![]() Conferenza tenuta presso la ELP di Valencia il 15 giugno 2024 Marco Focchi Il seminario L'envers de la psychanalyse, nelle ultime lezioni, va sotto il segno di una ripresa del dialogo con Hegel, nella chiave in cui Hegel si è trasmesso a Lacan attraverso Kojève, e cioè attraverso un’interpretazione incentrata sulla figura della Fenomenologia dello Spirito che nella sezione sull’autocoscienza mette in scena la lotta tra servo e padrone. In un certo senso è naturale per Lacan, in questo seminario, tornare a guardare verso Hegel, verso questo Hegel della lotta di puro prestigio. Si tratta infatti del seminario dove ha costruito i quattro discorsi, e uno di questi discorsi – tutti sono importanti, ma questo è senz’altro uno dei più commentati e che ha conosciuto maggior fortuna – è il discorso del padrone. La figura del padrone nasce per l’appunto della lotta tra due autocoscienze. La lotta è un confronto nel quale la posta in gioco è il riconoscimento. Il padrone e lo schiavo
Dopo la prima parte della Fenomenologia, in cui Hegel ha studiato il rapporto sensibile della coscienza con gli oggetti attraverso lo sviluppo della percezione, e poi il passaggio all’intelletto, per la prima volta troviamo, a conclusione ddi questo processo, non una coscienza di fronte ai propri oggetti, ma una coscienza che è diventata – interiorizzando il rapporto con i propri oggetti – coscienza di sé. Ed è così che non ha più di fronte altri oggetti, ma un’altra autocoscienza. Il vincitore della lotta è quello che diventa il padrone, perché ha accettato la possibilità della morte, ha accettato di andare fino in fondo, di poter coincidere con la morte . Infatti Lacan sigla con S1 questa identificazione con la morte, che lascia invece al servo l’identificazione con il godimento siglata S2. Il servo infatti è servo in quanto non ha voluto, o non ha potuto, rinunciare al godimento affrontando la morte, anche se deve poi comunque a questo godimento deve rinunciare, perché il servo viene messo al lavoro, e il frutto di questo lavoro è devoluto a favore del padrone. Vediamo dunque come si costruisce il meccanismo del discorso del padrone: S1 e S2 sono i due contendenti, che vengono scritti nella riga in alto, al posto dell’agente il primo e del lavoro il secondo, mentre alla riga sotto, al posto della verità e della produzione, vanno la S barrata e l’oggetto a minuscola. Declassamento della verità In questa stessa distribuzione dei posti vediamo già una sorta di declassamento della verità, giacché notiamo che viene messa nella riga inferiore. La penultima lezione del seminario d’altra parte porta il titolo “L’impotenza della verità” che illustra chiaro e tondo il cammino che qui Lacan sta prendendo. Nel corso del ’98-’99 L’esperienza del reale nella cura psicoanalitica, d’altra parte, Jacques-Alain Miller mette particolarmente in risalto questo declino della verità, quando mostra nell’ultimo insegnamento di Lacan una promozione del reale, la quale implica una necessità di predisporre, di giustificare, di dimostrare, e dove l’interpretazione perde il suo carattere oracolare caratterizzandosi più come conseguenza che come rivelazione. Questo vuol dire che il reale assume un posto preminente, nello svolgimento della cura, rispetto alla verità. Lacan inizia la lezione con il commento di un passo di Freud tratto da Analisi terminabile e interminabile, dove Freud dice: non dobbiamo dimenticare che la relazione analitica è fondata sull’amore per la verità, vale a dire sul riconoscimento della realtà. In tutte la parte finale del seminario XVII Lacan si dedica precisamente a smontare questa asserzione di Freud, dicendo che nella definizione da lui proposta è questione di un reale un po’ ingenuo che si fa pensare per verità. Qual’è in realtà il punto di fondo, che Lacan non esprime, ma che possiamo tuttavia mettere chiaramente in risalto? È che la definizione di Freud adotta una nozione di verità assolutamente tradizionale, consistente nel dire: la verità è la corrispondenza con la realtà. Questa definizione della verità come adaequatio rei et intellectus risale a San Tommaso, ma la concezione corrispondentista della verità è ben più antica. Certamente la troviamo in Aristotele, che nella Metafisica presenta una definizione simile: dire di ciò che non è, che è, o di ciò che è, che non è, è falso, mentre dire di ciò che è, che è, e di ciò che non è, che non è, è vero. Viviamo d’altra parte ancora oggi sotto il regime aristotelico della verità. È così che pensa la verità il positivismo, cioè l’atmosfera mentale in cui vive Freud, è così che la pensano oggi la logica, la scienza, il discorso comune. Tutti pensiamo in fondo che dire la verità sia di dire le cose come stanno, siamo convinti di essere nel vero quando quel che diciamo rispecchia la realtà. Evidentemente non è così che pensa la verità Lacan. Poiché però, come abbiamo detto, in questo seminario Lacan riprende con forza il dialogo con Hegel, bisogna aggiungere che neanche Hegel pensava la verità in modo così semplicistico. Nella Fenomenologia dello spirito troviamo la sua famosa affermazione: il vero è l’intero. Questo vuol dire che la verità non può essere compresa nei termini di parti isolate, sulle quali formulare asserzioni di verità o do falsità. Ogni cosa implica il suo contrario, e non sappiamo cos’è una cosa se non ha traversato il suo contrario, se non è passato per la propria negazione. Per Hegel il motore della realtà è la contraddizione, per cui, di fatto, non possiamo dire le cose come stanno, perché le cose non stanno, sono in un processo solo al termine del quale diventano quel che sono: perché il giorno sia giorno deve essere diventato notte, il caldo deve essere diventato freddo, il vero falso. Il concetto di verità in Hegel è quindi legato allo sviluppo dialettico: la verità non è statica, né corrispondente a fatti oggettivi, ma è un processo che si svolge attraverso il passaggio per la potenza del negativo, ed entrando in una contraddizione interiore. Il vero è l’intero perché quando tutto il processo si è compiuto, pensiero e realtà coincidono nella realizzazione del sapere assoluto. Ora: chiaramente la verità di cui parla Lacan risente di Hegel, ma il punto d’arrivo per Lacan non è il suo compimento nel sapere assoluto, è piuttosto la mancanza. La mancanza Il problema della mancanza si introduce nell’insegnamento di Lacan a partire dal seminario IV, ma trova la sua struttura formale a partire dal momento in cui Lacan fa suoi i teoremi di Gödel, il famoso matematico di origine austriaca. In questa sede ci interessa il primo teorema di Gödel, che sostiene che in ogni sistema formale sufficientemente potente da includere l’aritmetica dei numeri naturali, ci saranno sempre affermazioni vere che non possono essere dimostrate all’interno del sistema stesso. Questo significa che nessun sistema formale così concepito può essere allo stesso tempo completo, cioè in grado di dimostrare tutte le verità aritmetiche, compresa quella che afferma la verità di se stesso, e coerente, cioè privo di contraddizioni. In altri termini: c’è sempre qualcosa di vero che sfugge al sapere, per cui il sistema non può mai concludersi in un sapere assoluto . Ora: non vogliamo applicare Gödel al sistema di Hegel, ma la considerazione che possiamo trarne per Lacan è che se per Hegel il vero è l’intero, nella psicoanalisi constatiamo invece che manca sempre qualcosa perché il sistema si possa completare, perché si possa chiudere la partita. Il sistema di Hegel si chiude col sapere assoluto perché alla fine soggetto e oggetto coincidono, e la verità sta in questa coincidenza. Se il sistema include invece una mancanza, questa chiusura non è possibile, c’è un inseguimento infinito, c’è una fuga senza punto d’arresto, perché la verità non costituisce un punto d’arresto. C’è stato un momento in cui Lacan ha considerato invece che la verità potesse essere un punto d’arresto. È stato quando ha fatto coincidere la verità con la mancanza. L’illustrazione più espressiva di quest’idea è ne La cosa freudiana nel passaggio in cui riprende mito di Atteone (Ecrits, fr. p. 412, it p.402). Freud in questo testo è presentato come un Atteone che lancia i suoi cani all’inseguimento di Diana, la dea cacciatrice, e la corsa lo porta cosi lontano che può fermarsi solo alle grotte dove “la Diana ctonia, nell’ombra umida che la rende simile, la mescola, la sovrappone, la equivoca con il giaciglio emblematico della verità, offre alla sua rete, con la falda uguale alla morte, il limite quasi mistico del discorso più razionale del mondo, perché noi vi riconosciamo il luogo in cui il simbolo si sostituisce alla morte per impadronirsi del primo rigonfiamento della vita”. In questo splendido passaggio, che mi ha sempre affascinato, Lacan parla chiaramente della castrazione femminile come luogo della verità. La verità è qui identificata con la mancanza dell’Altro. Potremmo dire che anche qui si giunge a un punto di chiusura. Quando si arriva al riconoscimento di una mancanza nell’Altro, al riconoscimento di una mancanza che non è all’inseguimento di un oggetto che la colmi, di una mancanza che è inemendabile, la marca che il linguaggio lascia sul corpo e che nulla può, né deve, cancellare, allora siamo giunti al punto conclusivo dell’analisi. In questa fase del suo pensiero Lacan considera che portare la casella della mancanza al posto della verità sia la chiusura del processo analitico. C’è in questo qualcosa che riecheggia il processo hegeliano. Se per Hegel il vero è l’intero, per Lacan la verità manifesta una mancanza che completa e conclude il processo analitico. Questa è la concezione che Lacan ha tenuto fino a cavallo degli anni ’60 ma, sappiamo, non si è fermato qui. E neanche la filosofia si è fermata alla concezione hegeliana di verità. La più radicale, critica, la più fondamentale messa al vaglio, la più estrema e infine la più completa destituzione della nozione di verità la noviamo in Nietzsche. Si potrebbero trovare innumerevoli aforismi su questo tema, ma ne prendiamo qui solo uno, giusto per avere il senso del radicale attacco di Nietzsche a quello che è sempre sembrato uno dei concetti più solidi della filosofia. È l’aforisma 495 de La volontà di potenza. ““Il senso della verità”, se respingiamo la moralità del non mentire, deve legittimarsi davanti a un tribunale – cioè in quanto mezzo per la conservazione dell’uomo, come volontà di potenza. Così pure il nostro amore per il bello, che è la volontà formatrice. Questi due sensi sono affini: il senso della realtà è il mezzo per acquistare la potenza sufficiente a foggiare le cose a piacere nostro. Il piacere di formare e trasformare – un piacere primordiale! Noi possiamo capire solamente un mondo che noi stessi lo abbiamo fatto.” Come vediamo, lo schiacciamento della nozione di verità ha fatto abbastanza strada nel pensiero moderno, e offre i migliori motivi perché Lacan possa tenerne conto nel seminario con cui si apre la decade degli anni ’70, l’ultima decade del suo insegnamento. Vediamo così presentarsi come titolo di una sua lezione per l’appunto L’impotenza della verità. Naturalmente però, non possiamo fermarci a questo sfondo filosofico che corrobora la posizione di Lacan. Le ragioni della sua svalutazione della verità sono innanzitutto cliniche, e sono che la verità non costituisce, come aveva precedentemente pensato, un punto d’arresto. Ricordi di copertura Nell’ultima lezione del seminario Lacan riprende l’etimologia della verità che Heidegger commenta partendo dalla parola greca alètheia, una parola composta dal termine “nascondimento”, preceduto dall’alpha privativo. Heidegger traduce dunque Unverborgenheit, che potremmo rendere con disvelatezza, cioè l’idea di far apparire, di scoprire ciò che è nascosto da un velo. Il fatto è che il velo è come la tenda di Parassio. Quando Zeusi gli chiede di scostare la tenda per vedere il quadro che ha dipinto, si rivela che il quadro è la tenda stessa. Conosciamo questo fenomeno nella clinica psicoanalitica: sono i ricordi di copertura, che in realtà non coprono niente, sono uno schermo sul nulla. Ma è proprio il nulla? Quando Lacan riprende il tema del Verborgenheit, del nascondimento della verità, dice: “Le cose sono tali per cui essa [la verità] fa supporre d’avoir quelque chose dans le ventre” (p.236). Questa espressione in francese si usa per dire: vediamo se ha delle qualità, delle capacità, vediamo se c’è in lui qualcosa di buono, voyons s’il a quelque chose dans le ventre. In realtà, secondo Lacan, questa supposizione non tiene, le cose non vanno esattamente in questo senso. Dice infatti: “Ben presto dei tipi svegli si sono accorti che se questo qualcosa fosse venuto fuori sarebbe stato abominevole. Probabilmente essa [la verità] è qualcosa in più, per abbellire il paesaggio. Può darsi ora che la faccenda sia tutta qui e che se venisse fuori sarebbe spaventoso. Se passate tutto il tempo ad aspettare, allora state freschi. Insomma non bisogna punzecchiare troppo la lathouse. Imbarcarsi in quell’impresa vuol dire sempre garantire cosa? Garantire l’impossibile per il fatto che questo rapporto è in effetti reale. Più la vostra ricerca starà dalla parte della verità, più sosterrete il potere degli impossibile, che sono quelli che vi ho elencato rispettivamente la volta scorsa: governare, educare, all’occasione, analizzare”. Qui Lacan giunge veramente al punto. Se passiamo il tempo a contemplare la bellezza dei paesaggi messi lì per nascondere l’orrore, se stiamo dietro all’amore freudiano della verità, allora stiamo lì ad aspettare Godot. La verità ci mantiene in un rimando continuo, ci intrattiene in un bel panorama, anzi, in una sequenza ininterrotta di bei panorami, uno dopo l’altro, senza mai arrivare al dunque. Infatti, aggiunge Lacan: più vi intrattenete con la verità, più rafforzate il potere dell’impossibile, e qui l’impossibile entra in gioco in relazione all’aforisma per cui il reale è l’impossibile. L’impossibile Direi che qui l’impossibile entra in gioco in un senso diverso di quando Lacan spiega l’esperienza di analisi dicendo che consiste nel passare dall’impotenza all’impossibile. O meglio, possiamo dire che rafforzare l’impossibile girando a vuoto nell’impotenza significa rafforzare lo sbarramento che impedisce di fare della psicoanalisi un’esperienza del reale. Lacan introduce l’idea che il reale è l’impossibile nel seminario XI [pag.136] parlando dei due principi freudiani dell’accadere psichico, il principio di piacere e il principio di realtà. Qui disquisisce sulla soddisfazione e sulle complicazioni che questa incontra nell’essere parlante. Il quale tuttavia si soddisfa sempre, come ribadisce alcuni anni più tardi in Televisione quando dice che il soggetto è sempre felice, ovvero che la pulsione trova comunque modo di ottenere soddisfacimento. Solo che nel seminario XI Lacan fa apparire come le vie della soddisfazione possono essere contorte. Gli esseri umani si soddisfano sempre ma non sono mai soddisfatti di quello che sono. Le vie della soddisfazione passano per esempio attraverso il dispiacere, e per ottenere questa soddisfazione, fanno spesso troppa fatica. Questo significa – dice – il fatto che noi psicoanalisti ci mettiamo in mezzo a questa faccenda perché si possono trovare delle vie più brevi, meno dispendiose, meno contrastate. Nell’esperienza d’analisi ci troviamo quindi ad avere a che fare con una soddisfazione paradossale, dove entra in gioco la categoria dell’impossibile. Il cammino del soggetto – dice Lacan – passa tra due muraglie dell’impossibile. Credo che qui, questo termine “paradosso” riferito alla soddisfazione vada preso nel senso letterale – che tante volte vediamo ricorrere in Lacan – di paradosso logico ovvero propriamente di antinomia. Le due muraglie dell’impossibile che segnano la via del soggetto sono i due corni dell’antinomia di un paradosso. Vediamo per esempio come Epimenide mentitore si dibatta tra due sponde opposte: al tempo stesso mente e non mente. Lo stesso vale per il desiderio, che proprio perché è articolato nel significante, una volta portato alla resa dei conti, si rivela contrastare con se stesso, e il suo enunciato potrebbe essere formulato nei termini: “Desidero proprio ciò che non voglio”. L’impossibile del desiderio è l’impossibile logico, per cui l’isterica riesce a sentirsi desiderata solo mantenendo l’insoddisfazione dell’Altro, segnando in lui una mancanza, e quindi a sua volta non giungendo mai a soddisfarsi, se non soddisfacendosi dell’insoddisfazione dell’Altro, che la lascia comunque insoddisfatta. L’esempio paradigmatico è l’allumeuse, la donna che accende il desiderio maschile per poi sottrarsi. L’ossessivo per altro verso, quando si avvicina alla realizzazione del desiderio, entra nel circolo vizioso di un giro infinito di rimandi in cui “voglio” e “non voglio" lo rilanciano incessantemente da una sponda all’altra. È la soddisfazione che si manifesta negli slittamenti progressivi di piacere, come nel titolo di Alain Robbe-Grillet, dove il godimento è nello scivolare indefinitamente senza che si realizzi mai l’atto di cogliere l’oggetto. Quando inizialmente Lacan introduce l’aforisma “il reale è l’impossibile”, parte dall’idea di Freud secondo cui il reale appare innanzi tutto come ostacolo al principio di piacere. Il reale si presenta quindi come l’urto, come il fatto che le cose non si sistemano nel modo giusto quando il desiderio cerca di raggiungere il proprio oggetto. È un’idea che Lacan mantiene anche nei seminari successivi, dove dice a volte che il reale è ciò in cui si batte la testa, come nei muri di una casa al buio. Quando riprende l’argomento qui, nel seminario XVI, l’impossibile è riferito alle tre professioni impossibili freudiane, governare, educare, psicoanalizzare, che corrispondono alle strutture dei discorsi lacaniani, e aggiunge, come quarto impossibile, far desiderare, per includere il discorso dell’isterico. Cosa caratterizza queste professioni impossibili? Il fatto che non si esercitano basandosi sul calcolo, su degli automatismi, su delle regole standardizzate. Un ingegnere ha la matematica, un medico ha il prontuario, un avvocato ha il codice. Il reale con cui trattano è ben ancorato al simbolico. Anche rendere giustizia, cosa di cui si occupano i giudici, per quanto si presti a interpretazioni, è un’occupazione ben agganciata a un sistema di norme. La cosa è diversa, evidentemente, per la giustizia cui attende il politico. L’impossibile di cui parla qui Lacan è dunque riferito a un reale che sfugge alle reti del simbolico. Nell’insegnamento bisogna agganciare l’attenzione dei bambini, e non c’è un sistema garantito per farlo. Nella politica bisogna convincere gli elettori, negoziare con gli avversari, trovare punti di equilibrio a volte delicatissimi. Bismark diceva che la politica è l’arte del possibile, di quel che è relativo, dell’ottenere quel che si può ottenere. È un altro modo di dire che proprio perché il reale della politica è impossibile, il possibile che si può ottenere è relativo, sfuggente, instabile. Nella psicoanalisi dobbiamo far la posta all’occasione che si presenta. Possiamo cercare di sollecitarla, di provocarla, ma sappiamo che non si può mai spingere troppo per non cristallizzare le resistenze. E poi fare la posta all’occasione, al Kairos, è più relativo all’interpretazione, ma l’interpretazione è solo una parte del lavoro psicoanalitico. Il resto, quel che Freud chiamava rielaborazione è, in fondo, esercizio. I comportamenti fonte di disagio per il nevrotico, creano dei solchi, in cui anche quando l’interpretazione svela quel che è sottostante, il soggetto tende a rientrarvi. La sorpresa Lacan aveva molto valorizzato un’idea di Theodor Reik espressa nel titolo del suo libro: Lo psicologo sorpreso. La sorpresa è quel che sorge inaspettato, proprio perché non appartiene alla dimensione del calcolo. Nel 1987 è uscito un numero di Ornicar? intitolato Il calcolo dell’interpretazione. Nell’introduzione era ben precisato come l’interpretazione sia sempre d’occasione, come appartenga più alla tattica che alla strategia, dove invece è piuttosto in gioco la traslazione. Un’interpretazione non è un teorema, non può essere dedotta né può essere calcolato il momento in cui dirla, e i suoi effetti non sono prevedibili. L’idea però affermata era che l’interpretazione non viene comunque dall’ispirazione, nasce piuttosto da un calcolo di struttura e da una congiuntura che può e deve essere chiarita. Il riferimento rimanda a quel che Freud chiamava costruzioni. L’accento quindi, nella testimonianza cliniche riportate nel volume, era messo l’accento sul calcolo e non sull’arte, e questo permette di sottolineare ancora di più l’alea dell’incontro, e la sorpresa per l’analista stesso che formula l’interpretazione. Ora credo che, per quanto possiamo retroattivamente ricostruire la rete di contingenze che hanno portato a un certi tipo di interpretazione, questo non ci dia mai l’aspetto cruciale della conduzione di una cura. L’interessante è vedere che l’interpretazione può dare un lampo, può aprire una via, ma se questa via non viene battuta e ribattuta, il paziente tende a rientrare nel vecchio solco. In questa prospettiva siamo infatti sempre sul piano di inseguire la verità, e quindi di rivolgerci al senso, e abbiamo ormai ben capito che finché giriamo a vuoto nelle volute del senso l’aspetto sostanziale dell’esperienza psicoanalitica ci sfugge di tra le dita. Far luce Si tratta allora di tenere conto di quel che Miller ha fatto emergere a proposito dell’ultimo insegnamento di Lacan, cioè dell’antinomia tra senso e reale. Finché cerchiamo, amiamo, rincorriamo la verità, continuiamo a sollecitare il senso, e cristallizziamo la difesa del reale. Si tratta invece, come suggerisce Lacan nella lezione dell’11 gennaio 1977 del seminario XXIV, e come Miller riprende, per esempio nella presentazione del tema del IX congresso AMP, di disturbare le difese per toccare il reale. Nella contrapposizione dei titoli degli ultimi due capitoli del seminario XVII, L’impotenza della verità, e Il potere degli impossibili, vedo proprio una linea in direzione di questo orientamento. Lacan dice che quanto più solletichiamo la verità, tanto più rafforziamo il potere degli impossibili, ovvero, detto altrimenti, cristallizziamo le difese. L’interpretazione in senso classico, in senso freudiano, è un’interpretazione di senso, e il senso sorge da una traduzione, da una sostituzione. Ne L’interpretazione dei sogni per esempio il senso sorge dalla sostituzione del testo latente al testo manifesto. Lacan però modifica il concetto di interpretazione, possiamo anche dire che lo distorce, lo allontana dal senso, per esempio quando sostiene che: “Se si comprende come funziona l’interpretazione allora non è un’interpretazione analitica.” È una battuta, certo , ma guarda verso un orizzonte che è quanto di più lontano ci possa essere dal calcolo dell’interpretazione. Guarda piuttosto verso quel che Lacan definisce come un dire apofantico. In contrapposizione al dire modale della domanda, il dire dell’analista è infatti definito come apofantico, e proprio come apofantico il dire assurge alla potenza della parola attribuita a poeti dell’antica Grecia, che con il canto, con la lode, la manifestazione “conferiscono l’essere e la realtà”. [Detienne, I maestri di verità]. Si tratta di una parola assertoria, sulla quale non c’è dibattito né dimostrazione, perché non è destinata a decidere un senso, ma a far apparire a mettere in luce: apo-phaino contiene la stessa radice di phos, luce. In altre parole, il dire apofantico non è una ricerca di senso perché fa apparire, manifesta, ma che cosa? La pulsione. Il dire apofantico incide sul reale pulsionale, non cerca un senso ma un segno di godimento, ha di mira la lettera incisa nella carne. Con questo abbiamo l’orientamento deciso dell’ultimo insegnamento di Lacan, dove non è più questione di soggetto e di mancanza d’essere, ma di parlessere, dove non è messo in gioco l’aspetto ornamentale attribuito alla verità, ma il corpo, giacché c’è godimento solo dove c’è il corpo. E l’orientamento clinico che ne possiamo trarre è di seguire non il senso, ma le tracce di quelle lettere insensate attraverso cui la scrittura pulsionale s’incide sul corpo.
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