Sono vittima di un conflitto: da una parte vedo l'ideale, dall'altra mi scontro con il reale. La mia analisi non è come la vorrei.
Mi pento, ogni giorno, di essere caduta nelle trame del transfert, di amare e desiderare quell'uomo distante, lontano lo spazio di un tappeto fra due sedie. Mi pento di aspettare il suo amore, e mi pento di sentire la delusione del rifiuto astratto, delicato e indiretto. Mi pento di aver creduto che l'analisi fosse uno scambio intellettuale, ideale, un eterno innamoramento che sa d'infinito. Mi uccide vedere che la realtà è altro da me, che l'analista non è chi vorrei, e che, nonostante questo, ancora non concludo, ancora attendo l'inattendibile. Penso che lo lascerò, che mi cercherò un altro analista, e che questa volta starò attenta a non farmi coinvolgere, a non cedere all'attraenza della parola. Penso che sarò meno ingenua, più consapevole, e che lui finalmente cadrà dimenticato nel limbo della memoria. La fuga può essere salvifica, a volte... Oppure no? Ecrú > Gentile Ecrú, ci sarebbero molte domande che la sua lettera fa sorgere. Che il transfert non si distingua sostanzialmente dall'amore è qualcosa che Freud già sapeva, e l’esperienza di Breuer con Anna O. ne è l’esemplificazione concreta. Proprio per questo però, all'interno della relazione analitica ci sono modalità atte a circoscrivere quest’esperienza, come fosse prodotta in laboratorio, perché possa essere finalizzata a muovere la cura anziché risolversi in se stessa. Cosa è successo dunque nella sua analisi? Qualcosa è scappato di mano? Su questo non posso dirle niente, perché lei non mi dà informazioni in merito. Credo che la soluzione che lei si prospetta, di provare con un altro analista, sia una possibilità valida. Nelle Scuole analitiche in fondo l’esperienza del controllo e della supervisione hanno proprio la funzione di non lasciare nessuno in balia dell’esperienza dell’apprendista stregone, che non gestisce più le forze che ha messo in movimento, e il transfert è una forza straordinariamente potente, come lei ha imparato, diciamo, purtroppo a sue spese. Marco Focchi
1 Comment
Buonasera,
ho letto le precedenti domande e risposte sulla filofobia, che non sospettavo essere tanto discussa. Mi chiedo se nei "sintomi" possa rientrare anche la ripulsa. Dopo i primi approcci di flirt e attenzioni reciproche, mi è sempre capitato di provare un forte rifiuto dell'altro a livello estetico, come se un occhio clinico impietoso si spalancasse all'improvviso in me e mi convincesse che niente e nessuno sarà all'altezza del mio desiderio. Bastano minuscoli difetti fisici che fino a quel momento non avevo mai considerato. Ho notato che succede sempre quando capisco che l'altro prova sentimenti nei miei confronti e desidera cominciare una relazione definita. Indipendentemente dalla presenza di sentimenti in me per l'altro, ecco che mi sento disgustata. Di solito questa ripulsa mi porta a due diverse scelte: chiudere definitivamente con l'altro (anche in malo modo, rifuggendolo addirittura) o mettermi in un dilemma sentimentale che contrappone la voglia di darmi all'altra persona e la voglia di chiedere la sua "clemenza" e concedermi di rimanere solo amici, senza possibilità di sentimenti feriti. Intravedo del narcisismo qui, e anche un bel po' di esperienze primarie sofferte. Mi piacerebbe sapere il suo parere a riguardo. Grazie in anticipo del suo tempo, V. >Cara V. nella descrizione del modo in cui si verifica per lei la ripulsa direi che c’è qualcosa che va al di là del quadro della filofobia. Senza necessariamente forzare l’atteggiamento da lei presentato in qualche specifica categoria clinica, quel che appare è che c’è un rifiuto dell’altro che nasce come difesa da un radicale rifiuto di sé. Si pensa al narcisismo in genere come all’autocompiacimento di chi ama se stesso facendo dell’altro un semplice satellite, o un complemento funzionale ad alimentare la propria auto-ammirazione. Ma non è il solo modo in cui si presenta il fenomeno narcisistico. Esiste anche un narcisismo negativo, dove è mantenuto un ideale con il quale il soggetto sente di non coincidere, e che tuttavia nulla può intaccare, come se fosse un’ancora di salvezza. Il minimo difetto dell’altro appare dunque come un’attentato a questa purezza dell’ideale, che deve essere preservata ad ogni costo. In questi casi il lavoro terapeutico deve andare in direzione della decostruzione dell’ideale che, evidentemente, per quanto il paziente lo senta come irrinunciabile, risulta disfunzionale. Il suo caso, nel modo in cui lo descrive, mi sembra prendere più questa via che quella della filofobia. La paura di lasciarsi coinvolgere in una relazione sentimentale, facendo apparire un desiderio, quindi una mancanza, mette a repentaglio la purezza incontaminata dell’ideale a cui ci si aggrappa come all’unica soluzione fino al momento trovata. La saluto cordialmente dott. Marco Focchi |
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Gennaio 2025
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