segno, e questo segno ha trovato espressine nell’idrofobia. Si può vedere all’opera in questo passaggio un complesso dispositivo di sostituzioni. Prima c’è lo spostamento dell’avversione dalla governante al cagnolino. L’avversione viene poi significata dal disgusto per l’azione del cagnolino. Infine l’avversione per l’acqua diventa il significante a cui la rabbia è sospesa. Nella relazione causale – e questo è l’aspetto significativo che distingue il modo in cui trattiamo il problema della causa in psicoanalisi da come lo si tratta nelle scienze della natura – quando è in gioco il linguaggio, quando la causalità implica l’essere parlante, quando è relativa al campo soggettivo, entra in gioco il fattore tempo. Possiamo dire che ci entra come sospensione, dove il significante mette in attesa la reazione altrimenti immediata allo stimolo causale. Si crea allora una battuta d’arresto, una pausa. Per questo in fondo possiamo dire che nella psicoanalisi consideriamo la dimensione causale, anche se non riteniamo che il soggetto sia prigioniero del determinismo. Il fattore tempo è determinante, e deriva dall’inscrizione del significante, che è ciò che può sospendere la reazione, può creare un intervallo. Quando implichiamo il fattore tempo nella causalità trasformiamo la nozione stessa di causa – che non è più semplicemente causa efficiente, o formale o materiale o finale – ma causa di desiderio, cioè una causa che al tempo stesso attrae e respinge l’oggetto del desiderio, lo provoca e lo inibisce. Lo si vede chiaramente nei moti opposti di Anna: vuole realizzare lo sfogo di rabbia, ma vuole anche essere beneducata, e quindi si trattiene. L’intima antinomia del desiderio è una delle rivelazioni fondamentali dell’esperienza psicoanalitica che ci permette un approccio al sintomo non meramente riduzionista, e se si legge con attenzione il testo di Freud, questo appare anche nelle primissime fasi della sua riflessione, quando ancora dovevano farsi luce i concetti che ci permettono oggi di tracciare per la psicoanalisi un’epistemologia autonoma rispetto a quella della scienza.
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