di Marco Focchi È noto il fenomeno che nel mondo contemporaneo tutto ciò che aveva un tempo valore istituzionale, che era investito di prestigio e che costituiva fonte di autorità, è scivolato sempre più verso il basso, si è indebolito, ha cominciato a girare a vuoto. Ne vediamo gli effetti dalla famiglia alla scuola, per considerare le situazioni a noi immediatamente vicine, fino alle grandi istituzioni internazionali, incapaci di portare ad effetto le loro politiche. Cosa è degno e cosa no
Fa riflettere, per esempio, in questa prospettiva che, un po’ di tempo fa, l’impulsivo Sarkozy, reagendo male agli insulti di un esuberante oppositore nella folla, si giustifichi dichiarando alla stampa che non è perché uno è presidente che possa essere trattato come uno zerbino. Ciò significa: non dimenticate che se anche uno è presidente, è pur sempre una persona, ed è come tale che va rispettato. Non è la dignità della funzione presidenziale a meritare considerazione, ma il fatto che chi è investito di questa “dignità” è pur sempre un uomo come tutti gli altri. È all’opera qui un rovesciamento simile a quello che l’arte contemporanea ci mostra alla propria lente d’ingrandimento: quel che una volta, con un vertice nel Rinascimento italiano, si esprimeva attraverso la bellezza e l’idealità, oggi, dopo Duchamp, passa per l’immondo e per la spazzatura. Dalla scienza allo scientismo Cosa colma allora il vuoto lasciato dal declino dell’autorità e della credibilità? C’è una sola risposta: a colmarlo è la certezza derivante dal dispositivo dimostrativo e sperimentale della scienza. I mezzi di comunicazione di massa possono spacciare oggi come veridica qualsiasi rodomontata vada sotto un marchio di fabbrica con una parvenza di discorso scientifico: dalla causalità chimica dell’amore – quell’ossitocina che ci fa rimpiangere i filtri di Isotta – alla propensione menzognera attribuita alla preponderanza di materia bianca nel cervello dei bugiardi. Nulla più separa l’autenticità del metodo scientifico, nato per studiare e intervenire sul mondo degli oggetti, dalla sua deformazione scientista, che applica indiscriminatamente la quantificazione a tutto ciò che riguarda l’umano, cioè il soggettivo. La quantificazione oggettivante del fattore umano è però un veicolo di gestione e di discriminazione. L’esempio storico più clamoroso sono stati i test d’intelligenza, dove è evidente che il dibattito sulla loro validità non è mai dipeso dai paradigmi epistemologici fatti propri dagli autori, perché è sempre saltato agli occhi che questi erano subordinati piuttosto a quadri di riferimento criptopolitici: si parla ancora, in certi ambienti, della superiorità intellettiva dei bianchi sui neri. Il ruolo politico della biologia La medicalizzazione generalizzata delle condotte diventa in questo scenario un vettore fondamentale del potere, e una posizione chiave, dal punto di vista strategico, spetta in questo progetto gestionale alla biologia. In un mondo in cui il dominio non passa più attraverso l’imposizione della disciplina – che richiede un’autorità credibile – ma attraverso la biopolitica, che si regge invece su una rete di saperi “scientificamente comprovabili”, come per esempio la statistica e l’igiene, l’enunciato biologico diventa il luogo critico, la prima linea di una battaglia che solo un abuso, reso invisibile dal martellamento occultamente persuasivo, può far passare per postideologico. Basta dare un’occhiata ai temi del dibattito politico contemporaneo, dove per esempio la Chiesa si è resa perfettamente conto che anche la spiritualità deve fare i conti con la biologia, e si arriva allora all’assurdo di interrogare lo scienziato per fargli dire da che momento la vita è persona, vale a dire da quando è plausibile sostenere che l’anima sia incollata al corpo. Ha dovuto intervenire Edoardo Boncinelli per sgombrare il terreno da questi equivoci. I temi su cui si giocano le nostre scelte politiche sono oggi l’inizio della vita, l’eutanasia, la procreazione assistita, la ricerca sulle cellule staminali. La psicoanalisi a confronto con la biologia Era inevitabile che in questo scenario la psicoanalisi dovesse fare i conti con la biologia. Già nel 1976 Pribram e Gill hanno ripreso il Progetto per una psicologia, testo stilato da Freud nel 1895, prima che la psicoanalisi fosse concepita. L’obiettivo era dimostrare la necessità di fondare la psicoanalisi su premesse biologiche che sono state abbandonate solo perché le conoscenze in questo campo, al tempo di Freud, non fornivano gli strumenti adeguati. Tre anni più tardi Frank Sulloway rinforza queste vedute con una rivisitazione storica mirata a dimostrare che Freud attinse le ipotesi fondamentali della psicoanalisi dalla propria precedente carriera di biologo e proponendo una concezione del funzionamento mentale che si basa sulla fisiologia e sull’evoluzionismo. Dagli anni ’80 poi Mark Solms porta avanti un progetto di riscrivere la metapsicologia in termini di neuroscienze, partendo dal presupposto che sia la psicoanalisi sia le neuroscienze studiano lo stesso oggetto da due diversi punti di vista. Si tratta, in questi studiosi, di fondare i concetti della psicoanalisi sul solido terreno empirico della biologia, pur senza imboccare la via di mostrare le conseguenze che da questa premessa si potrebbero trarre nella pratica clinica La posizione più articolata in questo senso è espressa da Eric Kandel, in un articolo del 1998. Appoggiandosi agli studi da lui condotti sulla plasticità neurale – l’idea che l’esperienza lascia una traccia materiale modificando concretamente le reti sinaptiche – Kandel propone un completo reinquadramento della psicoanalisi nella cornice offerta dalla biologia, insieme a una prospettiva clinica di intervento integrato tra farmacologia e psicoterapia. Gli assiomi di partenza dichiarati per questo progetto sono esplicitamente riduzionisti. Tutti i processi mentali sono fatti risalire a operazioni cerebrali: specifiche combinazioni di geni controllano il comportamento, ma anche il comportamento retroagisce sul cervello modificando le funzioni delle cellule nervose, in modo tale che tutto ciò che è cultura si riduce a natura. L’apprendimento a sua volta modifica la biologia cerebrale, e possiamo considerare che gli effetti della psicoterapia consistano nel modificare gli schemi di connessioni sinaptiche, cosa che permetterebbe una valutazione quantitativa della psicoterapia. L’obiettivo convergente dei diversi approcci considerati, come si vede, è di correggere quel che Damasio ha chiamato l’errore di Cartesio, e di riassorbire il fattore umano, qualunque cosa esso sia, mente, coscienza, inconscio, cultura, decisione, emozione, in una reificazione biologica che annulli il dualismo. L’epistemologia come politica Si vede come, sotto le spoglie dell’epistemologia, il progetto politico di cui questi autori sono interpreti – manovrati da una sorta di astuzia di una ragione che si proietta verso la propria autodistruzione – mostra apertamente il disegno della propria trama: la riduzione dell’uomo alla propria animalità, in modo che la vita biologica possa essere presa in carico in una gestione integrale. Una diversa prospettiva Su questo sfondo il lavoro di François Ansermet e Pierre Magistretti (A ciascuno il suo cervello. Plasticità neurale e inconscio. Bollati Boringhieri, Torino 2008) segna una differenza significativa. Ansermet e Magistretti mettono a loro volta la psicoanalisi a confronto con la biologia, ma imboccando una direzione diversa da quella che porta al governo della vita presa in carico attraverso la tecnica. Gli autori riconoscono infatti che il campo delle neuroscienze e quello della psicoanalisi non sono riconducibili a un metro comune, il che significa: non è possibile definire un ordine di causalità che li traversi e li colleghi. Questo non vuol dire che eventi sul piano organico non producano effetti sul comportamento, che lesioni importanti sul piano cerebrale non si manifestino anche attraverso trasformazioni del carattere: lo dimostrano i casi di pazienti con lesioni nella regione prefrontale studiati da Damasio. Siamo però qui sul piano di manifestazioni molari: di chi perde una gamba non diremmo che la mutilazione causa in lui una modificazione nello stile con cui cammina, diremmo che gli impedisce di camminare. Dove stanno le cause e dove gli effetti? Un conto è considerare gli effetti di una lesione, altro conto è considerare in cambiamenti dell’anatomia fine come le arborescenze dendritiche e assonali delle cellule nervose e i potenziamenti o indebolimenti delle giunzioni sinaptiche. Su questo piano l’ostacolo sta nel determinare cosa è causa e cosa effetto: nell’interazione tra organismo e comportamento non è infatti possibile stabilire – se non per decisione assiomatica – dove stia il primus movens. Le tecniche di visualizzazione del funzionamento cerebrale tramite emissione di positroni mostrano modificazioni di determinate aree cerebrali, ma finché il quesito resta posto in queste strette non si può risolvere il problema della causalità, dire cioè se la modificazione dell’area cerebrale sia la causa o l’effetto del comportamento osservato. La nozione di plasticità utilizzata da Ansermet e Magistretti sposta i termini della questione perché passa da un modello interattivo – dove si considera che il genotipo è la matrice del fenotipo con una modulazione da parte dell’ambiente – al modello in cui genotipo e ambiente interagiscono come due assi causali che, tramite la plasticità, si combinano per dar luogo a un fenotipo. Gli autori fanno dunque un uso della plasticità che non ricade nel riduzionismo biologista dell’operazione di Kandel quando, sfruttando i risultati delle sue ricerche, cerca di riformulare il quadro della psicoanalisi. La plasticità infatti permette di mostrare come leggi biologiche che sono universali giungono a produrre l’unicità facendo spazio alla soggettività. Da questo punto di vista il soggetto diventa un tema inaggirabile per le neuroscienze come lo è per la psicoanalisi. Compatibilità e non riduzionismo La plasticità costituisce così il punto d’intersezione tra due ordini concettuali eterogenei che restano eterogenei pur senza essere irrelati. Ansermet e Magistretti sviluppano poi il loro lavoro ricostruendo, a partire dall’idea freudiana di traccia percettiva, il segno che l’esperienza lascia impresso in una sinapsi, mostrando la compatibilità concettuale tra psicoanalisi e neuroscienze, che non richiede nessun riduzionismo, nessun riassorbilento dell’una nell’altra. Il punto di forza del lavoro degli autori è che non partono dall’idea che la compatibilità concettuale significhi riduzione, che la cultura debba essere ricondotta alla natura, e quindi si rivela in questo il diverso piano politico, prima ancora che epistemologico del loro sforzo concettuale: l’uomo può restare uomo, e lo si può capire senza ricondurlo integralmente alla propria animalità. L’animalità c’è, non è rimossa o occultata, ma è lasciata essere, non è presa nel progetto biopolitico di gestione tecnologica. Il fatto che l’uomo oltre ad avere dei circuiti neuronali sia un essere parlante ha il suo valore. Attraverso il linguaggio passano i suoi desideri, le sue fantasie, senza che sia necessario farne delle meteore, dei fuochi d’artificio destinati allo spettacolo, pure illusioni dietro le quali la sola cosa che conta è la nuda vita, perché è la sola cosa che può essere dominata dal calcolo. Il progetto di Ansermet e Magistretti apre dunque una strada diversa, segue una pista importante che riguarda il futuro della psicoanalisi, ma che investe in realtà una sfera molto più ampia, quella di una battaglia politica e di pensiero di cui abbiamo cominciato e vedere i prodromi un po’ di anni fa e che entra ora nel pieno del suo confronto. D’ora in poi dovremo tenere presente una cosa: tutto quel che è stato camuffato fino a oggi sotto temi epistemologici – verificazionismo, valutazione dei risultati, interminabili dibattiti sull’efficacia terapeutica – perde le parvenze di neutralità e rivela la propria sostanza ideologica e biopolitica.
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Settembre 2024
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