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Black mirror: prigionieri dell'immagine

21/9/2015

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di Marco Focchi

Perché, dopo tante smentite da parte della realtà, il neoliberismo è ancora in auge, fortemente incardinato nelle università e nei centri di potere occidentali? Perché il velo dell’ideologia non cade di fronte alle spallate della realtà?
Dopo la crisi greca la domanda è di grande attualità, e la serie di Black Mirror sembra metterci in risonanza con questo ordine di problemi. Sono i problemi che aveva cominciato ad affrontare Guy Debord ne “La società dello spettacolo” spiegando come lo spettacolo modelli i nostri rapporti, renda impossibile l’incontro al di fuori dei cliché che predispone, abbia una forza di cattura che riporta sempre all’interno dei propri schemi.
In un certo senso, la società dominata dallo spettacolo rende impossibile evadere dall’immagine, e la vita ne resta intrappolata, depotenziata, impoverita.


Alla fine del suo libro Debord, per mostrare la massima distanza tra immagine e realtà, dice che Kennedy ha potuto in un certo senso essere l’oratore del proprio discorso funebre, giacché Ted Sørensen, che durante la sua presidenza scriveva per lui i discorsi, dopo la sua morte, ha continuato a scriverli per il suo successore.
È la stessa logica che vediamo svilupparsi nell’episodio di Back Mirror “Torna da me”. Ash è morto in un incidente, ma Martha, sua moglie, spinta da un’amica, si abbona a un servizio online che usando tutti i messaggi e i profili lasciati da Ash nei social media, può ricreare una versione virtuale di Ash, che attraverso il telefono può dialogare con lei, e attraverso la videocamera del telefono può vedere quel che lei gli mostra. È una sorta di versione rovesciata del film Spike Jonze “Lei”, versione però potenziata dal fatto che con un supplemento di costi, Martha può ottenere un clone sintetico di Ash, del quale Martha non riuscirà a liberarsi neppure quando avrà sentito a fondo la frustrazione di un rapporto che funziona perfettamente sul piano meccanico, ma che non può riprodurre il desiderio.
In un mondo distopico il desiderio è quel che, nella narrativa di genere, fa saltare gli ingranaggi del potere. Il mondo distopico teme più di tutto l’incontro tra un uomo e una donna, teme l’evento dell’amore.
Ma il mondo distopico di Black Mirror sembra in grado di riassorbire anche questo. Lo vediamo nell’episodio “15 milioni di celebrità”, dove Bing si innamora di Abi dopo aver sentito la bellezza della sua voce, del suo canto.
La convince a presentarsi come candidata a uno show che le darebbe la possibilità di sfuggire alla routine del lavoro a cui tutti gli abitanti di quel mondo sono sottoposti. Ma i giudici, che rappresentano l’autorità del luogo, ritengono di avere già troppi cantanti, e le propongono come alternativa, per sfuggire al lavoro, di partecipare come attrice a uno spettacolo porno.
Bing ha il cuore spezzato, e procuratasi una scheggia di vetro che tiene nascosta, riesce a candidarsi a sua volta allo show. Ne approfitta però, una volta davanti alle telecamere, per minacciare il suicidio e per fare un a accorato discorso di denuncia.
Sgomento in sala! Ma, dopo un tempo di silenzio, i giudici prendono lo sfogo di Bing come un’esibizione che può avere un suo spazio settimanale all’interno dello show, ricatturando all’interno della finzione spettacolare il momento di verità che si è potuto produrre.
Il valore politico dell’immagine è presentato invece nell’episodio “Vota Waldo”, dove un comico, Jamie Salter, anima un pupazzetto che si fa beffa dei politici.
Grazie però al periodo di antipolitica populista che stiamo vivendo, il pupazzetto ha uno straordinario successo. Quando, disgustato, Jamie, che si ritiene il vero volto di Waldo, getta la maschera e si rivela, nessuno gli crede, e tutti continuano a seguire il pupazzetto, ormai animato da un altro membro dell’equipe.
Black Mirror è lo schermo opaco, l’immagine invincibile che domina lo stile contemporaneo, l’immagine che nega l’accesso alla realtà, l’immagine che avvolge il reale neutralizzandolo.
Debord diceva che lo spettacolo è il rovescio della vita, che la assorbe negandole la ricchezza di un’esperienza fuori dal cliché.
Vediamo che il cammino della psicoanalisi è esattamente opposto a quello dei paradossi sfruttati con grande maestria da Charlie Brooker per realizzare Black Mirror.
Per noi si tratta di trovare, se non un discorso che non sarebbe di parvenza, una dimensione del discorso che ci permetta di contornare il buco dell’immagine, dove quindi è innanzitutto necessario far apparire che l’immagine è bucata, che ci può tenere in ostaggio solo fino a che non consumiamo i miraggi del narcisismo, le lusinghe del consumismo, le finte consolazioni che servono solo a quietare la cattiva coscienza.
Non c’è qualcosa dietro l’immagine da rivelare, né una verità mascherata da svelare, ma ci sono le trame del linguaggio da far apparire nelle nervature dello spettacolo, i solchi di scrittura che distolgono dall’immaginario del senso, per ritrovare un contatto con l’esperienza del reale.

Intervento pronunciato a Radio Lacan

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