Discorso tenuto a Milano presso la Fondazione Comel il 21 giugno 2011 di Marco Focchi Vorrei proporre qualche osservazione su tre temi che oggi stanno in prima linea nell’attenzione del pubblico interessato agli argomenti psicologici. Proprio per la loro fruibilità sono temi che vengono spesso trattati in modo riduttivo e – diciamolo – francamente mercantile. Si offrono infatti con disinvoltura soluzioni rapide e indolori per problemi che affondano le radici nei meandri più complessi della soggettività. La popolarizzazione di questi temi è tuttavia l’indice di una difficoltà la cui ampiezza si spiega solo con ragioni sociali profonde, che plasmano e determinano le risposte soggettive a cui queste forme patologiche corrispondono. Non entrerò, in queste brevi considerazioni, nel merito delle sollecitazioni a cui la contemporaneità sottopone il soggetto per produrre un’accentuazione di queste patologie, ma credo che, anche sul piano terapeutico, non possano essere ignorate, e le brevi osservazioni che seguono sono il nucleo essenziale di un’analisi più ampia. Stress
Stress è oggi diventato un termine passepartout, che viene messo all’origine qualsiasi situazione di disagio il soggetto lamenti. In tutto c’è una componente di stress. Il lavoro è l’ambiente stressante per eccellenza, ma se siamo irritabili a casa è perché siamo stressati, se abbiamo le occhiaie è che siamo stressati, e così via. Tre o quattro decenni fa si sarebbe parlato di esaurimento nervoso, altro termine generalista utile al tempo per aprire ogni porta del disagio psicologico. Ci può entrare di tutto: il senso di fatica, la difficoltà di concentrazione, il senso di debolezza, gli indolenzimenti. Sono termini di nosologia popolare – anche se stress ha avuto a suo tempo una formalizzazione medica – e nell’uso corrente non indicano niente di preciso. Il DSM ha importato questo termine, prelevato dal contesto in cui in medicina si definisce in rapporto a situazioni biologiche di omeostasi e di equilibrio, per farlo entrare in due disturbi del suo interminabile elenco: il disturbo acuto da stress e il disturbo post-traumatico da stress. Quest’ultimo ha una storia nobile. I primi a interessarsi alle conseguenze dei traumi di guerra furono infatti gli psicoanalisti della cerchia freudiana che parteciparono alla prima guerra mondiale, avendo occasione di vedere gli effetti sui soldati dell’esposizione alle situazioni di combattimento, di pericolo di vita, di esplosione di granata. Il disturbo post-traumatico da stress riguarda, nel modo più generale, eventi critici estremi, come il coinvolgimento in catastrofi naturali, in incidenti di grande portata, attentati, eventi bellici. Si sa che la formulazione attuale del disturbo con la denominazione Post-Traumatic Stress Disorder è stata inserita nel DSM III su pressione della lobby dei veterani della guerra del Vietnam, perché i reduci potessero avere i rimborsi delle cure psichiatriche. Le descrizioni abituali delle manifestazioni di questo disturbo ritrovano i fenomeni che già avevano osservato gli psicoanalisti durante la prima guerra mondiale: ripresentarsi del vissuto dell’evento, incubi che tornano incessantemente al momento del trauma riproponendolo in modo vivido e realistico, irritabilità, ottundimento, tensione continua, e via descrivendo. Il soggetto ha vissuto una situazione eccezionale, che ha interrotto l’abituale scorrere della vita, portandolo a una mobilitazione di tutte le energie e convogliandole sul fattore traumatico, come in una sovrattenzione concentrata. Potrebbe sembrare normale, in un caso simile, un bisogno di ritrovare l’abituale equilibrio, che porterebbe a ritrarsi da ogni rinnovata esposizione al ricordo del momento traumatico. Succede invece esattamente il contrario. Il soggetto non fa che tornare al momento traumatico, non riesce a staccarsene, non riesce a rientrare nel corso normale della sua vita precedente. Illustra bene questa situazione il bel film di Kathryn Bigelow The Hurt Locker. È la storia di un artificiere in Irak, impegnato in uno dei compiti più pericolosi, consistente nel neutralizzare ogni tipo di ordigno esplosivo. Finito il turno di servizio e tornato in patria e in famiglia, il protagonista non riesce più a ritrovare il proprio posto, né il senso di un modo vita per difendere il quale ha combattuto. Lo rivediamo così nell’ultima scena di nuovo in tenuta da artificiere, in un nuovo turno in Irak, mentre si appresta a disinnescare una bomba. Capiamo così che la vita per lui è vivibile ormai solo sull’orlo del baratro in cui può andare perduta. In effetti quindi, contrariamente a quel che sembrerebbe ragionevole, il soggetto anziché fuggire dal momento traumatico vi torna continuamente. Perché? I nostri colleghi spagnoli che nel marzo 2004 lavoravano in una rete d’assistenza psicologica hanno avuto la possibilità di vedere e di aiutare numerose persone coinvolte negli attentati alle stazioni della metropolitana di Madrid, e hanno potuto fare alcune osservazioni particolarmente interessanti. Hanno constatato tutti i fenomeni abitualmente descritti in questi casi nei sopravvissuti a catastrofi e a situazioni eccezionalmente drammatiche: incubi che tornavano al momento traumatico, flashback che lo facevano loro rivivere. Hanno però notato, ascoltando attentamente i racconti delle persone coinvolte nella situazione traumatica, che in realtà quel che veniva rivissuto non era l’evento in quanto tale, ma piuttosto quel che in quel momento non era accaduto. Si trattasse di una persona ferita che non avevano potuto aiutare, o della possibilità di prendere un treno diverso che non li avrebbe portati nel luogo del disastro, i ricordi tornavano a quel che non era accaduto e che avrebbe modificato la scena traumatica in cui si erano trovati. Questo fa meglio capire anche il tipico senso di colpa dei sopravvissuti, che non si riferisce all’attualità del momento vissuto, ma al possibile. Il soggetto non hanno potuto salvare i compagni, ma non era logicamente impossibile: forse non ha fatto la scelta giusta, forse ha provato una paura paralizzante, forse tutto si è cancellato dietro la mera preoccupazione di sopravvivere. Non sappiamo, sappiamo solo che il ritorno al momento traumatico non è mosso dalla spinta a ritrovare lo sconvolgimento del trauma, ma dalla forza d’attrazione di quel che è rimasto sospeso, da un possibile irrealizzato da attualizzare, dalla ricerca di un supplemento di quel che è accaduto che ne modifichi la configurazione. Non è dunque la ricerca dello stato precedente al trauma il motore della ripetizione, ma il tentativo di dare un diverso sviluppo a quel che è accaduto, riprendendo il filo di quel che è rimasto sospeso. Può sembrare una logica che riguarda solo momenti eccezionali, al di fuori dell’orizzonte della maggior parte delle persone, ma in realtà la situazione eccezionale è solo la lente d’ingrandimento di un funzionamento assolutamente comune, di una logica che appartiene alla minuta quotidianità. Mi è capitato spesso, per esempio, che alcuni pazienti riferissero di momenti in cui avevano subito un’offesa, o erano stati presi di petto da qualcuno e sul momento non erano riusciti a trovare le parole adatte per rispondere. Per giorni, e a volte anche per settimane, il loro pensiero tornava coattivamente a quell’episodio forgiando le risposte più pungenti e più appropriate che nell’immediato non avevano potuto dare. Va da sé che l’entità delle situazioni non è confrontabile, ma la logica è assolutamente la stessa. La ripetizione ritorna dunque non al trauma, ma a un suo supplemento irrealizzato che lo risolva diversamente. Ansia Consideriamo ora l’ansia, altro termine ubiquo e onnivalente. Il termine appartiene più abitualmente al lessico psicologico, mentre gli psicoanalisti parlano preferibilmente di angoscia. Sarebbe artificioso però cercare sottili differenze concettuali tra i due termini, che rispecchiano in realtà soltanto il fatto che il lessico psicologico si nutre di studi di lingua inglese, dove si parla di anxiety, mentre la psicoanalisi ha ricevuto il conio dal lessico di Freud, che parla di Angst. Gli psicoanalisti anglosassoni, per altro, traducono Angst con anxiety, e questo rende ancora più sfumata la differenza sul piano concettuale. È vero tuttavia che nel modo corrente di esprimersi l’angoscia ha in sé qualcosa di più profondo e addirittura di più concettuale, forse anche per il carico che al termine ha dato il pensiero esistenzialista, mentre l’ansia contrassegna più superficialmente una situazione di affanno, di incertezza, di apprensione, e appartiene non solo alla patologia, ma alla vita quotidiana. L’ansia è innanzi tutto una forma di vigilanza, un’attenzione accentuata a quel che succede intorno. Essere vigili ha una connotazione positiva: significa essere pronti rispetto a quel che di non ancora identificato può sorgere e riguardarci. Chi è vigile è sveglio, è pronto per l’occasione, non se la lascia sfuggire. Una certa vigilanza fa parte dell’intelligenza, perché nell’ottusità c’è anche la componente di una mancanza di prontezza nei riflessi. Chi è vigile si dispone attivamente in attesa, e l’ansia corrisponde alla propensione psicologica di chi si protende verso l’evento. A seconda che l’evento abbia segno positivo o negativo, sia piacevole o minaccioso, l’attenzione protesa verso l’evento si caratterizza come desiderio o come inquietudine. La via facile a questo punto sarebbe dire che la normale vigilanza diventa ansia, in senso patologico, quando si supera una certa misura, quando si va sopra le righe, quando la mobilitazione di energie è eccessiva rispetto all’evento atteso. Il problema tuttavia è che non c’è comune misura tra l’evento atteso e l’attesa stessa, tra il tempo dell’evento e il tempo dell’attesa. Sono realtà irriducibili l’una all’altra dal punto di vista quantitativo. Se un evento mi colma di gioia, qual è la misura di questo colmamento? È un po’ come il paradosso del sorite: quando un mucchio è un mucchio? Quale granello ci permette di decidere che prima non era un mucchio e ora lo è? E se un evento mi sconcerta completamente, posso dire di essere sconcertato un po’ più? Un po’ meno? O di esserlo come te che mi stai accanto? Cosa misura l’intensità della gioia o dello sconcerto? L’ansia segnala quindi qualcosa di diverso da un superamento del ragionevole livello quantitativo. Segnala un senso d’inadeguatezza che il soggetto prova di fronte a quel che l’attende, o di fronte ai compiti della quotidianità nel loro insieme. L’ansia manifesta al tempo stesso una presenza e un’assenza: da un lato una presenza impellente del desiderio dell’Altro, delle esigenze da cui ci si sente assediati, una pressione proveniente dalla vita sociale in quanto tale; dall’altro lato un’assenza degli strumenti per far fronte alla situazione, con la percezione di poter soccombere. Come nel caso dello stress, anche qui c’è qualcosa di troppo e qualcosa di carente. La mancanza e l’eccesso sono il marchio che contraddistingue, nel soggetto, gli aspetti del desiderio, che non riesce mai a soddisfarsi o che si converte in nausea, e questa mancanza di giusta misura del desiderio spiega perché i fenomeni soggettivi non possono essere fatti passare sotto le forche caudine della quantificazione. Per chi soffre d’ansia non c’è una misura oltre la quale qualcosa è troppo, perché qualsiasi cosa, anche la più banale, è troppo. L’ansioso è in un certo senso il rovescio dell’eroe da film americano che ha sempre lo scatto giusto quando si tratta di salvare il mondo. Tra le espressioni diventate oggi clichè c’è infatti l’ansia di prestazione. L’ansia si accompagna all’idea di dover essere all’altezza del compito di produrre un risultato. Quanto più l’azione sociale si modella sul calco della produzione, tanto più l’azione si svuota di contenuto desiderante lasciando spazio al dilagare dell’ansia. Panico Nell’attuale mostra di Anish Kapoor a Milano è esposta un’opera alla Fabbrica del Vapore che si chiama Dirty Corner. È un tunnel di circa sessanta metri con un ingresso a calice nel quale il visitatore è invitato a entrare. Prima però di avere accesso all’opera è necessario firmare una liberatoria. La visita è infatti fortemente sconsigliata alle persone che soffrono di attacchi di panico. Quando si entra nell’istallazione, infatti, dopo un po’ ci si trova in un buio totale, da notte senza luna prima dell’invenzione dell’elettricità. L’uscita non si vede subito, e si comincia ad avanzare a tastoni cercando appoggio alle pareti, che essendo però curve non offrono un sicuro riferimento. Questa totale perdita delle coordinate spaziali provoca un certo smarrimento, ed è sicuramente quel che Kapoor cerca. L’altra parte della sua mostra infatti, alla Rotonda della Besana, è fatta di specchi deformanti nel cui angolo visuale il visitatore deve entrare, e la cui distorsione lo disorienta, privandolo della naturale presa che si ha sullo spazio. L’alterazione percettiva dello spazio provocata da Kapoor ci fa uscire dal binario abituale della nostra azione, e i nostri gesti risultano allora goffi e impacciati. Quando ho visitato la mostra di Kapoor alla Fabbrica del Vapore, davanti a me c’era un bambino che avrà avuto al massimo tre anni e che, tutto preso dall’eccitazione, chiedeva vivacemente al padre di portarlo di nuovo – era la terza volta – nel tunnel buio. Non so se i genitori avessero firmato per lui la liberatoria, ma indubbiamente l’effetto che l’opera faceva su di lui non era di panico. Non aveva bisogno, lui, di appoggiarsi alle pareti incerte del tunnel, giacché teneva la mano del padre che, immagino, sentiva l’avrebbe condotto dovunque senza tremare, dandogli grande sicurezza. La cascata dei pensieri Il panico sorge quando manca l’appiglio, il punto d’arresto. Un fenomeno tipico del panico è quello della cascata dei pensieri. Basta un avvio qualsiasi, può essere l’osservazione indifferente di una persona magari a stento conosciuta che diventa un giudizio universale, o il rovello di una considerazione qualsiasi che s’infila nella mente e che man mano si amplifica, facendo apparire conseguenze sempre più nefaste e incontrollabili, e più il soggetto cerca di afferrare una soluzione più sprofonda nelle sabbie mobili dove non c’è nessuna liana a cui aggrapparsi. La persona che, nella frase dell’altro, sente una critica schiacciante, che l’annulla nel suo essere, tende poi a non uscire di casa per non trovarsi di nuovo in situazioni analoghe, e più si rinchiude più si rinchiuderebbe. L’autoclaustrazione però non solo non risolve nulla, ma peggiora le cose, perché la frase è stata solo il pretesto, la miccia che ha dato fuoco alle poveri che il soggetto ha già in di sé. Il senso d’invasione da cui cerca di proteggersi chiudendo fuori il mondo lo afferra sempre di più man mano che percepisce che l’elemento ostile non viene da fuori, ma è dentro di lui. Anche in questo caso il fenomeno ha due facce. Il flusso di coscienza, l’abbandonarsi allo scorrere dei pensieri, come nello stream of consciousness letterario, ha un carattere piacevole, segue gli ondeggiamenti del desiderio. La cascata dei pensieri invece prende una china minacciosa, la concatenazione d’idee che ne deriva ha un gradiente che da un’inquietudine iniziale arriva fino al panico. È fondamentale notare che questi fenomeni non sono mai univoci, che hanno sempre due lati, perché su questo fa leva l’intervento terapeutico quando non punta a essere semplicemente soppressivo del fenomeno. La metonimia rovesciata Di fronte al carattere enigmatico, minaccioso del desiderio dell’Altro, il bambino si domanda “Cosa vuole da me?”. La risposta che si dà costituisce l’oggetto pulsionale privilegiato che entra nel fantasma. Il bambino “cede” il seno, o le feci, o uno sguardo, o l’espressione vocale del grido, per non essere inghiottito lui nella totalità del suo essere. Il desiderio ha un carattere metonimico perché insegue l’oggetto contiguo a sé che è stato ceduto, sacrificato all’Altro al posto di tutto il proprio essere. Cosa succede quando niente può saziare l’Altro, quando niente può soddisfarlo, quando l’oggetto non è questo, né quest’altro, né quest’altro ancora? Come far fronte alle richieste di un Altro inapppagabile, di cui non è dato conoscere ciò che desidera? Il soggetto che, per qualche motivo su cui il lavoro analitico può fare luce, non riesce a sottrarsi a questa logica, mette a disposizione tutto se stesso al posto dell’oggetto metonimico. Si tratta di una metonimia rovesciata perché il soggetto offre il tutto per la parte. Si offre così come vittima sacrificale a un Moloch incontentabile perché da un lato non può sottrarsi alla richiesta, dall’altro non può surrogarsi con oggetti parziali. Si capisce così come il desiderio risulti bloccato, e il fantasma non funziona più come schermo rispetto alla volontà di un Altro vorace. Il panico qui sorge dal senso di inadeguatezza a soddisfarne gli appetiti, un’inadeguatezza che fa scivolare verso il terrore della divorazione. Il valore dello strumento Il filo rosso che attraversa le forme patologiche che abbiamo descritto è il senso di inadeguatezza. Il soggetto, in diversi gradi e con diverse modalità, si sente incapace di affrontare le esigenze che gli vengono poste, le richieste che gli si rivolgono, le situazioni che deve affrontare. Il senso di inadeguatezza però diventa a sua volta un clichè generico se non se precisano i termini. Inadeguatezza significa qui sentire di non avere i mezzi per far fronte ai compiti che il mondo in cui viviamo ci assegna. Sul fondo c’è l’idea di non possedere gli strumenti necessari, di dover affrontare il mondo sprovvisti della dotazione necessaria, e qui si apre un repertorio di definizioni logore e onniesplicative, come la bassa autostima, e tutto il repertorio dei manuali di fai da te psicologico. Allarghiamo allora un po’ l’orizzonte della nostra osservazione. L’adeguatezza, nel mondo teologico, era una virtù che riguardava il rapporto dell’anima con la volontà di Dio. L’adeguatezza dell’uomo in questo senso è messa alla prova dalla tentazione. Il modello è quello evangelico di Gesù nel deserto. In una relazione di diseguaglianza assoluta come quello tra uomo e Dio, i termini correlati dall’adeguatezza – ovvero da ciò che rende uguale – riguardano la volontà. La volontà dell’uomo deve rendersi uguale, sottomettendosi, alla volontà di Dio. Giobbe è adeguato perché accetta ciò che Dio dà e ciò che Dio toglie. Il riferimento non è alla prestazione, ma all’accettazione. Nel mondo post-illuminista il punto di riferimento del mondo umano non è più Dio, e l’uomo misura le proprie azioni in base al successo che ottiene. La prova non è più quella di Gesù nel deserto, ma quella dell’esperimento scientifico, con il correlato di applicazioni tecnologiche che può avere. Quando la misura dell’adeguatezza diventa il successo, si apre lo spazio dell’ansia di prestazione, con tutto quel che ne segue come stress – implicato dallo sforzo supplementare necessario per ottenere risultati che siano sempre all’altezza – o come panico, se il compito appare ingestibile. Passare da un’adeguatezza provata dalla volontà a un’adeguatezza misurata dal successo porta a un’interpretazione oggettivata del senso di inadeguatezza, e incentrata sul senso di mancanza dello strumento adatto. Anche le qualità appaiono oggettivate. Quando don Abbondio pensa, dopo l’incontro con i bravi, che il coraggio non ce lo si possa dare, va nel senso dell’oggettivazione, dell’idea che il coraggio sia qualcosa che si ha o che non si ha, non di qualcosa che si dimostra quando è necessario. In questo riflette più il pensiero ottocentesco di Manzoni che non quello seicentesco in cui sono ambientati I promessi sposi. È l’interpretazione strumentale delle qualità che sta sul fondo delle manifestazioni di ansia, di panico, di stress. L’idea per il soggetto è di non possedere i mezzi per conseguire i risultati richiesti. Per alleviare la difficoltà del soggetto in queste situazioni non servono tutte le tecniche di controllo che vengono abitualmente suggerite. Le tecniche di controllo derivano dalla stessa interpretazione strumentale che costituisce il punto di debolezza del soggetto. Occorre invece produrre un cambiamento del punto di vista interiore. È una sorta di ascesi. Ciascuno ha delle risorse che può mettere in gioco quando la situazione lo richiede, ma la premessa dell’interpretazione strumentale le rende inattingibili. Finché il soggetto pensa che gli manchi lo strumento ad hoc per essere adeguato non ci sono molte mosse. È necessario piuttosto mettere all’attivo quella che è sentita come debolezza. Il panico, per esempio, è un momento di verità. Il punto non è eliminarlo o tornare a un ipotetico stato precedente, che era semplicemente il mascheramento della voragine che il fenomeno del panico rende manifesta. Si tratta piuttosto di partire dal diverso spazio che il panico fa apparire. È significativo che i supereroi dei fumetti americani compaiano proprio a partire dagli anni Trenta, in un momento di crisi radicale del mondo occidentale in cui poteva sembrare che, per dirla con Heidegger, solo un Dio potesse salvarci. In mancanza di un Dio ad hoc, Superman poteva fare al caso. I supereroi hanno in genere superpoteri che non sono a disposizione di noi umani, e questo rende loro il gioco facile. Tra loro però ce n’è uno che non ha superpoteri, e la cui forza deriva da un’ascesi, e dal riconoscimento e dall’utilizzo del proprio punto vulnerabile. Batman infatti – è un aspetto valorizzato soprattutto nella saga cinematografica migliore su questo supereroe anomalo, che è quella di Christopher Nolan – cade un giorno in una caverna infestata di pipistrelli restandone terrorizzato e sviluppando una fobia per questi animali. Bruce Wayne, prima di essere Batman, l’uomo pipistrello, è un ragazzino terrorizzato dai pipistrelli. È la decisione interiore di usare questa sua paura per terrorizzare gli avversari, a fare di un freak – un povero essere condannato dalle sue patologie – il cavaliere oscuro che combatte contro il male. Guarire dagli attacchi di panico non vuol dire sopprimere la paura. Avere coraggio non significa non avere paura, e la ricetta Batman è un modo di cucinare gli avanzi, mettendo a profitto, anziché cedervi, i resti del proprio trauma. Una prospettiva psicoanalitica sullo stress, l’ansia, il panico, che consideri questi termini non nel senso logorato in cui circolano, ma in quello più essenziale che ho cercato di mostrare, più che seguire le strategie di controllo consigliate dai manuali fai da te, dovrebbe dissipare il velo che ammanta tutte le paure quando sono viste sullo sfondo di un’onnipotenza immaginaria, perchè solo tenendo conto del reale che mostrano è possibile aiutare il soggetto a partire con un altro passo.
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