![]() Intervento al Convegno tenutosi a RImini il 24-25 maggio 2025 con il titolo Clinica delle rotture amorose Marco Focchi La testimonianza di passe che ci propone oggi Carolina Korenszky è il seguito di una prima presentazione fatta a Parigi nel novembre 2023. Può essere utile vi dia alcune coordinate del testo esposto a Parigi, perché inquadrano i temi di quello di oggi. L’esperienza psicoanalitica di Carolina comincia in Argentina, ed è segnata da due momenti in cui ci sono state due frasi che hanno per lei lasciato il segno. La prima frase è solo una parola: “partire”. Il padre ha avuto un dissesto finanziario, non ci sono più i soldi per pagare le spese della casa e viene emesso un decreto di sfratto. La madre incontra un giudice indulgente e lo convince a imboscare il documento negli archivi del tribunale. Il documento può però salar fuori da un momento all’altro, dunque si vive con le valige pronte, con l’incubo di essere costretti a partire da un momento all’altro lasciando la casa in cui Carolina aveva abitato da bambina. La tensione costante, l’angoscia nell’attesa di un momento che può travolgere improvvisamente la vita, ricade sul corpo in forma di un’agitazione permanente. A scuola fanno una diagnosi di iperattività, e un pediatra suggerisce come terapia la danza, che da quel momento viene a far parte integrante della vita di Carolina. L’altra frase che ha lasciato il segno le è riferita dalla madre, e risale al periodo in cui era gravida di lei. Sembrava che il parto dovesse giungere a termine prematuramente, dopo sei mesi, ma in quel caso, disse il medico, difficilmente il bambino sarebbe sopravvissuto. Allora la madre le parlò tutta la notte e lei, la nascitura, riferisce la madre, volle vivere. Questo mette il fatto di vivere sotto l’ombra del dovere, cancellandone il desiderio. Ogni giornata viene messa al vaglio: ho vissuto adeguatamente, con la dovuta intensità? Il fatto di parlare per far vivere si traduce, quando Carolina inizia la sua pratica, in un accanimento a far parlare, perché occorre far parlare per allontanare il profilo della morte. Nel commento che Jacques-Alain Miller ha fatto di questa testimonianza l’accanimento viene superato dopo una terza tranche di analisi fatta a Parigi, quando l’analista smonta il tema del partire con l’interpretazione paradossale: deve trovare il modo di partire senza partire! L’accanimento allora cede, ma rimane un resto, un fervore che ne è la traduzione positiva, quel resto fecondo che si ha quando il sintomo si separa dalla sofferenza lasciando un involucro da riempire di nuovi contenuti. Il testo che Carolina ha presentato oggi riprende questi temi articolandoli con il titolo proposto per il Convegno, Le rotture amorose. Li articola riprendendoli e bilanciandoli su due rotture, due interruzioni di legame d’amore. La prima è quella che scuote il soggetto facendolo uscire dalla sicurezza della chiusura in sé, destabilizzando il suo legame con il sintomo. In fondo cos’altro è la nevrosi se non la rottura del legame d’amore con il sintomo? Quando questo succede non abbiamo più un partner-sintomo – e il partner sintomo non è necessariamente una persona, può essere tante cose, un’attività, una passione, un oggetto – abbiamo un sintomo-partner. Se il partner-sintomo ci stabilizza, ci rassicura, tampona un po’ la falla del trauma, ci accompagna, il sintomo-partner è invece qualcosa che disturba, con cui è difficile convivere. Non è come Beatrice per Dante, piuttosto come Santippe per Socrate. È un sintomo molesto, che fa soffrire, che crea disagio. Come ha ben chiarito Freud, il sintomo è la barriera più solida contro l’angoscia e, nel momento in cui si destabilizza, fa cadere le dighe che ci tengono lontani dalla violenta mareggiata delle nostre inquietudini. Carolina ci mostra infatti come l’angoscia sorga quando qualcosa, nella sua configurazione soggettiva, comincia a zoppicare, e la fa uscire dall’omeostasi in cui poteva trovarsi in fondo relativamente a proprio agio.
La prima rottura amorosa è quindi quella con il sintomo, è la rottura che la porta in analisi, che la induce a inoltrarsi nel terreno sconosciuto in cui ci si espone al desiderio dell’Altro. Con l’ingresso in analisi il desiderio dell’Altro si concreta tuttavia nel desiderio dell’analista. Rompere con il sintomo non significa allora abbandonarlo, ma trasferirlo nell’analisi per costituire una nevrosi di traslazione. Il sintomo, con cui si è dovuto rompere perché divenuto intrattabile, si fa allora trattabile. E ci vuole tempo, ci vuole tutto il tempo necessario perché cadano le identificazioni. Nel caso di Carolina, per esempio, è significativa quella con la donna del libro. Carolina è una lettrice, e Il libro contiene quel che, una volta letto, non si può più perdere. Questo costituisce un rifugio essenziale quando in ogni momento si rischia di doversene andare lasciando tutto. È un po’ come in Fahrenheit 451 dove l’umanità si trova sotto un regime autoritario che vuole annichilirne la capacità critica distruggendo i libri. Un gruppo di dissidenti impara allora a memoria il contenuto di tutti i libri, e ogni uomo diventa il libro che ha memorizzato. Quel che abbiamo letto è dunque quel che non ci abbandona, è quel che permette la continuazione di un rapporto con il fluire delle parole. L’altra interruzione è però proprio quella della parola. Carolina deve far tacere la parola per lasciare emergere il silenzio della pulsione. Se la parola materna è quella che alimenta la volontà di vivere, lo fa mettendo però il rapporto con la vita sotto il segno del dovere. Vivere allora, come già detto, diventa un dovere e Carolina, iniziando la pratica psicoanalitica, s’investe del dovere di far parlare i pazienti, deve far parlare per evitare la stretta mortale. È l’interruzione di questa parola obbligata, superegoica, a dischiudere il quadro finzionale del fantasma sul reale della pulsione. Mi sembra interessante, dunque, l’angolatura in cui l’interruzione della parola permette l’affioramento del reale. Il collage surrealista del fantasma, la sua struttura di finzione si disfa lasciando apparire la pulsione. In un certo senso ogni analisi portata a conclusione segna l’interruzione di una storia d’amore, produce un taglio nella continuità della traslazione che fa affiorare la solitudine dell’Uno-da-solo. Proprio questa solitudine apre però la possibilità di quel che Lacan, nella Lettera agli italiani, chiama un “amore più degno”. Che cos’è un amore più degno? Direi: un amore che non cerchi di colmare di senso la falla, la frattura, la voragine, il carattere insensato dell’assenza di rapporto sessuale. Ed è questo che Carolina, a conclusione del suo testo, ha chiamato: “il guadagno di un valore inestimabile”. Questo guadagno appare in uno spazio più ampio per accogliere il reale. Mi sembra che in questo senso la testimonianza di Carolina Koretzky sia in posizione particolarmente favorevole per rispondere al quesito che Lacan si pone nel Seminario XI: cosa ne è della pulsione una volta traversato il fantasma?
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Luglio 2025
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