Conferenza tenuta a Plovdiv l'11 novembre 2017 Marco Focchi Il problema dell’autorità declinante in tutti i settori della vita comune, dalla politica alla scuola, alle grandi istituzioni internazionali è diventato critico e da circa una decina d’anni noi psicoanalisti veniamo interrogati su come affrontarlo. Tutto è cominciato con un appello rivoltoci da alcune persone interessate ai problemi dell’educazione. Naturalmente quello educativo è uno dei settori sensibili al problema, e la scuola è la cartina tornasole che ci permette di vedere in modo concreto, nei comportamenti immediatamente osservabili dei ragazzi, le derive prodotte dall’eclissarsi dell’autorità nella società e nella famiglia. Queste richieste hanno prodotto un’ampia riflessione nel Campo freudiano sul tema dell’autorità come ciò che fa da collante al legame sociale, e alcuni risultati si possono leggere nel n°23 de La Petite Girafe. L’autorità e il potere sono temi che stanno nella rubrica dei filosofi e dei sociologi da sempre, e da un po’ di anni hanno assunto un peso particolare. Le classiche considerazioni di Foucault sul problema hanno messo in contrapposizione il tipo di legittimazione derivante dall’autorità, con i concreti dispositivi disciplinari che funzionano attraverso una presa diretta sul corpo, attraverso modalità di esposizione e di controllo continuo. Se l’autorità, che Foucault chiama potere sovrano, fonda la propria legittimazione su un passato, su una tradizione, e in ultima istanza su una trascendenza, il potere disciplinare sorveglia, classifica, gerarchizza, e incontra i propri punti d’arresto con gli individui che non entrano nella forma di una classificazione definita. Gli inclassificabili sono, per esempio, i deboli di mente, che fanno la propria comparsa quando è allestito il sistema disciplinare scolastico, i delinquenti, individuati a partire dal sistema disciplinare poliziesco, o i malati mentali, che sono come lo scarto di tutti i sistemi disciplinari.
Direi che la scuola è l’istituzione dove con maggiore evidenza appare oggi l’insufficienza del controllo disciplinare e, se c’è un declino dell’autorità, nessun sistema disciplinare basta di per sé a gestire le situazioni critiche che si possono creare. Di fronte allo slabbrarsi del legame sociale che appare con più chiarezza nella scuola, dobbiamo interrogarci sulla nozione di autorità nel modo più ampio, e non possiamo limitarci a quel che sempre si vede molto bene nelle coordinate della prospettiva psicoanalitica quando si prende la questione dell’autorità attraverso la nozione del Nome del Padre. Per allargare un po' il nostro angolo visuale è interessante considerare la fonte della nozione di autorità, andare all’auctoritas, che è un concetto essenzialmente romano senza corrispondenza nella lingua greca, tanto che Dione Cassio, lo storico romano di origine greca, considerava che questo termine fosse intraducibile nella sua lingua. Nel diritto romano l’auctoritas è auctoritas tutoris, e designa il modo in cui una volontà interviene a difendere, assistere o integrare un’altra volontà. Per esempio, il pater familias, per prendere il caso che ci interessa più da vicino, ha lo statuto di suis iuris, ha cioè la facoltà di relazionarsi con gli altri in ambito privato, e di partecipare al governo della res publica. Come suis iuris, la sua funzione non è di rappresentare gli alieni iuris, cioè i soggetti a lei sottoposti, come i figli o la moglie, ma piuttosto gli atti degli alieni iuris hanno validità solo in quanto sono sostenuti da chi detiene l’autorità, cioè il pater stesso. È nell’ambito della famiglia che dobbiamo quindi entrare per capire le radici giuridiche dell’auctoritas, e per capire anche la distinzione tra auctoritas e potestas. Questa differenza si riflette sul sistema governativo della res publica romana, dove la potestas spetta ai consoli che esercitano concretamente il potere prendendo decisioni e amministrando la città, e l’auctoritas ha sede nel Senato, cioè nel consiglio degli anziani. La potestas si riferisce quindi a un potere che può essere fatto valere con la forza, se necessario, costringendo chi vi è sottoposto all’obbedienza, mentre l’auctoritas rimanda a una condizione di superiorità morale, che si impone per comune riconoscimento, e per questo ha funzione legittimante. Il potere, per esercitarsi, ha bisogno del benestare dell’autorità, mentre l’auctoritas si fonda su un comune riconoscimento, su una tradizione, su una continuità temporale. Il punto fondamentale è dunque che l’auctoritas ha la sua prima formulazione nel diritto di famiglia e si istituzionalizza poi nel Senato, dove i senatori rappresentano l’autorità come padri della patria. Con il Medioevo e con il Cristianesimo, la nozione di auctoritas viene fatta propria dalla Chiesa. Qui l’auctoritas dei vescovi deriva dalla successione apostolica, cioè dal rapporto diretto e ininterrotto in una catena che risale fino agli apostoli. Il conflitto tra papato e impero, che ha traversato il Medioevo, nasce dalla tensione tra due istituzioni universalistiche, dove si pone il problema del rapporto tra sfera la trascendente e la sfera temporale. Con la costituzione delle monarchie moderne e dei moderni stati nazionali, l’autorità dei sovrani si sgancia dall’investitura della Chiesa istituzionale, pur restando legata alla trascendenza divina: il re è tale perché la sua investitura deriva in ultima istanza da Dio, la sua autorità proviene dalle sue origini, che implicano una dimensione divina. Il primo grande colpo subito dal principio d’autorità, a cui facciamo risalire in ultima istanza l’inizio del suo declino, avviene con Lutero e Calvino, che rivendicano il libero esame della Scrittura. Ci si libera dal dogma ecclesiastico, gli Stati e le monarchie si sganciano progressivamente dalla tutela della Chiesa facendo perdere all’autorità la sua aura sacrale. Il secondo grande colpo al principio di autorità viene naturalmente dalla scienza, quando Galilei argomenta contro il riferimento all’ipse dixit di Aristotele, invitando i contemporanei a guardare nel cannocchiale e osservare le macchie della luna. La luna non è il corpo purissimo descritto da Aristotele, e con il moderno strumento messo a punto da Galilei, il telescopio, ce ne si può accertare con i propri occhi. L’osservazione e l’esperienza diretta prendono il posto della parola magistrale, non è più possibile iurare in verba magistri, occorre aver toccato con mano le cose di cui si parla. Il declino della figura paterna a cui ci riferiamo abitualmente nel nostro contesto, nel Campo freudiano, appoggiandoci a un testo di Lacan del 1936, inizia dunque in realtà molto in là nel tempo, attraversa l’Illuminismo, accompagna la nascita del capitalismo e giunge fino a noi. La crisi dell’autorità passa nel nostro secolo anche attraverso la riflessione della scuola di Francoforte, che ha fatto un importante lavoro di ricerca sociologica pubblicato con il titolo “La personalità autoritaria”. È un lavoro importante perché è la prima ricerca sul campo di questo tipo. I precedenti, i libri di Reich “Psicologia di massa del fascismo” e di Fromm “Fuga dalla libertà”, erano fondamentalmente studi teorici. In questo lavoro Adorno osserva che i bambini, che nella fase di socializzazione primaria hanno subito un’educazione rigida, sono indotti a comportamenti conformisti, a reprimere spinte pulsionali non allineate con le esigenze disciplinari, e a spostare l’aggressività su bersagli alternativi come gli ebrei o altre minoranze. Gli studi di Adorno e di Marcuse hanno fortemente influenzato i movimenti di rivolta degli anni Sessanta, producendo una radicalizzazione dell’atteggiamento antiautoritario, che ha portato ad attaccare l’autorità in tutte le sue forme, nella famiglia, nella scuola, nell’università, nello Stato. Su questi aspetti direi che bisogna dare la tara dell’esperienza europea uscita dalla Seconda Guerra Mondiale e dalle forme di totalitarismo sviluppatosi in Italia e in Germania. Negli anni Sessanta c’è quindi un momento acuto di crisi dell’autorità, collocato però in un percorso di declino iniziato da secoli, che investe – diciamo – tutto il periodo della modernità a partire dal XVI secolo. Il declino dell’autorità non è senza contraccolpi. Lascia una nostalgia delle certezze della tradizione e uno smarrimento rispetto a quello che prima era una sicura bussola. Man mano che il posto dell’autorità resta vuoto, sempre più viene riempito con gli elementi tratti dalla scienza, con le certezze che la scienza può dare per supplire allo spaesamento dell’uomo sganciato dalle tradizioni. Per avere una direzione ci si rivolge poi in particolare alla scienza applicata, alla tecnologia, il cui fattore principale è l’efficienza. La scienza ha dalla sua parte l’esattezza, la precisione, un’accuratezza e una minuziosità sviluppata dalla potenza di calcolo che permette una misurazione di sempre maggior finezza. Basta vedere come si produce una scala di misura oggi con i sottomultipli del metro, dove troviamo il micron che equivale a un milionesimo di metro, e si tratta già di una dimensione al di fuori della nostra esperienza sensibile, ma i sottomultipli arrivano allo zeptometro (m10 -21) che è la grandezza di un quark, fino alla lunghezza di Plank (m10-35), sotto la quale nessuna lunghezza ha significato fisico. Possiamo però penare a qualcosa di più interiormente sensibile all’esperienza, come la misura del tempo. Quando ci si dava appuntamento prima dell’orologio di Huygens (1656) ci si regolava secondo una certa altezza del sole nel cielo, e chi arrivava per primo non doveva aspettare molto, perché la capacità di lettura del tempo attraverso il sole era molto più sviluppata che non ora. Oggi misuriamo il tempo fino al nanosecondo, un miliardesimo di secondo (10-9), ovvero il tempo che la luce impiega a percorrere quasi 30 centimetri. Ma dire “quasi” è eretico dal punto di vista della scienza, perché si è in grado di misurare esattamente che percorre 29 centimetri virgola tante cifre. Il mondo antico poteva avere un’astronomia matematica perché il cosmo era suddiviso in un mondo sovrasensibile perfetto e immutabile, e in uno sensibile imperfetto e cangiante, a cui non si poteva che applicare una misurazione pressappoco, come bene spiega Koyré nel suo libro “Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione”. Quando, grazie a Galilei, questo dualismo viene superato, diventa possibile oltre a una scienza matematica del mondo celeste, anche una fisica matematica. La matematica, in un certo senso, scende dal cielo alla terra. L’universo della precisione in cui viviamo cambia completamente la nostra quotidianità, rende possibili le macchine, e tutti i dispositivi di connessione che abbiamo oggi in tasca. L’efficienza dipende dall’universo della precisione, e diventa il significante padrone del nostro tempo. Tutto è valutato in base al criterio dell’efficienza, tutto viene sottoposto alla prova, tutto deve essere evidence based. L’efficienza colma così lo spazio lasciato vuoto dall’autorità, ne prende il posto, diventa l’appiglio a cui gli amministratori si aggrappano per assegnare o negare un incarico, e poiché l’efficienza richiede precisione, sempre più settori della nostra vita passano sotto il governo degli algoritmi, e le pratiche richieste appaiono affidabili solo in quanto presentate come scientifiche. Oggi anzi, è affidabile solo ciò che va sotto il marchio di qualità della scienza e dell’evidence based, cosa che la pubblicità e il marketing sanno sfruttare benissimo. Dove l’autorità istituzionale appare sempre più debole, sempre più si rafforza la richiesta di efficienza, e l’esempio maggiore è la scuola. La famiglia attuale, per tornare al punto focale, non va più sotto l’autorità del pater familias. Oggi si parla di genitorialità. Padre e madre sono messi sullo stesso piano quanto all’autorità nei confronti dei figli. La famiglia come ambito di socializzazione primaria è però oggi decisamente indebolita per via di tutti i vettori esterni che intervengono con funzione modellizzante: la televisione, internet, anche la radio, che grazie ai podcast ha conquistato un nuovo spazio, i videogiochi, che plasmano l’immaginario. La famiglia sempre più spesso fallisce nel costituire e nel consentire di interiorizzare quella funzione superegoica che consente il controllo degli impulsi. Il compito viene allora delegato alla scuola, che risulta altrettanto impotente, perché non è più la scuola disciplinare dei tempi di Dickens. Il problema viene allora demandato in ultima istanza allo psicologo della scuola, ma in che veste? Nella misura in cui la psicologia viene considerata una scienza – e tutta l’impostazione universitaria della psicologia oggi va completamente in questo senso – lo psicologo viene considerato come un esperto in possesso delle necessarie procedure, delle linee guida per attuare un intervento. Quando ho fatto consulenza in una scuola mi è stato subito chiaro che il posto di soggetto supposto sapere attribuitomi era quello dell’esperto, del detentore di strumenti efficienti al fine di correggere i comportamenti. È un po’ una visione della psicologia da “Arancia meccanica”, ma è la visione che non solo i media, ma anche l’università promuove. Quando i genitori si rivolgono a me per un problema legato a un figlio adolescente, per esempio, c’è per un verso la delega a che io mi occupi di ciò di cui non si sentono in posizione di sostenere. Per altro verso c’è la domanda: “Cosa dobbiamo fare noi?” “Come fare?” “Come fare cosa?” dovremmo aggiungere, perché la domanda sottintende: “Come dobbiamo fare a regolare un comportamento che sfugge di mano?” Noi però sappiamo bene che il comportamento è solo il lato fenomenico della questione, e che in realtà il comportamento è solo un aspetto derivato del problema, perché quel che si tratta di regolare in realtà è il godimento. Un mio giovane paziente, per esempio – un ragazzo che frequentava il liceo e che di punto in bianco lo ha abbandonato, un ragazzo che all’età di diciotto anni non ha mai avuto una fidanzatina e neppure me ne parla, che rimane alzato fino alle quattro di notte per star dietro a dei giochi su internet e si sveglia mezzogiorno per incontrarsi con gli amici, che parla del suo futuro in modo talmente irrealistico da far sorgere un sospetto diagnostico anche senza spingersi in colloqui clinici particolarmente approfonditi – questo giovane paziente si trova a deludere le aspettative dei genitori e in particolare della madre, la quale ha una posizione dirigenziale in un’importante azienda. Abituata al piglio decisionista aziendale, la madre avanza le sue richieste di “normalizzazione” del figlio, considerando che forse è giunto il momento di passare ai metodi forti. Il passaggio ai metodi forti – con l’eco sinistra che tali discorsi hanno di invocazione dell’Uomo forte che risolve le situazioni – significa il passaggio a una terapia confortata dalla scienza, ovvero una terapia farmacologica. Naturalmente non c’è una pillola che indurrà il ragazzo a riprendere la scuola, o a vedere il suo futuro con più lucidità. Il farmaco è però visto come intervento sostanziale, perché modifica la sostanza biologica del corpo. Il godimento, nel concetto che ne abbiamo da Lacan, presuppone evidentemente il corpo, ma è piuttosto legato a un oggetto extracorporeo come l’oggetto a. Regolare il godimento richiede un intervento simbolico che faccia presa sul reale del corpo, e che abbia un effetto di separazione, che permetta al soggetto di non essere risucchiato dal godimento nocivo di un Altro invadente o persecutorio o semplicemente ansiogeno. L’intervento “forte”, inteso come farmacologico o anche come intervento di una figura di padre poliziesco-autoritario, risulta solo controproducente, e semplicemente cristallizza le resistenze. Il farmaco in sé può non essere inutile come forma di contenimento se permette il lavoro effettivo che è quello di costruzione attraverso il simbolico. Non è ovviamente un lavoro immediato e a portata di mano, e non è un lavoro che risponda ai criteri di efficacia a cui risponde la scienza. Sappiamo poi quanto il godimento sia un problema intrecciato con il diritto, la giustizia distributiva, la legge. Lacan chiarisce molto bene il rapporto del diritto con il godimento a partire dalla nozione di usufrutto, per esempio il diritto a godere di un’eredità, ma di goderne con moderazione, senza strafare, senza sprechi. Il rapporto tra godimento e giustizia distributiva è poi noto per esperienza a tutti i genitori che debbano distribuire dei regali tra i fratelli, o semplicemente ripartire una torta. Lo stesso problema è ben noto agli insegnanti che debbono sforzarsi di distribuire la loro attenzione senza privilegiare e senza trascurare nessuno. Le liti tra fratelli, l’equilibrio della classe che salta, sono tutti effetti, che si manifestano nel comportamento, di un disequilibrio percepito nell’equa distribuzione del godimento. Si delinea dunque una chiara divisione di piani. Il piano del comportamento è quello su cui siamo generalmente interrogati: come fare per correggere le condotte devianti di un adolescente che non ascolta? Come fare per gestire i capricci panclastici di un bambino in piena crisi? Come fare per reindirizzare sulla retta via il figlio smarrito nei labirinti della tossicodipendenza? Se la domanda viene posta sul piano del comportamento è perché questo congruente con il piano dell’efficienza. Nello stesso modo in cui si regola il comportamento di un corpo inerte nello spazio, nel modo cioè per esempio in cui si regola la traiettoria di un veicolo, così si immagina di poter regolare la traiettoria comportamentale di un soggetto in crisi attraverso regole, procedure, espedienti, tattiche o strategie da applicare. Chi ha fatto esperienze di consulenza scolastica sa che non c’è niente di più frustrante che dare questi consigli comportamentali. L’unico modo di darli è infatti immaginare come ci comporteremmo noi di fronte a una situazione che ci viene descritta. Il problema è che il modo in cui ci comporteremmo non è fatto solo di prescrizioni esterne, esplicite trasmissibili, ma di mille implicazioni e sfumature di senso che si generano e si regolano nel momento stesso dell’azione, e che non sono dunque trascrivibili. Quando si cerca di trasmettere simili indicazioni ci si trova innanzitutto di fronte al filtro dell’insegnante o del genitore che dovranno poi applicarle, e che lo faranno a partire dalle loro personali premesse, dando a queste indicazioni il senso che si genera a partire dalla loro specifica azione e dal loro modo peculiare di creare un rapporto con il bambino. Le indicazioni sono solo la veste formale, esterna, di qualcosa di molto più complesso che non passa per la semplice via della comunicazione. È la ragione per cui l’autorità di cui una persona è investita per la posizione che occupa o per il ruolo che esercita, può essere minata del modo stesso in cui la esercita. Occorre vedere che il modo dipende dal rapporto con il godimento. Bisogna quindi considerare la duplice radice del Super-io: nel linguaggio e nella pulsione. Quando introduce questo concetto, in “L’Io e l’Es”, Freud oscilla tra Super-io e ideale dell’io, e la nozione di Super-io non è chiaramente distinta da quella di ideale, anche se la sua radice pulsionale è chiaramente individuata. Per Melanie Klein la radice pulsionale è del tutto esplicita, e secondo la Klein il Super-io attinge la propria forza dalla pulsione sadica. Gli oggetti ideali e persecutori introiettati nella posizione schizo-paranoide formano le prime radici del super-io e l’oggetto persecutore è visto come punitivo. Questa visione andrebbe soppesata e considerata, e per quanto riguarda la formazione dell’autorità è importante analizzare come si distribuiscono le componenti. Bisogna infatti in ultima istanza tenere conto del fatto che l’autorità chiede al soggetto una certa cessione di godimento. È quel che ne “Il disagio della civiltà Freud” chiama “rinuncia pulsionale”. L’autorità che tiene insieme una comunità, che costituisce il legame sociale, chiede una cessione di godimento perché la comunità possa reggersi. È chiaro che chi è investito dell’autorità può chiedere questa cessione a favore della comunità solo se mostra di non approfittarne intimamente, perché altrimenti la sua autorità viene compromessa. Quando gli agenti della Guardia di finanza sono i primi a evadere le tasse, loro che dovrebbero controllarne l’equa distribuzione, è chiaro che tutto il sistema è corrotto e niente può più funzionare. Vorrei proporvi un esempio clinico. Si tratta di un uomo che in analisi esprime in diversi sogni una forma di rancore aggressivo nei confronti dei genitori, e in particolare nei confronti del padre, fino al momento in cui emerge un preciso ricordo. Un pomeriggio, quando era adolescente, cercava un vecchio giornalino a fumetti che aveva riposto in un armadio, quando armeggiando tra le cose cade a terra aprendosi una vecchia valigia del padre, e riversa sul pavimento una gran quantità di giornali pornografici. Il paziente ne rimane completamente sconvolto, e da quel momento tutte le prediche morali che ha fino a quel momento sentito nelle parole del padre prendono un senso completamente diverso. La sera, a tavola, sente un’avversione profonda nei suoi confronti, e si trattiene a stento dallo svergognarlo di fronte a tutta la famiglia. In questo esempio si delinea un principio educativo di fondo: quello della separazione dell’intervento educativo dal godimento nella sua dimensione fantasmatica. Un bambino può accettare un intervento educativo, anche molto energico, anche violento, se lo sente giustificato in base a una sorta di etica implicita che si è determinata nella relazione con l’adulto. Non accetterebbe lo stesso intervento manesco se lo sentisse mosso da uno sfogo di rabbia o da un movente che implica una forma qualsiasi di soddisfazione da parte dell’adulto nell’infliggere la punizione. La radice pulsionale del super-io implica sì una forma di soddisfacimento, ma diverso da una messa in gioco del godimento dell’Altro. Per permettere l’interiorizzazione del super-io come istanza morale, occorre che la radice pulsionale si manifesti come forza, come atto, e non come soddisfacimento, come godimento di amministrare la punizione. Poiché tuttavia questa separazione non è mai completamente a tenuta stagna, riconosciamo in questa permeabilità il senso d’ingiustizia subita di cui spesso si lamenta il nevrotico. Il senso di ingiustizia nel nevrotico deriva dalla percezione che il godimento di cui il soggetto si sente privato va a favore dell’adulto, e non è semplicemente in funzione dello scopo educativo o dell’inserimento nella comunità. Spesse volte in analisi capita di trovare ricordi che fissano il momento di stupore, anche in pazienti adulti, nello scoprire la sessualità dei genitori, come se la coppia genitoriale fosse tenuta in una sfera separata dalla realtà della vita. Di fatto la psicoanalisi, mostrando lo sfondo pulsionale nella determinazione dell’autorità, mostra al tempo stesso l’impossibilità di questa separazione, che ricondurrebbe altrimenti all’origine trascendente, all’investitura dell’Altro, all’autorità definita solo dal ruolo. Lo sanno bene gli insegnanti che sono istituzionalmente investiti d’autorità dal Ministero della Pubblica Istruzione che agli scopi del caso è equivalente alla sfera divina che investe d’autorità il re, ma che non appena entrano in classe sono messi alla prova e devono dimostrare di potere sostenere il ruolo di cui sono portatori. L’autorità, pur ricevuta per investitura, deve essere fatta propria, e questo processo di appropriazione passa attraverso degli atti. Chi ha messo particolarmente in risalto la relazione dell’autorità con l’atto è stata Hannah Arendt. Nella sua analisi l’autorità sta in una catena di continuità che, nel caso di Roma, da lei considerato, risale a un atto di fondazione. È nella concretezza degli atti che si vede la radice pulsionale dell’autorità, il che vuol dire in una parola tenuta, pacta sunt servanda, una parola che è diversa da quella che gira a vuoto, che recita: “Te l’ho detto e ridetto mille volte”, una parola che porta con sé delle conseguenze, la parola di un patto che implica una fides, una credenza, ma anche delle conseguenze, quando non venisse rispettata. È quello che, in altra sede ho chiamato una parola promulgativa, e su cui vorrei concludere il discorso di oggi.
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