Conferenza tenuta a Malaga il 17 maggio 2025 presso la Escuela lacaniana de psicoanalisis Marco Focchi Il seminario La logica del fantasma segue una linea di riflessione in cui Lacan cerca di costruire una serie di dispositivi logico-matematici per porre in evidenza e per dare consistenza alle strutture che entrano in gioco nell’esperienza psicoanalitica. Nella sesta lezione, in particolare, Lacan comincia a mettere in forma logica quel che ha presentato nella prima lezione del seminario dell’anno precedente, L’oggetto della psicoanalisi, redatta come testo che è stato poi incluso negli Scritti con il titolo La scienza e la verità. Si tratta di una questione le cui prime tracce hanno cominciato a delinearsi nel Seminario XI: è lì infatti che troviamo la formulazione iniziale dell’idea che il soggetto dell’inconscio è il soggetto della scienza. Tutta la problematica che Lacan mette in gioco nel Seminario XI, domandandosi se la psicoanalisi sia o no una scienza, sfocia infatti nell’asserzione che fa convergere in un punto la scienza e la psicoanalisi. Se la psicoanalisi infatti non è una scienza, nel senso delle scienze naturali, il soggetto dell’inconscio è tuttavia vuoto quanto quello della scienza. Cartesio produce un soggetto di certezza soppiatto di ogni aspetto fenomenico, come Galilei, ne Il saggiatore, elimina ogni aspetto qualitativo perché “rimosso l’animale” in cui risiede la sensibilità, ogni sostanza corporea sia trattabile solo in termini di misurazione. Il punto d’arrivo della riflessione di Lacan è dunque che la psicoanalisi non ha, in quanto tale, uno statuto di scienza nel senso delle scienze galileiane, ma ha la scienza come propria premessa, come presupposto, a partire dalla definizione del soggetto della scienza, che è il soggetto cartesiano, come soggetto dell’inconscio. Occorre però fare alcuni passaggi per sostenere questa posizione: il soggetto cartesiano porta infatti con sé una forte implicazione ontologica, chiama in causa il pensiero come una res, una cosa, il soggetto è concepito come una sostanza pensante. Lacan però ha appena cominciato, nel seminario XI, a minare l’ontologia, a sostenere che l’inconscio non ha uno statuto ontologico. Dobbiamo quindi anche considerare che il soggetto dell’inconscio richieda di essere sgravato dalle sue implicazioni ontologiche. Cartesio si spinge già molto avanti rispetto all’alleggerimento dell’ontologia. Il cogito è erede infatti di una straordinaria tradizione metafisica di cui restringe il campo l’elemento puntuale del soggetto. La grande interrogazione sull’essere si contrae ponendo l’essere semplicemente come essere dell’Io. Fuga dall’ontologia Dove comincia questa tradizione? Parte ovviamente con Platone e Aristotele, ma ancora prima parte con Parmenide. Se il problema della Scuola di Mileto era l’archè, il principio, la causa, il fondamento, questo archè veniva individuato in elementi naturali, acqua, aria, apeiron, o fuoco per Eraclito, con Parmenide c’è una svolta, perché viene messo in questione l’essere in quanto tale, l’essere che è, e non può non essere, mentre il non essere non è e non può essere. Questa è anche la prima formulazione del principio di contraddizione, perché vuol dire: solo ciò che è può essere pensato. Essere e logica si congiungono qui come ontologia. Se qualcosa non è, semplicemente non può essere pensato, perché il pensiero è sempre e solo pensiero di qualcosa che è: l’essere è necessariamente pensato e il pensiero è sempre pensiero dell’essere. Da qui il famoso detto: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι (to gar auto noein estín te kai éinai), essere e pensare sono lo stesso. Aristotele si confronta con Parmenide cercando di conciliare l’essere, che per Parmenide è immobile, con il mutamento, attraverso la dottrina della potenza e dell’atto, e anche Hegel, che sappiamo ha lasciato una significativa impronta in Lacan, ha integrato l’essere con il divenire attraverso la dialettica. Questo è il poderoso edificio metafisico con cui Lacan deve confrontarsi, e lo prende a partire da uno dei suoi pilastri più robusti, cioè Aristotele. Lacan riconosce in Aristotele la risonanza del problema parmenideo sul rapporto tra essere e pensiero, ed entra nel merito di una sua esegesi : prende il termine semnón, (σεμνόν) che significa venerabile, solenne, maestoso, degno di rispetto. In Aristotele questo termine viene usato per indicare la dignità del pensiero, la dignità necessaria perché il pensiero possa pensare l’essere. E, precisa Lacan, non di pensare l’ente, o ciò che è, ma “ciò attraverso cui l’essere si manifesta” (p.99). La domanda con cui viene richiesta l’essenza in Aristotele cambia direzione rispetto a quella di Socrate τί ἐστιν “ti estin?”, “Che cos’è?”. È quindi diverso se domandiamo, come fa Socrate, “Che cos’è l’amore?”, “Che cos’è il coraggio?”, “Che cos’è la giustizia?” e se invece ci domandiamo, come fa Aristotele, “Che cos’è l’essere?”. Il riferimento qui è infatti τὸ τί ἦν εἶναι, to ti en einai ovvero l’essere in quanto essere, come viene tradotta tradizionalmente la frase di Aristotele. Lacan traduzione considera però inadeguata questa traduzione. L’espressione di Aristotele contiene infatti un imperfetto “en” che vuol dire “era” quindi la traduzione letterale sarebbe: ciò che era l’essere. Uno iato irriducibile Su questo imperfetto Lacan insiste perché lo fa risuonare con la famosa traduzione che dà dell’espressione freudiana Wo Es war, soll Ich werden, resa mettendo l’accento sul fatto che il soggetto deve avvenire lì dove c’era l’Es: là où c'était, il me faut advenir. Il valore dato da Lacan a questo imperfetto sta nel fatto di indicare la fugacità: era lì lì per esserci, ed è sparito, non appena mi giro per guardarlo, già non c’è più. Il senso è però anche: stava quasi per essere, ancora poco e c’era. Quando menziona questa espressione in L'istanza della lettera nell'inconscio (1957), a pagina 524 degli Écrits, Lacan, commenta che il Wo Es war, soll Ich werden viene all’apogeo del pensiero freudiano, per indicare la Versöhnung, la riconciliazione, la reiterazione, l’accordo. Ma in realtà si tratta di vedere che questo accordo non è niente di più che un compromesso, perché niente può in realtà ricucire lo iato, il divario, l’apertura, la béance. Nel commento della stessa espressione fatto due anni prima ne La cosa freudiana (1955), il nesso con il tema dell’essere è ancora più esplicito, è anzi dichiarato. La formula che Lacan dà è infatti: io (je) debbo devenir, cioè non sopravvenire o avvenire, ma venire alla luce di questo luogo stesso in quanto luogo d’essere. Quello che nel ’55 è un luogo d’essere, due anni dopo si presenta come béance, come una crepa, una falla, un vuoto impossibile da colmare. Cercando di risalire la corrente della tradizione metafisica nell’ontologia, Lacan prende una frase dall’Ippolito di Euripide per notare come l’imperfetto ἦν (en) presente nella frase di Aristotele to ti en einai è lo stesso che si trova nella frase di Euripide, che è Κύπρις οὐκ ἄρ’ ἦν θεός, Kypris ouk ar en theos. Queste parole sono messe in bocca alla nutrice di Fedra, che, di fronte alla distruzione portata da Afrodite nella sua vendetta contro Ippolito, si domanda se Afrodite sia una dea o qualcosa di più grande e più potente ancora. Perché dunque Lacan va a prendere questo riferimento che a prima vista può sembrare di pura erudizione? Bisogna considerare il contesto della tragedia: Ippolito si occupa solo di caccia, venera Artemide e trascura tutto quel che riguarda la relazione e la sessualità, vantandosi anzi della propria verginità. Questo offende Afrodite che per punirlo suscita in Fedra, sua matrigna, una morbosa passione per Ippolito. Le conseguenze saranno devastanti, con il suicidio di Fedra, la morte di Ippolito e lo scorno di Teseo. È qui allora che la nutrice, di fronte all’immane rovina si domanda se Afrodite sia una dea o qualcosa di più tremendo. È questo che Lacan coglie: di fronte al comportamento di Afrodite, non sappiamo più bene cosa possa essere quel che chiamiamo dio, o dea, perché l’essere così denominato si sottrae al nostro giudizio e tutto è rimesso in discussione. Il punto, allora, è questa analogia tra il sacro e l’essere, dove l’essere toccato dal pensiero e si ritrae. Lacan nota qui come tutta la tradizione filosofica consista in un progressivo allontanamento dalle fonti dell’essere – evidentemente sta pensando ad Heidegger, che scrive Sein barrandolo con un segno di cancellazione. Un passaggio fondamentale in questo progressivo ritrarsi dell’essere è per l’appunto in Cartesio che, possiamo dire, contrae l’essere nell’io. Come dice Lacan, Cartesio ha sostituito l’essere dell’io al rapporto tra il pensiero e l’essere. Lacan considera perciò che Cartesio rappresenta il rifiuto della questione dell’essere attraverso cui si apre la via della scienza. Cosa significa? L’essere dell’io è la res cogitans, la sostanza spirituale, l’anima. Una volta allora che Cartesio ha messo al sicuro l’anima nella res cogitans – e con questo ha messo al sicuro se stesso dalle intromissioni della Chiesa – il resto, desacralizzato, può essere esplorato senza inibizioni. Il soggetto dell’enunciazione La sovrapposizione, la congruenza di essere e sacro, che Lacan sente ancora vibrare in Aristotele, è qualcosa da cui Cartesio ci libera affrancando la cosa estesa dal gravame onto-teologico. Così il corpo risulta per lui essere semplicemente una macchina fatta di tiranti e molle, e il mondo nasce semplicemente dalle interazioni meccaniche di materia e movimento. Secondo Lacan, però, l’anima messa al riparo da Cartesio con la res cogitans, viene snidata da Freud. “Nulla di quanto Freud apporta – scrive Lacan – che si tratti dell’inconscio o dell’Es, fa ritorno all’interrogazione dell’Essere, ci riporta su questo piano a livello dei pensieri. L’apporto di Freud consegue il suo senso soltanto se è inscritto nelle conseguenze di quelle fratture per cui la semplice affermazione dell’essere dell’io viene sostituita, nella forma di un rifiuto, all’interrogativo che il pensiero pone all’Essere.” (p.101) In altre parole, se Cartesio aveva evacuato l’Essere dalla res extensa, Freud porta a compimento la deontologizzazione del pensiero. È questa la conclusione a cui Lacan giunge seguendo questa logica, perché scrive: “Io sono solo a condizione che la questione dell’essere venga elusa; io faccio a meno di essere; io non sono se non dove, necessariamente, io sono per poterlo dire – o meglio dove io sono potendo farvelo dire – o più esattamente per farlo dire all’Altro.” (pag.101) Vediamo dunque che il peso dell’essere svanisce quando passiamo dal pensiero al dire. Con il dire il problema del soggetto si deontologizza perché diventa il problema non del soggetto presente, ma del soggetto dell’enunciazione. Questo svuotamento del soggetto, questa sua desostanzializzazione, è ben precisata all’inizio della lezione quando Lacan situa il soggetto dell’enunciazione usando la teoria degli insiemi, e lo indica come l’insieme vuoto. La negazione del cogito cartesiano Lacan apre la lezione proprio con le due importanti regole della logica e della teoria degli insiemi: le formule di De Morgan. Sono formule che descrivono la relazione tra le operazioni di negazione, di unione e di intersezione. La prima regola dice che la negazione dell’unione di due insiemi è uguale all’intersezione delle negazioni degli stessi insiemi e si scrive: ¬ (A ∪ B) = ¬ A ∩ ¬ B La seconda regola afferma che la negazione dell’intersezione di due sistemi è uguale all’unione delle negazioni degli stessi insieme e si scrive: ¬ (A ∩ B) = ¬ A ∪ ¬ B
Se ora in queste operazioni invece di nobili e di pirati mettiamo il pensiero e l’essere, P, E, capiamo subito dove Lacan vuole andare a parare utilizzando le operazioni di De Morgan.
La negazione dell’intersezione produce così l’insieme unione tra non penso e non sono. Questo è il modo in cui Lacan riformula il cogito cartesiano per far apparire il soggetto dell’inconscio. Il cogito cartesiano, dice Lacan, ha assegnato un limite al pensiero dell’essere, un limite che non può più essere revocato. Questo implica una vera e propria espulsione, un’esclusione tanto radicale che Lacan la definisce come una Verwerfung, un vero e proprio rigetto dell’essere, e se seguiamo l’idea che quel che è rigettato dal simbolico riappare nel reale, l’essere si ritrova come scoria, come detriti, come rifiuti. In questo senso si apre una prospettiva ecologica del tutto attuale, ed è sorprendente che Lacan possa averla presentata negli anni ’60. La grande catastrofe climatica planetaria risulta infatti debitrice del rigetto dell’essere. Ma è interessante come Lacan faccia risalire questa problematica molto al di là di Cartesio e dell’epoca scientifica. “Per quanto poco sappiamo di preistoria o di archeologia – dice – dobbiamo presumere che il rigetto dell’essere non abbia fatto la sua prima comparsa con Cartesio, e nemmeno con l’origine della scienza, ma abbia forse segnato ognuno dei passaggi essenziali che hanno permesso di realizzare, in forma ben distinta ma peritura, e sempre precaria, le tappe dell’umanità”. (pag.103) In altri termini, già nel momento in cui l’uomo comincia a dar forma alla pietra per creare un utensile, si cominciano a produrre detriti. E naturalmente l’uomo non potrebbe fare un’operazione complessa come ricavare una freccia da un sasso senza disporre del linguaggio. In un certo senso quindi il rigetto dell’essere comincia dal momento stesso in cui c’è l’essere parlante. La scelta costituente Utilizzando comunque la negazione dell’intersezione da cui risulta l’unione della negazione dei complementari, Lacan produce la famosa formula: penso dove non sono, sono dove non penso.
L’io risulta articolato con “non sono”, e poiché, dice Lacan “è stato scelto l’io come instaurazione dell’essere, non abbiamo altra possibilità, dobbiamo andare in direzione dell’io non penso”. Ciò significa che nell’alternativa offerta dall’unione dei complementari, se l’io è l’elemento puntuale in cui dopo Cartesio si è ritirato l’essere instaurato dalla metafisica, l’io deve essere necessariamente un io, ma non pensa. “Sono dove non penso” è in ultima istanza l’enunciato che ne risulta. Nella freccia che va verso il basso Lacan indica l’operazione di verità. Sappiamo che per Lacan la verità è la verità della mancanza. Se la logica infatti, seguendo l’ispirazione corrispondentista pronuncia il vero quando riconosce la cosa detta in un enunciato, la psicoanalisi rende possibile andare a quel varco, a quel punto di mancanza in cui la verità sorge come connessione con l’evento. Ma l’evento non è una cosa. In questo luogo della mancanza d’essere, in questo luogo del “non sono", troviamo i pensieri inconsci, le formulazioni dell’inconscio. Per altro verso è fondamentale l’io non penso, che va in direzione dell’alienazione, e su questa linea troviamo “la perdita che consegue alla scelta” (pag. 105) Questo punto, dobbiamo notare, mette in luce un aspetto cruciale. È vero che la scelta è forzata, ma è una scelta, non è quindi qualcosa che si riconduca a qualsivoglia determinismo. È un problema chiaro nella clinica psicoanalitica, perché nella nostra esperienza ogni volta che arriviamo al punto di fondo di un caso, ci troviamo di fronte a una scelta del soggetto. Ma è una scelta in cui il soggetto si costituisce. Non è una scelta che un soggetto già costituito formula trovandosi davanti ai due corni di un dilemma, come se arrivando a un bivio dicesse: “Beh, non penso o non sono?”. Per camminare fino al bivio infatti dovrebbe già esistere come soggetto. Invece nasce come soggetto proprio entrando nel dilemma di questa scelta, e non è che possa a suo arbitrio seguire l’una o l’altra strada, perché la strada è obbligata. Ma con il fatto che è obbligata deve tuttavia sceglierla, dire sì. Direi che qui ci troviamo in un punto davvero spinoziano dell’elaborazione di Lacan, in un punto cioè in cui necessità e libertà coincidono. Seguire il ragionamento di Spinoza ci può aiutare a capire questo punto complesso di Lacan. Per Spinoza, infatti, la sostanza è l’unica realtà assolutamente infinita, e tutto ciò che esiste è semplicemente una modificazione di questa sostanza e agisce secondo leggi naturali immutabili. In questo senso ogni cosa segue una serie di cause necessarie. E la libertà allora cos’è? Non è assenza di causa – questo è un punto essenziale – ma è avere in sé la propria causa. La sostanza infatti è causa sui, non è determinata da nessun fattore esterno, agisce secondo la propria natura e non è determinata da forze esterne. Essere liberi in questo senso significa seguire la propria essenza e in questo senso la sostanza è libera perché esiste e agisce secondo la necessità della propria essenza. Anche per l’uomo, libertà e necessità coincidono, perché la libertà consiste nel comprendere le leggi della necessità che governano il mondo. Quando qualcuno quindi conosce e segue le cause necessarie della realtà e agisce di conseguenza, agisce con libertà. Credo possiamo capire come questo modo di ragionare vada incontro al modo di operare della psicoanalisi. Freud mostra il funzionamento di un determinismo inconscio, illustra quell’enciclopedia di sintomi isterici che è Anna O. mossa, o frenata, come un burattino dai fili del suo inconscio. Man mano poi che le interpretazioni portano in luce queste determinazioni, Anna O. se ne libera. Questo non vuol dire che si liberi degli impulsi inconsci, o che la pulsione non sia più per lei la causa in ultima istanza dell’accadere psichico, ma man mano che le determinazioni sono evidenziate, Anna O. non si mette più in contrasto con esse. Come dicevano i latini: fata nolentem trahunt, volentem ducunt. La verità ultima Direi che la scelta forzata di Lacan va in questo senso, aggiungendo la complessità di un soggetto costituito dalla scelta, che è il soggetto dell’inconscio. Se consideriamo tutte le conseguenze nello schema del quadrato di Klein, vediamo che in ogni campo della scelta c’è una perdita. Vediamo poi come lo schema si sviluppa: l’Es è, dice Lacan, il non-io. Lo dice con la sua abituale verve di violenza polemica: “Come la tradizione faceva dell’anima, della psyche, qualcosa che è, costoro [i suoi avversari] professano che l’Es […] è un io cattivo […] ma una simile formulazione è assolutamente improponibile”. (Pag.107) Non può essere un io, né cattivo né buono, perché secondo Lacan, l’Es non è la prima persona e va considerato piuttosto nel senso in cui in francese si dice per esempio ça brille, ça pleut, ça bouge. È interessante notare che il ça parle, che negli anni ’50 Lacan aveva promosso, in questi esempi è assente. Nello schema infatti l’Es è messo come resto del non-penso, e se non pensa, come può parlare? Infatti poco più avanti, a pag. 109, dice che ça parle è un errore. Il modo in cui spiega qui la dimensione pulsionale dell’Es, cade sotto la definizione di non-io. In altri termini l’Es è “tutto ciò che nel discorso in quanto struttura logica, non è io, vale a dire tutto il resto della struttura” (p.107). Se andiamo infatti allo schema vediamo nell’insieme ¬P l’Es come non-io complementare di quel che viene perduto nella scelta, l’insieme ¬E coordinato con la zona d’inesistenza dell’io nell’inconscio. Freud chiamava Sachvorstellungen, rappresentazioni di cosa, questi pensieri-cosa, questi pensieri senza qualcuno che li pensi. Accanto alle operazioni di alienazione e di verità, c’è una terza linea, quella della traslazione, che va all’angolo in basso a sinistra, dove è indicata la fine di una analisi, il risultato di tutte le sue operazioni. Così, portando in basso l’Es complementare al non penso, l’Es si sovrappone al non sono, dando come risultato quel che Lacan esprime con la frase: “je ne suis que ça”, non sono che questo, dove “questo” è l’essere del soggetto nella sua mera esistenza, il Dasein. La risposta che il soggetto riceve dall’analisi alla domanda “Chi sono?” è: sono semplicemente l’oggetto di quel che è stato il desiderio di chi mi ha voluto al mondo. Sono questo e nient’altro. Il “questo” è evidentemente l’oggetto a. L’Es sottoposto all’operazione verità della psicoanalisi si rivela essere l’oggetto a. Il non-io, in ultima istanza, è l’oggetto che sono senza poterlo pensare. L’oggetto a è un resto perché è quel che viene separato, è quel che l’operazione di alienazione non può integrare. L’operazione di alienazione inscrive il soggetto nell’Altro, lo designa. Dà le coordinate entro le quali il soggetto può muoversi. Esemplifichiamo la questione a livello di base: quando il neonato arriva a casa deve integrarsi alla famiglia. Non basta sia nato, la sua appartenenza deve essere contrassegnata, in un certo senso deve essere adottato, e per questo ci sono delle condizioni. Per esempio: qui noi di notte dobbiamo dormire. Per le prime settimane chiuderemo un occhio, ma non lo chiuderemo per sempre, quindi cerca di adattarti ai ritmi di vita che vigono in questa casa. L’alienazione in questo senso è il modo in cui il neonato deve far sue le regole di casa. L’altro risultato ottenuto nell’angolo in basso a sinistra è dato dall’inconscio che si sovrappone al non penso, rivelando l’impensabile dell’inconscio, ovvero il rapporto sessuale. Quel che Freud indicava come castrazione va in questa direzione. In Analisi terminabile e interminabile, la castrazione è indicata come il punto d’arresto, inaccettabile sia per l’uomo sia per la donna. Si tratta in realtà, più che di un rifiuto, dell’impossibilità di integrare sul piano significante la realtà della differenza sessuale, perché c’è un solo significante, quello fallico, in relazione al quale entrambi i sessi devono situarsi, e manca sul piano simbolico la possibilità di formalizzare il rapporto uomo-donna. Diversamente da quel che si racconta nel mito di Tiresia, che avendo sperimentato entrambe le condizioni, quella maschile e quella femminile potendo stabilire una proporzione, non c’è in realtà comune misura, possibilità di confronto. L’uomo e la donna sono separati, e proprio perché sono separati, hanno bisogno di unirsi, di cercare l’uno nell’altra il complemento impossibile. L’inconscio, che sullo schema viene posto ¬P rivela un buco che nessun significante può colmare, perché appunto nessun significante può esprimere e ricoprire il campo sessuale. Questa mancanza è allora la castrazione che sigliamo – φ. L’alienazione estrema della verità del pensiero (non sono) porta quindi alla castrazione come l’impensabile della realtà sessuale nell’inconscio. Con questo risultato vediamo in fondo prepararsi – proprio nel momento in cui Lacan tenta una impegnativa formalizzazione logico-matematica – il terreno in cui farà emergere il reale senza legge, con le conseguenze che questo ha nella clinica. Lacan non le ha propriamente teorizzate, ma colpiscono le sue risposte degli ultimi anni. Quando gli domandano se ha curato degli psicotici risponde che sì, ma non sa come ha fatto, ha detto loro alcune cose a cui i suoi pazienti sono stati sensibili. Al cuore della più potente formalizzazione prodotta nella storia del pensiero psicoanalitico ritroviamo quel che Freud chiamava il necessario savoir-faire dello psicoanalista, quel grano intrasmissibile che le nostre esperienze di passe mettono in luce, quel punto di singolarità che fa si che l’analisi con un analista o con un altro non siano mai equivalenti, e che gli stessi elementi – storie, ricordi, significanti – messi in gioco in una relazione analitica diversa, siano a loro volta diversi. Bisogna però sapere che non c’è nessun reale senza legge senza una rigorosa traversata della logica, senza le innumerevoli permutazioni degli elementi del fantasma.
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