di Marco Focchi Italo Calvino è uno di quegli scrittori la cui vena narrativa presenta una certa densità teorica. Per entrarvi occorre quindi traversare di sorvolo alcune scansioni fondamentali. Dividiamo la storia del pensiero in grossi spicchi, come un’arancia gustosa. Il primo spicchio è il pensiero mitico. Si tratta, sappiamo, di una costruzione simbolica che non ha nulla da invidiare ai nostri discorsi, diciamo così, civilizzati. Il pensiero mitico organizza una società, e risponde alle domande più pregnanti, soprattutto a quella delle origini: da dove veniamo? Con tutte le varianti presenti nelle diverse civiltà, nei diversi popoli, nelle diverse tribù, la risposta è allestita in forma di una scena primaria cosmica, la copulazione di una coppia primordiale da cui discende tutto: uomini, animali, alberi, stelle, pietre, pianeti. Urano si unisce a Gea e ne vengono fuori i Titani, le Titanidi, gli dei dell’Olimpo, gli eroi omerici e tutto quanto. Poi il mito predispone un ordine e una guida per le pratiche di vita. Spiega Kerényi che dietro ogni ruolo c’è il fondamento di un archè. Dietro il guerriero c’è Achille. Attenzione però, non è un modello, per questo bisognerà aspettare Platone, è piuttosto la base della formazione: Achille lancia il giavellotto, lo guardi, e sai come si lancia un giavellotto. Lo stesso vale per ogni professione: dietro ogni medico c’è Asclepio, dietro ogni ladro – e dietro ogni mercante, ma la differenza può essere sottile – c’è Mercurio, e così via. Il secondo spicchio è il pensiero metafisico. Anche qui il problema è mettere ordine. Non abbiamo più però una coppia generatrice originaria, ma un Nous, un intelletto ordinatore. La prima figura ce la dà Platone nel Timeo, è il Demiurgo che modella le cose sullo stampo delle idee iperuranie. Aristotele, insofferente dello stile narrativo del suo maestro, rende tutto più impersonale. Non c’è un Demiurgo ma un Motore Immobile, un atto puro che muove i cieli, causa finale verso cui si rivolge l’amore di tutto l’esistente.
Il terzo spicchio è il pensiero scientifico. Qui ci si alleggerisce del problema dell’origine e del fine: niente archè né telos. Non importa da dove le cose vengono e dove vanno, interessa vedere come funzionano. Il moto non ha più una sua direzione intrinseca, come il fumo in Aristotele, che va in alto, e la pietra che cade e va in basso. Le cose vanno dove vanno se non le si ferma, e stanno ferme se non le si muove, e quando percorrono dei tragitti li si può calcolare. Tutto viene espresso in formule e tutto ingrana bene, quando il pensiero unico della nostra epoca non tenta di stiracchiare queste formule verso i territori della soggettività. Si perde, con la scienza, la ricchezza vitale delle figurazioni mitiche, ma si guadagna in efficacia. Ora, va tutto bene? Non vi sembra che ciascuno di questi sistemi simbolici presenti qualche incrinatura? Vediamo. Il pensiero mitico vuole spiegarci le origini, ma da dove hanno origine Urano e Gea? Il pensiero metafisico prevede un intelletto ordinatore, ma siamo proprio sicuri che questa diade ordine/disordine sia un buon punto di partenza? Cosa sarebbe il disordine se non avessimo già un’idea di ordine? Il pensiero tecnico-scientifico poi certamente funziona, ma ha dei contraccolpi che prendono la mano e non si sa bene dove possano portare. Se siamo convinti che tutti questi sistemi presentino qua e là delle crepe, allora è il momento di rivolgere lo sguardo a Italo Calvino, che nelle fessure dei concetti sa infilare un granello d’umorismo, e ci trascina in una corsa carnevalesca dove incorona il mendicante e mette il grembiale al re per farlo servire a tavola. Il mondo si rovescia e tutte le figure del pensiero – i nostri spicchi – si girano in burla. Il pensiero scientifico, fatto di formule che si svuotano delle qualità secondarie, cioè della vita, viene interrogato in Ti con zero dal punto di vista sfuggente della vita. T0, un istante, un secondo, un momento isolato nella totalità dell’Universo, è immobilizzato e preso a partire dal punto di vista di un cacciatore che sta scagliando la sua freccia a un leone proteso nel balzo verso di lui. Fermo immagine: la situazione diventa inquietante e buffa se la sospendiamo, come fa Calvino, per vagliare negli innumerevoli futuri divergenti le possibilità di colpire il leone o di essere da lui sbranato, di trovarsi in un punto in cui il tempo si ripete all’infinito nell’eterna sistole e diastole dell’Universo, o in una linea ininterrotta nella serie T1, T2, T3 e così via. Il rovesciamento tra la continuità della vita e la scomposizione nell’ordine discreto delle formule, tra la cristallizzazione dell’attesa per il cacciatore, e il suo dubbio se sarà divorato o se uscirà vincitore, fa sentire, in ultima istanza, quanto poco la scienza possa afferrare l’essenza fluente della vita. Ne La formica argentina assistiamo invece all’apparire di un molteplice-senza-uno, alla presentazione di un’ontologia priva degli stampi del Demiurgo, o della potenza motoria-ordinatrice del Nous aristotelico. Il racconto mostra un pullulare che non può essere contenuto né delimitato dalla forma. Le formiche invadono tutto, riempiono i vestiti, ricoprono di uno strato nero le provviste, entrano nelle tazze lasciate sull’acquaio. L’Essere si sfalda in un angosciante brulichio nero. L’ordinamento metafisico cade sotto i colpi di una gremita massa ingovernabile e indistruttibile. La formiche sono dappertutto, e quando ci si rivolge ai vicini in cerca di aiuto, ognuno ha un suo espediente: un campionario inverosimile d'insetticidi, strani apparecchi d’annientamento inventati per l’occasione, vani tentativi di una pulizia ossessiva e maniacale, una melassa velenosa portata dall’impiegato comunale che sembra piuttosto rinvigorire le formiche. Niente funziona, è la sconfitta della volontà di potenza ordinatrice della metafisica di fronte al traboccare del reale dagli stampi incrinati dell’Essere. Ma il rovesciamento più avvincente in Calvino riguarda il pensiero mitico. Lo troviamo nella trilogia I nostri antenati, a cui appartiene quel gioiello che è Il barone rampante. Qui abbiamo un ribaltamento vero e proprio dei miti originari. La storia infatti non parte dalla scena primaria di un coppia genitrice, ma da un figlio, Cosimo. Tutto comincia nella cornice di un rituale pranzo di famiglia e da un “no!” Cosimo, a dodici anni, rifiuta con fermezza di mangiare un piatto di lumache, e l’imperiosa insistenza del padre non lo smuove di un millimetro, finché, ostinato nell’opposizione alla sua autorità, fugge sugli alberi del giardino e lì rimane senza mai più scendere. Questo punto d’avvio fa apparire tutte le cose, perché, lo sappiamo, la prima parola che apre il linguaggio non è “mamma” né “papà”, ma per l’appunto “no”. Dopo l’acquisizione del “no” il gesto deittico prende senso, e il bambino non guarda più il dito ma la cosa indicata. Questo “no" di Cosimo è un punto d’origine che spalanca la porta del linguaggio, e quindi del mondo. Calvino stesso non nasconde di aver metaforizzato nell’intrico aggrovigliato dei rami il labirinto tortuoso del linguaggio. La soglia d’ingresso del linguaggio è una via senza ritorno, come lo è la fuga di Cosimo, e una volta che ci si trova lì, senza più gli ordini tassativi di un padre severo, bisogna cercare di orientarsi da sé. Per quanto Cosimo sia vestito di tutto punto con lo spadino al fianco, non c’è un Achille alle sue spalle per mostrargli come fare. Soprattuto come fare con il mondo femminile, che è senz’altro più complicato della guerra. Così quando, di albero in albero, supera il muro che separa la proprietà della sua famiglia, gli Ombrosa, ed entrando in quella degli Ondaviva, famiglia rivale, incontra Viola, una bambina di dieci anni – sentiamo sullo sfondo i Montecchi e i Capuleti – Cosimo comincia a perdere il filo. Lui è per aria, tra i rami, e lei è a terra, dominatrice ctonia. Ci ricordiamo di Urano e Gea? Solo che qui non si parte dall’unione di due potenze, ma dalla loro lotta. Viola gli annuncia subito che lui regna quando è in aria, ma che appena toccasse terra, dove regna lei, perderebbe ogni potere e diventerebbe suo schiavo. E senza por tempo in mezzo comincia a inventare trucchi per farlo venire a terra, prima, strattonandolo, poi con la seduzione di una tazza di cioccolata. Cosimo non cade nella trappola e svanisce tra i rami. Insomma, tra maschile e femminile non c’è incontro possibile. Ci evoca qualcosa questo? Ma l’incontro tuttavia avviene. Viola, donna fatta, dopo un matrimonio e una vedovanza, torna nella tenuta di Ombrosa. Sale sugli alberi – Gea entra nel regno di Urano, ma senza perdere il suo potere, sale da dominatrice. S’incendia allora l’idillio, fatto di seduzioni e di capricci, di allettamenti e di ripicche, di sensualità e di lotta. Calvino ha dichiarato di aver tratto ispirazione, per il personaggio di Viola, dalla Pisana di Le confessioni di un italiano, la Pisana che “a tre anni conosceva già certe sue arti per invaghire di sé, e avrebbe dato ragione a color che sostengono le donne non esser mai bambine, ma nascer donne belle e fatte, col germe in corpo di tutti i vezzi e di tutte le malizie possibili.” Ci ha dato così, su questo sfondo, uno dei ritratti femminili più squisiti di tutta la letteratura italiana. E ci ha mostrato anche come, nell’ultimo incontro di Viola e Cosimo, l’incapacità di tacere le frasi d’orgoglio che soffocano i silenziosi retropensieri d’amore, sia il vero artefice della nostra infelicità. D’altra parte, non lo sapevamo che il padrone va a rovescio del desiderio?
1 Comment
Maria Grazia
30/11/2024 10:50:30 pm
Splendida lettura di Calvino e delle dinamiche amorose
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