![]() Conferenza tenuta a Milano per la rassegna Filosofia sui Navigli il 15 dicembre 2024 Marco Focchi In un’intervista alla radio belga il 14 dicembre 1966, Lacan aveva iniziato il discorso dicendo che oggi ancora nessuno dire cosa sia l’inconscio, ma che d’altra parte non sappiamo neppure cosa sia la natura, e questo non impedisce alla fisica di operarvi. Nello stesso modo possiamo dire che non occorre avere una definizione preliminare dell’inconscio per poterci lavorare. Per vedere cosa effettivamente sappiamo della natura è interessante tornare alla conferenza tenuta all’inizio di questo ciclo di Filosofia sui Navigli da un’importante ricercatore dell’Istituto Nazionale di fisica nucleare, il professor Marco Giammarchi, che ha spiegato come ci siano due orientamenti fondamentali in fisica: uno, rappresentato dalla scuola realista, assegna un’esistenza effettiva alle componenti ultime della natura, i quark, i leptoni, i bosoni – elementi che la tecnologia attuale non è in grado di misurare e che quindi vengono presupposti come particelle senza dimensione – e ritiene che queste particelle siano enti esistenti a tutti gli effetti, dotati di uno statuto ontologico; l’altro orientamento è rappresentato dalla scuola strutturalista, che considera invece queste particelle non come enti reali, ma come effetti dell’eccitazione dei campi quantistici. I fisici dunque non sono in grado, in ultima istanza, di attribuire uno statuto preciso ai mattoni basilari della loro disciplina, senza che questo impedisca loro di utilizzarli per svariate finalità pratiche, come per esempio la computazione quantistica, il miglioramento delle fibre ottiche, lo sviluppo di materiali superconduttori, per non parlare delle reazioni di fusione nucleare. Per quanto riguarda l’inconscio, Freud ha sentito il bisogno di darne una giustificazione per la prima volta in un testo del 1912, quando già ci lavorava – avendo iniziato con l’ipnosi, e proseguito poi con la tecnica dell’associazione libera – da più di vent’anni. Uso e comprensione
In qualsiasi pratica possiamo vedere un divario tra l’uso che si fa di un termine o di un concetto, e la sua comprensione, e notiamo come in realtà sia l’uso ad aprire la possibilità della comprensione. Sul piano tecnologico l’efficacia apre la possibilità di interpretazione. Prima allora di chiederci che cos’è l’inconscio – domanda in fondo fuorviante, giacché l’inconscio non è una cosa – dovremmo forse chiederci che funzione ha per noi parlare di inconscio, perché solo a partire da qui possiamo cominciare a capire di cosa si tratta. Possiamo inoltre aggiungere che la comprensione muta con il variare degli usi. Se non abbiamo la stessa nozione d’inconscio che aveva Freud, è perché viviamo in un mondo diverso, che ci impone altri ritmi, ci presenta altre preoccupazioni, ci sollecita con altre urgenze. Questa precedenza dell’uso sulla comprensione era chiara al secondo Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche. Abbandonata la concezione, presente nel Tractatus, della verità come corrispondenza, Wittgenstein considera che il senso nasca dall’uso delle parole, dai contesti in cui le facciamo intervenire nelle nostre pratiche, dai giochi linguistici in cui entrano. Le parole non acquisiscono significato in virtù di un legame diretto con oggetti o stati di cose, ma attraverso le pratiche linguistiche condivise. Dal punto di vista psicoanalitico dobbiamo aggiungere che non solo c’è un uso da parte nostra delle parole, c’è anche che noi siamo usati dalle parole. La stratificazione storica delle parole parla in noi prima che possiamo anche solo pensare di prendere parola, perché la parola ci prende prima che noi la prendiamo. Discorso Consideriamo una delle definizioni dell’inconscio di Lacan risalente ai primi anni ’50: l’inconscio è il discorso dell’Altro. Questo significa che il soggetto è inserito in una rete di significanti strutturati, articolati, che precedono la sua nascita, perché di lui si parla quando ancora non si è neppure affacciato al mondo. In questo discorso – che si intesse ben prima che lui possa anche soltanto immaginare di dire qualcosa, anzi, prima ancora che sia il soggetto che diventerà – il soggetto resta preso. È il discorso ad agire su di lui, a parlare di lui, più che essere lui a formulare discorsi. Il termine discorso in questo fase non è assunto nel senso formale che acquisirà più tardi, quando Lacan, nel ’69-’70, con il seminario Il rovescio della psicoanalisi, introdurrà le formule di quel che ha chiamato i quattro discorsi. Se alla definizione degli anni ’50, l’inconscio è il discorso dell’Altro, vogliamo dare la veste formale che il termine discorso ha assunto a partire dagli anni ’70, quella dei quattro discorsi definiti da Lacan, ovvero il discorso dello psicoanalista, quello dell’isterico, quello dell’università e quello del padrone, è sicuramente quest’ultimo che dobbiamo inserire nella formula: l’inconscio è il discorso dell’Altro, perché l’inconscio è il discorso del padrone. Sappiamo da quale matrice hegeliana Lacan tragga il suo riferimento per parlare di padrone: è dalla sezione della Fenomenologia dello spirito dedicata all’autocoscienza e intitolata Signoria e servitù. Padrone qui è colui che risulta vincente dalla lotta di puro prestigio, è colui che non indietreggia di fronte alla possibilità della morte perché c’è per lui qualcosa di più importante della vita, ed è il riconoscimento. Con il riconoscimento, con la messa in cifra del primato, di una supremazia sull’altro, si contrassegna però una perdita. Il primato e la cifratura portano infatti a una perdita di contatto con l’immediatezza della vita. Già in questo vediamo l’implicazione e la conseguenza della simbolizzazione: il segno del prestigio vale di più della vita, ed è l’insieme di questi segni, di questi indici, a costituire la rete simbolica in cui il bambino si inserisce per diventare soggetto. L’inconscio allora è fatto di queste cifre che implicano una perdita vitale, un’abbandono dell’innocenza della vita animale come prezzo pagato per entrare nei codici umani. Sono codici, cifre, significanti che nell’algebra lacaniana sigliamo in progressioni numeriche: S1, S2, S3… Rappresentazione e ontologia Questo modo di formulare l’inconscio che, strutturato come un linguaggio, è fatto di elementi significanti, per quanto riprenda perfettamente il modello freudiano, per altro verso anche se ne distanzia, nella misura in cui l’inconscio freudiano è invece fatto di rappresentazioni. Questa differenza non è per nulla trascurabile, perché il concetto di rappresentazione porta con sé una serie di implicazioni derivanti dalla tradizione filosofica, da cui Freud evidentemente si distacca, ma di cui prende i termini con tutto il retaggio che questi portano con sé. Il termine rappresentazione viene a Freud dai suoi maestri, il primo dei quali è Franz Brentano, e il secondo è Johann Friedrich Herbart, un allievo di Kant. Per Brentano la rappresentazione ha sempre un carattere intenzionale, si riferisce cioè immancabilmente a un oggetto, reale o immaginario che sia. Non importa che l’oggetto sia presente nella realtà, ma deve essere presente, in un modo o nell’altro, nella coscienza. Non può mai quindi esistere una rappresentazione vuota. Questo implica una valenza ontologica che ha senz’altro ricadute nella clinica. Credo possiamo dire che i vicoli ciechi incontrati da Freud al termine dell’analisi – di cui parla in Analisi terminabile e interminabile, e relativi al punto d’arresto su quella che chiama la roccia basilare, la roccia della castrazione – siano in rapporto con il gravame ontologico che la nozione di rappresentazione porta con sé. La castrazione nel senso in cui la intende Lacan, come presenza di una mancanza, non può infatti apparire in un inconscio fatto di rappresentazioni. Non possiamo dire lo stesso per l’inconscio fatto di significanti, giacché i significanti sono la morte della cosa, sono barrature. Non sono primariamente segni espressivi, ma lettere che si depositano come tracce dell’evento pulsionale. Sono una codifica di quel che è svanito. Una chiacchierata con l’IA L’inconscio fatto di significanti presenta concatenazioni, sequenze, frasi che hanno lasciato il segno a cui il soggetto reagisce con determinati comportamenti. Queste sequenze sono algoritmi? Consideriamo il funzionamento degli algoritmi. Non so se abbiate mai dialogato con l’intelligenza artificiale, ma è impressionante vedere come l’IA “capisca” quel che le domandate e vi risponda in modo adeguato. Per esempio le ho domandato una volta di dirmi come Emmanuel Todd definisca il patriarcato. Era il momento in cui un ministro, con intento polemico, aveva lanciato nell’arena politica il tema del patriarcato. Todd è uno storico e un antropologo che ha in particolare studiato i modelli della famiglia nelle diverse culture. Volevo quindi vedere se l’IA era in grado di fare una sintesi della definizione scientifica del patriarcato che conoscevo dai lavori di Todd. L’IA me l’ha fornita con una certa precisione, aggiungendo che Todd non demonizza il patriarcato, e che il patriarcato non è universalmente riconosciuto come un male assoluto. Questi ultimi sono giudizi di valore che io non avevo assolutamente implicato nella mia domanda, giacché chiedevo semplicemente come Todd definisse il patriarcato, non come lo valutasse. Potremmo quindi dire che la risposta, nella preoccupazione di prevenire i miei eventuali pregiudizi, partiva dai pregiudizi intrinseci nell’IA. Possiamo mai dire che un’IA ha dei pregiudizi? Sì, come ha riconosciuto lei stessa quando le ho replicato che la sua risposta mi sembrava un’excusatio non petita. La cosa che mi ha colpito non è tanto che abbia compreso cos’è un’excusatio non petita, quanto il fatto che ha perfettamente capito a cosa io riferissi quest’espressione senza che l’avessi esplicitamente menzionato, come in un vero dialogo tra umani. L’algoritmo e la sua gigantesca potenza di calcolo Malgrado l’impressionante pertinenza delle risposte, e l’effetto di comprensione che ha su di noi, l’IA è tuttavia semplicemente una macchina che funziona tramite algoritmi. I peculiari meccanismi del suo algoritmo sono basati su una tecnologia chiamata rete neurale artificiale, cioè quella tecnologia grazie alla quale i suoi creatori, John Hopfield e Geoffrey Hinton, hanno vinto il Nobel. Come dice il nome stesso, le reti neurali artificiali si basano su un modelli ispirati al funzionamento del cervello, ma quel che è utilizzato nella costruzione di questi modelli sono in realtà sempre solo delle cifre. Ogni parola inserita nella domanda che sottoponiamo all’IA viene convertita in un vettore numerico, ovvero una sequenza ordinata di numeri reali. Questi numeri codificano i contesti possibili delle parole inserite. Ogni contesto è fatto di tante parole che contribuiscono a definire il senso in cui la parola ricorre, cioè il senso che acquisisce nell’uso umano. Il senso di una parola si precisa infatti a partire da tutte quelle che le stanno accanto. Per esempio se in un vettore che codifica la parola “re” si toglie la parola “uomo” e si inserisce la parola “donna”, il vettore più vicino risulta allora essere “regina”. Una volta codificati i vettori se ne fa un prodotto scalare. Questo serve per misurare l’allineamento dei due vettori, cioè il grado di convergenza. Per esempio se in un vettore troviamo “re” e in un altro “regina” i due vettori sono molto vicini, quindi hanno molta probabilità di appartenere allo stesso contesto. Se troviamo “gatto” e “pannocchia” la probabilità è evidentemente molto minore. Il modo in cui l’algoritmo attribuisce quindi quel che a noi sembra aver senso è una quantità enorme di operazioni matematiche basate sulla cifratura numerica dei significanti che inseriamo nelle nostre domande. L’algoritmo di Saussure Il termine cifratura può particolarmente destare la nostra attenzione, perché può farci pensare alla cifratura dell’inconscio, ma non dobbiamo farci troppo affascinare da queste assonanze. Quando Lacan parla delle cifratura dell’inconscio parla, infatti, di cifratura in lettere, non in numeri. L’algoritmo di cui parla Lacan quando chiama in causa quel che definisce come “algoritmo di Saussure” implica un tipo di regime completamente diverso da quello che fa funzionare l’IA. La prerogativa dell’algoritmo di Saussure infatti è quella di dividere il segno separando il significante dal significato: S/s. Non si tratta quindi di ipotizzare e costruire un significato a partire da un calcolo, ma piuttosto di separare il significante dal significato. L’algoritmo IA e l’algoritmo di Lacan si muovono dunque in direzioni opposte: uno assegna un senso, l’altro lo toglie. Se nel lavoro clinico mettiamo in gioco il funzionamento dei significanti e non andiamo alla ricerca dei significati, il motivo è proprio per via di questa caratteristica dell’algoritmo saussuriano: la separazione del significante dal significato. Lavorare con i significanti vuol dire sfruttare la possibilità dell’equivoco – lo sfruttiamo nel lavoro analitico perché l’inconscio stesso lo sfrutta – per passare da un campo semantico a un altro. Questo però non vuol dire passare da un senso a un altro. L’importante, in questo spostamento di campi semantici, è toccare il punto di soglia, il punto di azzeramento del senso che fa affiorare non il senso nascosto, ma la cifratura pulsionale. Nel lavoro d’analisi bisogna far passare il soggetto per l’azzeramento del senso, per l’operazione che fa affiorare una mancanza allo scopo di cogliere la cifratura pulsionale. Tagliare la carne Un esempio può chiarire la cosa. Un paziente, chiamiamolo Beniamino, particolarmente ansioso e che presentava frequenti attacchi di panico, ricorda il momento di grande tensione che da bambino lo invadeva a mezzogiorno, durante il pasto in famiglia, quando la madre serviva il pranzo a tavola. Non appena il cibo era pronto, la madre si avvicinava e serviva prima lui, scusandosi con il dire “Vado prima da lui perché Beniamino è così ansioso!” Gli porgeva quindi il piatto e gli tagliava la carne. Naturalmente capiamo bene cosa vuol dire: la madre si preoccupava che non dovesse neppure attardarsi a tagliare la bistecca e potesse subito mangiare. Ma la carne non è solo quella della bistecca. C’è la carne cucinata e c’è la carne viva, fremente, palpitante, e come psicoanalisti non ci può sfuggire cosa significa tagliare la carne viva, e di quale carne si tratti. Il punto però non è di trasferire il senso dal campo semantico della carne cucinata a quello della carne viva, il punto è far cogliere la soglia tra i due campi semantici, dove c’è un azzeramento del senso, dove il significante diventa indice di pura mancanza, dove cioè il significante ha meramente la funzione di cancellare il godimento, e questa cancellazione è la castrazione, se la prendiamo fuori dal registro immaginario. Mi sembra quindi importante fissare le differenze che intercorrono fra l’algoritmo IA e quello inconscio. Per l’IA infatti si tratta di creare un’illusione di senso, che poi in realtà è solo limitatamente un’illusione, perché le risposte che IA ci dà hanno effettivamente senso per noi, producono un senso a partire da un calcolo probabilistico. IA usa le cifre senza senso della matematica per attingere da un giacimento di senso preesistente e depositato in milioni di articoli, libri, siti presenti nel web. Questo è anche il motivo per cui l’IA non è particolarmente utile né d’aiuto per interpretare per esempio un filosofo, o uno psicoanalista, o un letterato. Non gli si chiede: “Fammi un riassunto della Fenomenologia delle spirito di Hegel”, perché risponde solo le cose più comuni, più risapute e spesso inesatte. È invece molto utile per gli argomenti scientifici e matematici perché generalmente in questi è piuttosto precisa. L’algoritmo per Lacan funziona invece, come abbiamo visto, al contrario: separa il significante dal significato e con questo fa uscire l’uso del significante dal discorso corrente, dal già saputo, dal fatto che sappiamo già cosa vuol dire perché c’è un senso su cui tutti ci intendiamo. Separare il significante dal significato vuol dire riportarlo al suo vuoto, al fatto di essere indice di una mancanza, e questo vuol dire riportarlo alle fonti della creatività. Se l’IA ci dice quel che tutti sanno già, l’algoritmo inconscio fa emergere quel che neppure noi sappiamo di sapere, ci fa trovare l’invenzione che ci serve per vivere. Sul lettino dell’IA Un’altra grande differenza è che l’algoritmo dell’IA codifica tutto e, malgrado il suo apparente comportamento non deterministico – perché si possono avere risultati diversi, o variati, a domande simili – è tuttavia strettamente deterministico, anche se la sua evoluzione lo rende dinamico. Possiamo definire il suo funzionamento come quello di un determinismo dinamico, ma non usciamo dalla sfera stretta del determinismo. Le reti neurali possono sembrare non deterministiche a causa dell’introduzione di elementi casuali, ma il loro funzionamento rimane rigorosamente deterministico e basato su regole matematiche: non fanno scelte, ma eseguono calcoli predefiniti. Questo aspetto diventa cruciale rispetto ad alcune particolari prestazioni che possiamo chiedere all’IA. Credo che tutti ricordiamo Eliza, un programma messo a punto a metà degli anni ’60. Eliza utilizzava tecniche di elaborazione del linguaggio naturale per parafrasare e riflettere le affermazioni dell'utente, in modo da simulare l'ascolto tipico degli approcci terapeutici non direttivi. Era però un programma molto rudimentale, che si limitava a riecheggiare le frasi che gli si sottoponevano. Se per esempio gli si diceva: “Mi sento triste”, tutto quel che riusciva a rispondere era: “Mi puoi dire perché ti senti triste?”, o “Precisa cosa intendi”, o “Dimmi qualcosa di più”Naturalmente con le reti neurali artificiali le cose sono molto più sofisticate, e se state per scommettere che hanno creato uno psicoterapeuta online basato su IA avete già vinto. Lo si trova cercando Chatbot Psychologist. È un servizio a pagamento. Si anticipa il prezzo della seduta e si ha a disposizione l’ascolto elettronico di uno Chatbot che ha probabilmente immagazzinato tutti i libri di psicologia e di psicoterapia che sono stati scritti al mondo. Quel fa che quando lo si interroga è cercare di trovare delle soluzioni ai quesiti che gli proponete. È addestrato a mostrare tutta l'empatia e la comprensione necessarie, e a non giudicare. L’unico problema è che le sue soluzioni sono lineari. Gli spazi continui di stato e di azione che la vita normalmente presenta devono essere resi discreti per essere trattabili. Nel continuo un numero reale ha una sequenza infinita di decimali, e per quanto immensa sia la potenza computazionale disponibile, è pur sempre finita, e quindi resta comunque incompleta. Può così portare solo a conclusioni rigorosamente determinate e univoche. Se dite a Chatbot che siete indeciso tra due donne, cerca di farvi pesare le virtù e i difetti dell’una e dell’altra per arrivare a una decisione. È questo il funzionamento di un algoritmo, per quanto sofisticato possa essere: l’algoritmo mette in fila una serie finita di passi, foss’anche gigantesca, per giungere positivamente a una conclusione. Il fatto è che nessuno dei problemi che un paziente pone a uno psicoanalista ha una soluzione lineare, computabile in un ordine discreto, perché la vita di ciascuno è intessuta di equivoci, di intrecci complessi, in una continuità che scivola via di tra le maglie di un ordine discreto. Il soggetto è diviso, e non può per questo essere l’effetto di un calcolo, è piuttosto il risultato di scelte. Sono però scelte laceranti, che lasciano il soggetto irrisolto e irrisolvibile, intrappolato tra tendenze contrastanti. Non si può semplicemente tagliare il nodo gordiano, bisogna dipanarlo filo per filo, sapendo tuttavia che il nodo non si scioglie, perché la vita è inestricabile, e il punto non è annullarne l’intrinseca contraddittorietà, ma renderla abitabile. Questo, naturalmente, non è alla portata del determinismo lineare dell’IA. L’amore affiora dove si spezza la catena deterministica È tuttavia importante considerare che anche l’inconscio ha un aspetto deterministico. Le sequenze inconsce che codificano alcune esperienze danno adito a specifici comportamenti. Per esempio Anna O., quando vede il cagnolino dell’insegnante d’inglese bere dal bicchiere, prova disgusto producendo un’idrofobia, e quando Breuer la mette in ipnosi rivelando la scena del cagnolino che era stata rimossa, il sintomo cede. Un altro aspetto fondamentale tuttavia è che, a differenza dell’IA, l’inconscio non codifica tutto, e sappiamo cosa in particolare non codifica: non codifica il rapporto sessuale. Proprio per via di questa frattura nella catena deterministica si apre lo spazio della scelta, dell’invenzione, e soprattutto, dell’amore. Dove c’è un’interruzione della sequenza logica, una sfilacciatura, una frattura, una mancanza, una ferita, propio lì può accadere l’amore. Gli scambi e il dono Ci sono due circuiti in cui si muovono gli incontri tra le persone: quello degli scambi e quello del dono. Se nella combinatoria delle cifre tutto si può scambiare con tutto in un gioco di equivalenze retto dalle leggi della sostituzione e della contiguità, nell’amore appare invece qualcosa di insostituibile, di inestimabile, qualcosa che solo l’amata, o l’amato possiede, come Socrate con l’agalma, come il cinto di Venere che le dee si passano per far innamorare Giove, come le fonti magiche dell’amore e del disamore a cui bevono gli eroi ariosteschi, come l’anello di Turpino nelle storie di Carlo Magno. Qui non siamo più nella logica degli scambi. L’oggetto inestimabile non è scambiabile, non è acquistabile è piuttosto una potenza, una virtù, un dono. Nella dimensione dell’amore non vige la logica algoritmica degli scambi, perché l’amore è piuttosto relativo alla trasmissione del dono. Nel circuito degli scambi tra i contraenti non si crea nessun legame: la merce passa di mano, viene pagata, e ciascuno va per la propria strada. Nell’amore no: il dono crea un legame perché resta un debito: ti dò un pegno d’amore per dirti che sono tuo, giacché il dono è sempre impregnato delle caratteristiche del donatore. Dandoti un dono mi metto nelle tue mani, ti dò un enorme potere su di me. Ma al tempo stesso ti indebito, sono tuo perché voglio che tu sia mia. Si innesca allora una rincorsa, un rilancio, un magnetismo in cui l’uno non può fare a meno dell’altra. Tutto cresce allora fino al punto in cui la relazione, superati i primi momenti, prende una velocità di crociera, e dopo la tempesta iniziale il bisogno reciproco, inestinto ma placato, diventa parte della vita. Oppure tutto continua a crescere, la tempesta diventa uragano e tutto salta per aria, o si sbilancia, si perde il passo, uno dei due non riesce più a stare al ritmo dell’altro. Ci sono allora gli amori interrotti, o il veleno della delusione che lentamente subentra corrodendo tutto. O ancora, altre volte, sin dall’inizio il dono non è corrisposto. C’è allora la devastazione, la rovina, la desolazione. Negli amori non corrisposti, o della rottura del patto amoroso, il pegno d’amore rifiutato cade fuori dal circuito del dono e precipita in quello degli scambi. L’oggetto prezioso diventa allora ordinario, non è più inalienabile, va ripagato, e sappiamo i termini che intercorrono in questi casi: “Te la farò pagare!” Cominciano allora le ritorsioni, le ripicche, le vendette, l’amore si trasforma in odio o, come dice Freud, l’odio appare come il prolungamento dell’amore, e la guerra tra gli ex innamorati diventa senza quartiere, senza leggi. È il motivo per cui i divorzi finiscono in tribunale: per riportare nell’alveo del trattabile, del simbolizzabile il fiume in piena che ha rotto gli argini e che rischia di travolgere i fondamenti della convivenza civile. Occorre ricondurre una lotta titanica primordiale – che appartiene alle società del dono, come hanno mostrato gli antropologi – nell’ambito della logica degli scambi, nel contesto del quantificabile e del valutabile: “Ti dò un assegno mensile di tot, ti restituisco i libri se mi ridai l’argenteria” e così via. Nulla ovviamente ripaga la perdita dell’inestimabile, ma la giustizia umana ha i suoi limiti. I parenti della vittima di una delitto non saranno mai risarciti dal fatto che sia stata comminata una pena. D’altra parte la giustizia ha solo la funzione di rimettere in pari i piatti della bilancia, e l’amore perduto non ha nessun contrappeso possibile. Il patto subentra nel momento in cui l’amore si stabilizza, può essere il patto matrimoniale, o nel momento in cui tutto va in rovina, e sono gli accordi divorzili. Non può mai essere in gioco all’inizio, come vorrebbero le frange più inflessibili della cultura woke, innalzate emblematicamente a valore istituzionale con la legge spagnola solo sì vuol dire sì, promulgata per rendere esplicito il consenso sessuale. Assegnare un vincolo contrattuale alla sfera erotico-sentimentale priva l’incontro tra un uomo e una donna del fascino, della magia, del carattere allusivo, di quel gioco di seduzione in cui no vuol dire sì, o in cui sì vuol dire un enigma, in cui mi offro per sottrarmi, o mi sottraggo perché tu mi insegua. Nell’amore insomma siamo al centro pulsante dell’intrico insolubile di cui è fatta la vita vera, quella che scorre sotterranea sotto la patina della quotidianità, e che non possiamo risolvere affidandoci al contratto, alla legge, e meno ancora all’algoritmo.
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