![]() Marco Focchi Let your silence tell me of the numberless dreams that are you (The Mad Fiddler) A Lisbona ero andato a cercare Pessoa. Con la mia compagna di viaggio avevamo deciso di lasciare per l’ultimo giorno la visita alla sua casa, dopo esserci acclimatati all’atmosfera metafisica della capitale sul Tago immersa nella saudade. Abbiamo così percorso i quartieri della Baixa, dove Pessoa svolgeva il suo lavoro d’impiegato, abbiamo girato i caffè che frequentava, abbiamo cenato al Martinho de Arcada, il suo ristorante preferito, situato nella Praça do Comércio, talmente pieno di sue fotografie che colpisce come un uomo senza identità elettiva abbia avuto una così ricca documentazione d’immagini di sé. L’ultimo giorno, quando andammo alla sua casa, la trovammo chiusa per il turno settimanale. Naturalmente avremmo dovuto informarci prima, ma l’uomo dalle molteplici identità ci sfuggiva proprio mentre cercavamo di sorprenderlo nel suo luogo. Poco male in fondo. Era un’illusione l’idea che Pessoa potesse avere un suo luogo, una cristallizzazione d’essere dove essere colto. Pessoa in realtà era dappertutto: a largo Camoes, dove campeggia il suo monumento, nelle librerie traboccanti dei suoi volumi, nel castello di San Giorgio in cima all’Alfama, dove una mostra d’arte riproduceva in mille fogge il suo ritratto di uomo tranquillo, d’impiegato grigio ma dignitoso, vestito con una cura che traspare in tutte le sue fotografie, immagini assolutamente silenziose sull’inquietudine ontologica che prende voce nei libri che non si è mai preoccupato di pubblicare. “Fernando, è un delitto che lei continui a essere sconosciuto” lo rimproverava l’amico Luis de Montalvor, portavoce del modernismo portoghese e fondatore della rivista “Orpheu”, ma lui rispondeva: “Non ha importanza, alla mia morte lascerò qualche baule pieno”. Noi posteri sappiamo come questa non fosse una vana promessa, e con quel baule stiamo ancora facendo i conti. La vita di Pessoa era una vita di carta, la sua esistenza era fatta di parole più che di carne. Quando leggiamo Dante sentiamo il sangue pulsargli nelle vene mentre sale i gironi infernali, sentiamo i ciottoli rotolargli sotto i piedi, avvertiamo la pesantezza e l’ingombro del corpo. Beatrice è all’inizio uno sguardo da un lato all’altro della chiesa, poi è un oggetto perduto che irroga la forza di traversare i regni ultraterreni, che lo porta all’ultimo canto del Paradiso, il più traboccante di sensualità.
Per Pessoa i corpi davvero palpabili sono le parole, che fa descrivere a Bernardo Soares come sirene visibili, sensualità incarnate, affermando per contro come la sensualità reale non rivesta per lui nessun interesse, neppure mentale. Inevitabile che l’immagine della donna sfumi nella sua scrittura fino a diventare rarefatta, evanescente, profilo intangibile di una raffigurazione linguistica. Anche nel suo Faust, dove la donna diventa un argomento inevitabile, il desiderio trova modo di esprimersi cancellando l’esistenza dell’oggetto a cui si rivolge: “Se potessi amarti senza che tu esistessi. E possederti senza che tu ci fossi”. Qual è, in questo universo di inesistenza, la donna reale su cui si sono posati gli occhi del poeta in un incontro fuggevole che, senza possedere la leggerezza idealizzata di una relazione platonica, non si è mai concretata nel sesso e si è espressa in lettere d’amore la cui banalità sconcerta quando si pensa alla mano che le ha vergate? Osserviamo la foto di Ophélia Queiroz all’età dal suo incontro con Pessoa: una ragazza di diciannove anni, bruna, dall’ovale del volto regolare, graziosa anche se non bella, guardata con l’occhio di oggi. Dai capelli lisci raccolti un ciuffo esce studiatamente a ricciolo per coprire la fronte. Dagli orecchi un po’ sporgenti pendono orecchini minuti rotondi. Gli sbuffi di un collo di pizzo guarniscono un abito che sfuma nel grigio dello sfondo. Questa ragazza d’aspetto un po’ dimesso si esprime in modo semplice sul grande Pessoa. Ricorda le sue frasi più banali, più quotidiane: “Signorina, vorrei avvertirla di una cosa: nella guida delle scale c’è un buco… stia attenta a non inciampare”. E’ quel che resta del primo incontro, quando lei viene assunta nella ditta dove lui lavora. Anche il corteggiamento comincia in modo impacciato e quasi infantile, quando lui le dice: “Oggi per la prima volta sono stato geloso degli occhi di mio cugino, perché io ieri non ti ho visto ed essi invece ti hanno visto”. Ophélia non vede Pessoa attraverso i libri, come noi: vede l’impiegato ingenuo che cerca di ingelosirla dicendole di avere attirato l’attenzione di una signora bionda che non esisteva (e questa inesistenza per lei non ha nessuna risonanza ontologica). Si resta ai preliminari del fidanzamento, quello che in portoghese Ophélia chiama “namoro”, un periodo d’intimità che precede la dichiarazione ufficiale, la presentazione in famiglia, l’affermazione pubblica d’esistenza della relazione. Il fidanzamento di Pessoa resta incompiuto come i suoi libri: dura pochi mesi, da marzo a novembre, prima che lui, senza una ragione concreta, si allontani man mano da lei. Non c’è un dramma del distacco come non c’è una passione dell’inizio. Pessoa entra ed esce di scena dalla vita di Ophélia quasi senza che ce ne si accorga. Però… però… è davvero uscito? O è il suo modo di esserci senza esserci come in tutte le cose? Dopo nove anni di silenzio Pessoa passa in rua de Ouro, dove abita Ophélia, ne incontra la sorella e tramite lei le fa avere una foto con una dedica. E’ una foto singolare, che lo ritrae di profilo in una mescita, tra una botte di clarete e una di moscatel, elegante, con un cravattino a farfalla, mentre beve un bicchiere di vino rosso. Anche la dedica vale una menzione: “Fernando Pessoa en flagrante delitro” . Ricevuta la foto Ophélia gli scrive per ringraziarlo e così riprende il loro namoro. Come fosse la cosa più naturale del mondo: così lo racconta Ophélia, questa strana Penelope lusitana che attende, sine ira ac studio, il ritorno dai suoi vagabondaggi lirico-ontologici un fidanzato che non è un fidanzato, il quale vive una vita che non gli appartiene, dedicandola a un’opera che non pubblica. Anche questo scorcio di namoro durerà pochi mesi, da novembre a gennaio. Solo in questa ripresa di frequentazione Pessoa metterà piede per la prima volta in casa di Ophélia, ma non certo per farsi presentare come l’innamorato della ragazza: si propone come amico del nipote di lei, Carlos, e quando arriva vanno tutti e tre in salotto a discutere di arte e di letteratura. Ophélia osserva, e come darle torto, che per un’altra donna non sarebbe stato possibile avere un amore con Fernando, ma per lei sì perché lo capiva e le piaceva. Tutto qui: nel modo più semplice del mondo questa donna capiva e apprezzava non quello che è stato uno dei pensatori più sofisticati del secolo, ma il semplice impiegato, bislacco certo, ma in un modo che non la disturbava e che sentiva forse solo come vagamente ridicolo e divertente.
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Luglio 2025
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