[continuazione di questa domanda]
Ok dottore perfetto quello che invece vorrei sapere (partendo dal presupposto che si tratti di filofobia o comunque paura d'amare !)e'se il filofobico quando si allontana ,si chiude ,non riesce più a relazionarsi normalmente con questa persona (ovviamente dopo aver dimostrato affetto premura interesse !!!)significa che prova sentimenti d'amore?e'questo il concetto sul quale vorrei chiarimenti .Grazie T.R. >Gentile T.R., come le ho illustrato nella precedente risposta ci sono molti modi di arrivare al sintomo della filofobia, e ogni via diversa presuppone una costituzione psicologica diversa. Non c’è dunque una maniera tipica di comportarsi, ma ogni volta specifica e relativa alle ragioni che hanno portato quel determinato paziente a sviluppare una filofobia. Credo che lei abbia in mente una persona precisa, e voglia sapere se questa, malgrado il sintomo che manifesta, provi ancora sentimenti d’amore. Non posso quindi dirle, senza conoscerla, se la persona che lei ha in mente provi o no questi sentimenti, soprattutto se ciò mette in gioco scelte fondamentali della sua vita. La cosa migliore in questo caso è che lei, insieme alla persona, consulti uno specialista con il quale poter esprimere il proprio disagio e farne emergere le ragioni. Solo a partire da un quadro completo della personalità si può avere una risposta corretta alla sua domanda. Un saluto cordiale dott. Marco Focchi
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Salve dottore!
Mi piacerebbe capire di più la filofobia. Cosa la scaturisce ,come si manifesta e se si manifesta solo verso persone per cui proviamo un forte sentimento. ????? E soprattutto l'allontanamento avviene proprio perché si prova amore verso quella persona? ed i sintomi fisici correlati si potrebbero manifestare in presenza di quella stessa persona? spero di essermi spiegata e soprattutto spero in una sua risposta. Cordialità! T.R. >Gentile T.R., la filofobia, ovvero la paura dell’amore, deriva dalle esperienze primarie che nell’infanzia hanno modellato le relazioni, ma soprattutto dal modo in cui il soggetto risponde a queste esperienze. All’origine può esserci il timore dell’abbandono, che porta a una presa di distanza mirata a prevenirlo. Ma un aspetto significativo è che dare se stessi in una relazione d’amore significa presentarsi all’altro come mancante, in stato di povertà. Non dimentichiamo che nel mito platonico riportato nel Simposio Eros, cioè amore, nasce da Penìa, la povertà, e da Poros, che è l’espediente. Ma è Penìa a prendere l'iniziativa, è lei che, visto Poros addormentato nell’ebbrezza su un prato, approfitta della situazione per unirsi a lui. Concedersi all’amore significa presentarsi all’altro nella “povertà”, cioè come mancanti, desideranti, e per alcuni questo stato è inaccettabile, urta contro la barriera del narcisismo, o contro l’angoscia di castrazione, giacché implica una perdita della propria completezza e autosufficienza. Ci sono però anche altre ragioni e altri percorsi mentali che possono portare alla paura dell’amore. La relazione d’amore può essere vista implicare una sorta di imprigionamento. Nella Certosa di Parma Fabrizio del Dongo cede all’amore, dopo mille scorribande, quando è imprigionato nella torre, e dalla finestra vede Clelia, la figlia del generale. Alcuni temono il legame proprio perché lo vedono come una cattura, una limitazione del possibile. Anche in questo caso sullo sfondo sta il timore della perdita: realizzare una possibilità significa perderne altre di potenziali. Come vede a un sintomo si può arrivare per strade molto diverse, e quel che è interessante sul piano terapeutico è seguire la traccia del percorso individuale, che ha sempre peculiarità irriducibili ai casi generali. Cordiali saluti, dott. Marco Focchi Gentile Dottore,
ho 34 anni e sono intenzionata ad intraprendere finalmente un percorso di psicoterapia. Dico finalmente perché da poco dopo i 20 anni la mia vita non è serena, nulla di grave ma spesso avverto un vuoto che a tratti appare incolmabile e cado in una sorta di disperazione. Ci sono alti e bassi e nonostante alcune volte ciò abbia pregiudicato l'organizzazione della mia vita, ho sempre rimandato il tentativo di occuparmene seriamente. Qualche settimana fa mi sono messa al computer e ho incominciato a cercare informazioni su vari terapeuti che avrei potuto contattare, siccome non ne conosco direttamente e non ho voluto chiedere a qualche mia amica (si.. forse avrei dovuto chiedere). Mi sono trovata di fronte una miriade di siti e di annunci e sinceramente non so su cosa fare affidamento per la mia scelta. Non conosco i tipi diversi di terapia e non so quale possa fare al caso mio. Vedo che si parla molto di terapie comportamentali che possono risolvere i problemi anche in tempi brevi, così come trovo siti di professionisti che invece dicono che ogni lavoro implica dei tempi più lunghi e un'analisi più approfondita (sono la minoranza però). Devo dire che la maggior parte delle volte guardo la foto del professionista e cerco di capire se mi ispira fiducia, anche se non credo sia questo il modo giusto di scegliere. C'è un modo di capire se per il mio problema è meglio rivolgersi a terapie brevi oppure a terapie che comportano tempi più lunghi? Sarà il terapeuta a capire cosa va meglio per me oppure sarà la mia scelta a comportare il tipo di terapia che affronterò? Grazie mille per la disponibilità, un cordiale saluto F.N. >Gentile signora, la sua domanda va a toccare un nodo estremamente peculiare della psicoanalisi, e anche della psicoterapia. La scelta di uno psicoterapeuta o di uno psicoanalista non è infatti analoga a quella di un buon medico, o di un buon avvocato, la valutazione dei quali può in fondo basarsi su risultati almeno relativamente oggettivatili, come un disturbo guarito e una causa vinta. Nella psicoanalisi, e nella varie forme di psicoterapia che ne derivano, gli obiettivi e i criteri con cui valutare i risultati sono molto diversi tra loro, e soprattutto sono correlati al senso di soddisfazione che il paziente trae dall'esperienza, che non è riconducibile a termini statistici. Il consiglio di un'amica che si è trovata bene con un determinato psicoterapeuta può non essere interessante per lei perché le sue aspettative e i suoi obiettivi e la sua sensibilità sono completamente diversi, senza che questo tolga nulla al valore di quello psicoterapeuta. Il “bravo” psicoterapeuta o psicoanalista è quello con cui si riesce a stabilire una buona relazione di transfert che permette di entrare nei labirinti della propria più intima disposizione, nell’architettura profonda del proprio essere. Il transfert è però, per l’appunto, una relazione, e non è dunque qualcosa che sia valutabile con criteri oggettivabili. Il suggerimento che le darei è di considerare psicoanalisti che abbiano avuto una formazione in una delle migliori scuole, quelle consolidate da una sicura tradizione e da una significativa esperienza clinica. Le scuole riconosciute in Italia sono elencate nel sito del MIUR. Si tratta delle scuole istituzionali, che hanno superato il vaglio di severi criteri di convalida. Ma questo è ancora solo un primo passo, per quello può essere utile poi guardare il curriculum personale dell’analista prescelto. Il momento chiave è però quello dell’incontro: è lì che si può capire se nasce quella corrente di fiducia che permette l’instaurazione del transfert e con esso la possibilità del lavoro terapeutico. Quando acquista una casa quel che guarda è se i muri sono solidi, il tetto ben costruito, gli spazi opportunamente distribuiti, le imposte ben ristrutturate. Quando sceglie uno psicoanalista la domanda che è interessante farsi è: sento di poter affidare i miei più intimi segreti, la parte più delicata e più vulnerabile del mie essere a questa persona? Un cordiale saluto Dott. Marco Focchi |
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Gennaio 2025
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