di Marco Focchi Nel seminario Le savoir du psychanalyste Lacan dà un’illustrazione brillante e sintetica del modo in cui opera la cura psicoanalitica: in quella riproduzione della nevrosi spontanea che si realizza con la nevrosi di traslazione – dice – occorre reperire un significante che ha segnato un punto del corpo. Si tratta quindi di mettere in moto una ripetizione che costruisce un modello della nevrosi, e che in tal modo svuota questo significante di godimento, perché il godimento vuole il privilegio, e ogni duplicazione lo uccide. Siccome la nevrosi – aggiunge – non senza ragione è attribuita all’azione dei genitori, lo psicoanalista può sostenere la propria operazione solo occupando il posto del genitore traumatico. Il potere della cura, qualunque sia la configurazione famigliare che fa da sfondo al soggetto, attinge quindi la propria autorità da una specifica posizione che ha per il soggetto un valore costituente. In altre parole Lacan sostiene qui che occorre collocarsi nel punto di scaturigine, dove le cose iniziano, in un punto eccentrico rispetto a tutto quel che viene dopo, un punto che è fuori dalla serie e che al tempo stesso sostiene la serie. Questo punto, dove le cose iniziano e trovano la loro singolarità, è lo stesso con il quale le famiglie ipermoderne si trovano sempre più in difficoltà, perché l’omogeneizzazione della vita contemporanea tende a sfumarlo, a opacizzarlo, a farlo svanire. Se vogliamo ben guardare il problema, la pietra d’inciampo per le famiglie non sta tanto nel tema, ormai giornalistico, del declino della figura paterna. Quel che definiva il privilegio e le prerogative del padre, la potestas, oggi appartiene a pari titolo ad entrambi i genitori. La nozione è stata evidentemente più volte ridefinita, ma non è intaccata. Oggi è formulata in un senso che va esclusivamente verso gli interessi dei figli ed è espressa in termini di doveri nei loro confronti: doveri di mantenimento, d’istruzione e di educazione.
Quel che invece è veramente cambiato e che, possiamo dire, è minato, è piuttosto l’autorità che sostiene questa potestà. È un mutamento in cui si riflette la difficoltà di fondo della politica moderna, che si trova di fronte al problema, ormai divenuto critico, di conciliare uguaglianza e autorità. Tutte le istituzioni che fanno parte di una società democratica sono in qualche misura investite da questa difficoltà e, finché la contraddizione rimane irrisolta, ne risulta un indebolimento della funzione istituzionale, qualunque essa sia, che la riduce all’impotenza. Il problema si manifesta sia su grande scala sia nella vita quotidiana. Da una parte abbiamo macroorganizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, che non riescono a rendere operative le loro politiche. Dall’altra abbiamo istituzioni immerse nella realtà di tutti i giorni, come la famiglia e la scuola, spesso paralizzate rispetto al carico di responsabilità di cui sono investite. Nella scuola la questione appare in modo particolarmente evidente. Sempre più frequentemente gli insegnanti si rivolgono allo psicologo per affrontare casi di bambini che, si dice, “non hanno regole”. Sono bambini difficili da inquadrare nella logica del lavoro scolastico, non perché sottodotati o privi dell’intelligenza necessaria, ma perché semplicemente non ascoltano l’insegnante, non mostrano di averne rispetto né timore, fanno solo quello che pare a loro e non sono sensibili alla logica premio-castigo: è come se non avessero nulla da perdere. Quando gli insegnanti sentono che la loro parola resta senza presa sul bambino, si appellano alla famiglia, sede dei legami e degli affetti primari, fucina originaria dei valori sociali, ipotetica detentrice dei finimenti utili a imbrigliare le pulsioni selvagge. Che cosa succede allora? Prendiamo il caso favorevole, quello in cui si incontra una famiglia collaborativa. La maggior parte delle volte ci si trova di fronte a genitori disorientati. Non sanno come comportarsi per ottenere obbedienza, e riescono tutt’al più a far leva sul misero espediente ricattatorio che consiste, per esempio, nel privare il bambino di un oggetto o di un gioco a cui tiene particolarmente. Oppure, esasperati, si lasciano andare a un inutile ceffone, pagato con un bagno lustrale nel senso di colpa e con ulteriore perdita di rispetto. Quando anche il ricorso alla famiglia fallisce, il passo successivo è andare dallo psicologo, visto come esperto al quale si richiede un intervento tecnico: se c’è qualcosa che non va nel comportamento del bambino occorre una figura competente che, con gli strumenti specialistici di cui dispone, rimetta le cose a posto e ristabilisca la normalità. Il giro dei rimandi così è completato: se la scuola non ha gli strumenti per gestire una condotta sregolata, si va dalla famiglia. Se neppure la famiglia ha gli strumenti, si va dall’esperto. Lo psicologo comportamentista, in genere, è considerato il tipo di tecnico adatto per intervenire sul problema sollevato da un comportamento difettato. Quel che un tempo quindi era trattato come problema disciplinare, di sottomissione alle regole del gruppo di appartenenza, viene fatto ricadere ora nella sfera di competenza della scienza e della tecnica, e diventa semplicemente questione di applicare gli strumenti adeguati. Si disegna così molto chiaramente un tragitto lungo il quale appare evidente il tentativo di surrogare la forza promulgativa dell’autorità, che è andata perduta, con la potenza di attivazione dell’efficacia, garantita dalla scienza. La disciplina, che deriva infatti la propria forza dalla nozione di autorità, non è più applicabile, mentre la scienza, che trae la propria autentificazione dalla nozione di efficacia, vede incessantemente crescere la propria influenza. In questo tragitto, in cui l’autorità perde via via i propri puntelli passando la mano all’efficacia, vediamo specchiarsi la parabola che va dagli inizi della modernità per giungere fino al mondo ipermoderno in cui viviamo. Agli inizi abbiamo Lutero di fronte a Carlo V, Galilei di fronte a Bellarmino, le rivoluzioni del diciottesimo e del diciannovesimo secolo di fronte ai regimi assolutistici: c’è la libertà dell’interpretazione contro i vincoli della tradizione, l’evidenza dell’esperimento contro la supremazia delle Scritture, il potere che nasce dal basso contro l’assolutismo dei regimi d’investitura divina. Dalle prime fasi dell’epoca moderna abbiamo assistito a una progressiva erosione dell’autorità tradizionale che l’ha ridotta, logorata, consumata fino a lasciarne vuoto il posto. Ma poiché questo posto non poteva restare vuoto, è stato occupato dall’unico candidato disponibile: la scienza. L’avversario estremo dell’ipse dixit, la scienza, che ha dato la spallata decisiva al trono su cui sedeva il principio d’autorità tradizionale, si è trovata allora investita del monopolio sul credibile: oggi una pratica, una procedura, un intervento, vengono considerati attendibili solo se portano il marchio di fabbrica del metodo scientifico. Se il metodo scientifico funziona però nel rapporto con le cose e in tutto ciò che riguarda la produzione, quando si applica impropriamente alle relazioni tra gli uomini apre le porte al diluvio di prodotti fasulli griffati dallo scientismo, che della scienza si fa insegna per gabellare la propria pacottiglia. In questo quadro il declino della figura del padre è solo uno dei rivoli di un torrente in piena che da qualche secolo si è rovesciato su tutti i sostegni dell’eteronomia, che ha destabilizzato le gerarchie, che ha travolto la trascendenza quale fonte di autentificazione spingendo verso l’uguaglianza. Con la parità dei sessi non va più da sé che spetti al padre rappresentare la legge in famiglia, e con l’antiautoritarismo degli anni Sessanta e Settanta del Novecento non va più da sé che la famiglia sia ancora investita dell’autorità necessaria a fare da cinghia di trasmissione dei valori sociali. La sociologia tende a vedere la famiglia ormai piuttosto come luogo per i bisogni affettivi, rifugio dalle inquietudini di un sociale atomizzato. D’altra parte, se fino agli anni Cinquanta del Novecento i diritti della famiglia venivano prima di quelli dell’individuo, oggi il rapporto si è ribaltato, e la famiglia appare piuttosto essere il prolungamento dell’individuo, dove i diritti e i desideri soggettivi prevalgono sugli obblighi d’obbedienza. Lo scopo dell’educazione è ormai conforme a quello dell’american dream: il suo punto di mira è la felicità personale, non certo l’obbedienza e la virtù in vista di un fine collettivo. Come possiamo d’altra parte chiedere alla famiglia d’investirsi maggiormente di un ruolo educativo autorevole quando non può contare per questo su un sostegno dal retroterra sociale e culturale in cui si trova? Sono argomenti noti: una volta era il padre, o comunque i genitori, la fonte legittima di enunciazione etica e di certificazione della conoscenza, oggi i media hanno in questo un ruolo inaggirabile. È credibile quel che dice la televisione, internet sta cambiando il nostro rapporto con il sapere, l’accessibilità facilitata all’informazione ci espone a una molteplicità di notizie generalmente presentate secondo la moderna filosofia giornalistica, che dà la priorità ai fatti sui giudizi: dire tutto, mostrare tutto, esporre tutti i punti di vista. In un saggio del 1867, ancora oggi citato dai sociologi anglosassoni, il giornalista e commentatore politico Walter Bagehot ha definito le componenti di un’istituzione come divise in due classi: le dignified parts, che sollecitano e mantengono il rispetto dell’istituzione, e le efficient parts, che la regolano e la fanno funzionare. Man mano tuttavia che il mercato si è imposto come modello culturale che dà la propria impronta alle formazioni sociali in genere, si è assistito, nella scala dei valori istituzionali, a un decremento delle dignified parts a favore dell’efficienza. La famiglia stessa, pur avendo accentuato la propria funzione di spazio emotivo di rifugio, ha assorbito la cultura d’impresa dando sempre maggiore importanza alla buona gestione e diventando un centro di servizi deputato a fornire benessere materiale. Uno studio del Censis del 2003 mostra che oggi la prima preoccupazione dei genitori è garantire sicurezza economica con l’acquisto di una casa, con l’avvio di un’attività lavorativa, con la stipula di polizze assicurative. Anche qui l’efficienza ha eroso il valore e il rispetto che alla famiglia venivano attribuiti come istituzione in sé per favorirne e ampliarne il carattere utilitario. Non è più in primo piano la dignità della famiglia in quanto tale, ma i vantaggi che offre. A questo depotenziamento istituzionale si collegano quelli che la sociologia, semplificando, individua come i mali della famiglia consumista: l’aumento dei divorzi e la conseguente crisi d’identità nei figli. Questo serve però a mettere in luce come i doveri nei confronti dei figli, fortemente accentuati nel mondo ipermoderno rispetto a quelli nei confronti dei genitori, trovano un punto d’arresto nel fatto che non è più richiesto di sacrificare la propria gratificazione personale nella vita intima e sentimentale subordinandola ai doveri nei confronti della famiglia. I mutamenti della famiglia e la sua attuale geometria variabile mostrano insomma come alcune caratteristiche salienti dell’ipermodernità, l’instabilità dei legami, la transitorietà, la precarietà, siano collegate all’erosione dell’autorità la cui funzione si cerca di supplire facendo appello all’efficienza. E’ questo a dare uno spazio irragionevole alla scienza e alla tecnica, fatte di procedure, protocolli, verifiche, valutazioni che surrogano con la loro cauzione una forma di garanzia ormai definitivamente tramontata. Il declino dell’autorità tradizionale segue infatti una china irreversibile, e sappiamo che rinforzare i bicipiti del NdP non è la via per lenire i mali della famiglia. Credo che l’espressione di Lacan adottata nel nostro Congresso di Roma sul NdP, “farne a meno a condizione di farne uso”, ci allontani senza rimpianti da queste nostalgie oggi senza sbocco. Il declino dell’eteronomia, che stacca la legge dalla trascendenza, ci porta in tutt’altra direzione rispetto a quella, a volte invocata, di ristabilire le prerogative del Padre come fondamento della legge, di ritrovare il senso del rispetto, dell’obbedienza, della disciplina. La secolarizzazione avviata con i Lumi ha tolto il piedestallo del Padre Eterno che sosteneva la credibilità del padre terreno, e si è prosciugata la fonte trascendente che gli conferiva autorità attraverso la propria investitura. Si pone allora la questione critica se insieme alla trascendenza dobbiamo allora rinunciare al rispetto, alla dignità, alla fiducia, fattori costitutivi di qualsiasi relazione umana, presupposti essenziali di ogni patto, di ogni legame, quand’anche il rispetto fosse mancato, la dignità umiliata, la fiducia tradita. Dobbiamo delegare a cieche operazioni protocollari e amministrative le scelte nello spazio comune delle nostre società? Eliminare dai documenti costitutivi dell’Unione Europea il riferimento alla trascendenza come carattere peculiare della storia d’Europa significa perdere il legame con l’origine? Dobbiamo innanzi tutto considerare che la divisione delle componenti istituzionali formulata da Bagehot appare nelle moderne costituzioni, che sono oggetto della sua analisi, ma in forma variate esiste da sempre. Le costituzioni moderne, pur divincolandovisi, sentono ancora la stretta della trascendenza: persino Robespierre, temendo la perdita del controllo morale, aveva dovuto ricorrere al culto dell’Essere Supremo e ai riti celebrativi della Dea Ragione. C’è però un riferimento più antico che afferma la divisione di cui parla Bagehot, e che al tempo stesso non si basa su nessuna forma di trascendenza. Si tratta del diritto romano, che distingue l’auctoritas, la cui sede è nel Senato, dalla potestas, la cui sede è nel popolo. Mommsen definisce il parere che il Senato esprime in base alla propria auctoritas come un po’ meno di un ordine e un po’ più di un consiglio. Si tratta del consenso, della legittimazione che fa si che il potere diventi esecutivo, e Hannah Arendt, in un testo ormai classico, mostra che la forza di attivazione che a Roma l’auctoritas esercita rispetto all’efficienza della potestas non ha bisogno di un fondamento trascendente, perché si riconduce senza soluzione di continuità a un atto di fondazione, cioè a un inizio che ha in sé il proprio principio. Se ci domandiamo dove individuare oggi, fuori del rimando alla trascendenza, l’autenticità dell’inizio, dobbiamo rivolgerci ai concetti chiave della nostra esperienza. Che cosa ratifica infatti l’atto psicoanalitico? Che cosa sancisce l’autorità clinica della psicoanalisi? Che cosa sostiene il supposto sapere su cui si impernia la cura? Sappiamo che per quanto indispensabile sia l’esperienza del controllo non è questa a garantire l’atto; per quanto potenti siano i risultati della nostra pratica non sono i controlli sulla sua efficacia a garantirla; per quanto ricco e complesso possa essere il nostro sapere esplicito non è il corpus dottrinario a sostenere la traslazione. Sappiamo anche che la forza della psicoanalisi è di porsi nel punto costituente anziché nelle funzioni costituite, è di sostenere l’atto che fa vacillare le parvenze. Trauma è il nome freudiano di questo punto costituente, che Lacan, in modo scevro di pathos, ha siglato S di A barrato. Come ogni istituzione, anche la famiglia contiene dentro di sé questo buco che, come un maelström, rischia di risucchiarla se viene spogliata delle proprie parvenze, e il maelström è quel che Miller ha chiamato il segreto di famiglia, il godimento, ciò di cui godono il padre e la madre. Finché l’autorità tradizionale è stata trascendente su questo segreto ha sempre dovuto rimanere un velo che i trattamenti d’impronta educativa non hanno mai osato violare. La psicoanalisi, che non lavora certo per sostenere le parvenze, può aiutare la famiglia a ritrovare una propria autorità che non ha bisogno di provenire dal trono e dall’altare, che non risiede nei canoni superati di un’onorabilità figlia dell’epoca disciplinare, e che trae la propria forza non dalla dignità dell’ideale conforme, ma dal consenso alla singolarità del desiderio, dalla capacità di dire di sì nel modo giusto, arte infinitamente più complessa di quella tradizionale imperniata sul divieto.
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