Marco Focchi Il tema della felicità, dominante nell’etica filosofica fino alla Critica della ragion pratica, lascia il posto, dopo Kant, a quello del dovere, che si presta meglio ad articolare il godimento con la legge, problema centrale nel disagio della civiltà e nelle sue manifestazioni sintomatiche. Lacan ha sostenuto che il soggetto è toujours heureux, ma prima di lui la felicità resta infatti ai margini del campo concettuale della psicoanalisi. Bisogna in effetti considerare il rapporto con la pulsione dove, al di là del principio di piacere, si radicalizza l’erotica del soggetto. Helene Deutsch ne mostra una certa consapevolezza quando tratta, in un suo lavoro, (1) il tema della felicità sottolineandone il carattere inusuale per la psicoanalisi, dove in genere si ha a che fare con la sofferenza, con il disagio, il sintomo, l’insopportabilità di una situazione. Vorremmo mostrare che il modo in cui affronta i concetti di felicità, di pienezza d’appagamento, d’estasi, può offrire una via breve e convincente per arrivare al problema sotteso dalla fenomenologia delle tossicodipendenze. Il lavoro di Helene Deutsch in effetti, pur non trattandone direttamente, ne permette una penetrazione più interessante rispetto ai testi classici sull’argomento di Rado (2) e di Glover (3). Questi tentano di individuare la chiave del problema nella fissazione a un particolare stadio evolutivo della libido, e cercano in una specifica base pulsionale la causa che predispone il soggetto all’assunzione di sostanze stupefacenti: è il primo passo per la creazione della categoria di tossicomania, alla quale noi non attribuiamo valore strutturale sul piano clinico. La felicità è armonia?
Helene Deutsch mette in relazione il problema della felicità con l’idea di una certa composizione armonica, nell’esperienza dell’appagamento, tra il soggetto e ciò che gli sta intorno: l’insieme deve funzionare in sintonia. C’è appagamento quando c’è corrispondenza tra il fattore soggettivo e l’ambiente circostante. Armonia indica in questo caso adattamento, una perfetta aderenza, ciò che si combina bene, che lega: in inglese si direbbe to fit , andare a pennello. L’appagamento, dice Helene Deutsch, si verifica quando questa combinazione si realizza come un’unità organizzata. La felicità dipende da una sorta di accordo interno, da fattori endogeni rispetto ai quali l’oggetto esterno, il contributo della realtà, è contingente e funziona da catalizzatore in una situazione che ha origine nella struttura soggettiva. Nel seminario sulla logica del fantasma Lacan evidenzia che nell’armonia insistono rapporti di incommensurabilità e che, da questo punto di vista, l’armonia non corrisponde alla pienezza. L’idea di un accordo, di uno stato di grazia della struttura soggettiva, non coincide con quella di colmamento, che provoca più senso di nausea che beatitudine. Nella soddisfazione c’è un satis facere, una sazietà che non può annullare il desiderio senza produrre disgusto. Non esiste pienezza armoniosa. La forma di appagamento dipende dalla struttura temporale del fantasma, dove l’affiorare del godimento coincide con l’eclissi del soggetto: il soggetto è dove svanisce alla propria rappresentazione. Helene Deutsch presenta due casi in cui modi opposti di ottenere l’appagamento si prospettano come versanti di uno stesso cammino. Il senso di vuoto Il primo riguarda una donna affetta da stati depressivi. Sposata da diversi anni non ha mai avuto un buon rapporto con il marito perché lo ha sempre sentito estraneo, indifferente, e prova per lui un’incontrastabile avversione, quando non addirittura disprezzo. Dal matrimonio ricava soltanto un’ineguagliabile gratificazione sessuale: l’orgasmo riesce a colmarla di gioia come nient’altro al mondo. Ne descrive l’esperienza come vissuta in stato di piena coscienza, anche se quando le accade sente di non essere più se stessa, perché l’orgasmo s’impadronisce di lei dandole l’impressione di trascinarla in un altro mondo. E’ in piena coscienza ma in perdita d’identità. Durante l’atto sessuale il marito, abitualmente considerato come una specie d’ingombrante oggetto d’arredamento, perde il grigiore della sua indifferenza, e lei si sente afferrare da un senso di fusione mistica che la porta al colmo della felicità. Appena si allenta la tensione dell’orgasmo, è di nuovo presa dal solito senso di vuoto, dal solito senso di solitudine, e il coniuge ridiventa estraneo. In questo caso è evidente la netta contrapposizione tra pieno e vuoto, tra la quotidiana indifferenza e l’incredibile pienezza dell’appagamento sessuale. Helene Deutsch afferma che il divario tra il godimento e la disillusione, come reazione alla perdita, su cui si impernia la reazione malinconica, in questa donna è abnorme soltanto dal punto di vista quantitativo, mentre è qualitativamente normale, strutturale. Il raccoglimento Anche il secondo caso riguarda una donna sofferente di stati depressivi e che cerca sollievo alla propria tristezza con esperienze che le danno una soddisfazione simile a quella del caso precedente, anche se vengono ottenute diversamente. Nell’infanzia era allegra, e soltanto nell’adolescenza si era chiusa in sé trasformandosi in una ragazzina riservata. Qualcosa era cambiato in lei spingendola all’interiorità; cominciò a coltivare studi di teosofia che le facevano sperimentare, nel momento della lettura, un particolare stato di raccoglimento. Entrava così in una sorta di beato rapimento, di assenza che le dava una sensazione di elevazione, di lontananza da tutte le cose terrene, e le sembrava di entrare in una dimensione diversa. Questo ripiegarsi su se stessa le procurava uno stato di appagamento quasi totale. Più tardi, nella vita, il suo orientamento cambiò, divenne socialista e, cosa singolare, ritrovò lo stesso stato di pienezza nella gioia che si produceva in lei quando teneva discorsi sovversivi. Nel momento in cui arringava il pubblico, accendeva l’animo degli ascoltatori con argomenti che, senza essere di teosofia, erano volti a distogliere l’attenzione dal mondo presente per proiettarla in uno futuro contemplato dal programma politico in cui credeva. Arringando la folla provava lo stesso appagamento dei momenti di raccoglimento meditativo dell’adolescenza. Accadde poi che, per via di quelle trasformazioni che a volte intervengono durante la vita, perse ogni idea guida, smarrì il punto focale del suo pensiero, l’asse centrale di riferimento e sprofondò nella depressione. Riesce ancora a trovare pochi attimi di gioia dedicandosi alla lettura, ma sono attimi fugaci che non compensano il suo stato, ormai abituale, di svuotamento. Questo caso presenta, sul piano strutturale, le trame di fondo più classiche: un tipico legame isterico con il padre si accompagna a una totale rimozione della componente sessuale. In alcuni momenti della depressione seguita alla perdita di un’idea guida della vita, si risvegliava in lei la nostalgia dell’amore per il padre, e le sublimazioni passeggere che riusciva a ottenere con la lettura non la risollevavano dalla sensazione di perdita. L’estasi La Deutsch cerca di spiegare l’origine del godimento estatico mettendo a confronto i due casi. In entrambe le donne si realizza infatti una sorta di identità armonica tra il soggetto che riceve l’impressione e l’impressione stessa da cui nasce lo stato interiore. La pienezza d’appagamento non va cercata nell’incontro con un particolare oggetto, la cui funzione è sempre accidentale, ma nella relazione armonica in cui l’oggetto viene innalzato a una sorta di trascendenza. In questo modo la Deutsch definisce il soddisfacimento che sfiora la felicità, sia nella forma direttamente sessuale, sia in quella sublimata. C’è un altro livello, meno abituale, meno quotidiano: l’estasi. I mistici in fondo parlano di unione mistica usando gli stessi termini che la prima paziente impiega per definire l’annullamento del significato quotidiano e banale del marito e la fusione con un’essenza superiore nel momento dell’orgasmo. Nell’unione mistica, in modo analogo, il soggetto svanisce nella divinità. Meister Eckart dice: devi inabissare deine Deinheit , ciò che di te è più tuo, e devi defluire in seine Seinheit , il suo esser sé, la sua profonda essenza. Con il suo io devi diventare un solo io, in modo così totale da capire con lui eternamente la sua inalterabile sostanza e il suo Namenlos, il suo inesprimibile esser senza nome. Defluendo nell’unione mistica, nell’essenza della divinità, annullando la propria identità personale in quella della divinità, si delinea, per un verso, l’inalterabilità della sostanza, per altro verso, l’inesprimibile nulla. La sostanza e il nulla sono uno accanto all’altro, non l’uno o l’altro, ma l’uno e l’altro. Questo a noi parla della divisione soggettiva, in cui il soggetto è ridotto alla propria pura presenza, e la negatività è designata dal fallo: è la negatività della castrazione. Da un lato c’è il non essere nulla, dall’altro c’è il non essere altro che l’oggetto di desiderio. Saturazione A Helene Deutsch preme dimostrare che nella vita psichica c’è la tendenza a recuperare l’unità perduta. Dopo l’esperienza di separazione, l’unità fusionale, l’unità mistica non è che il tentativo d’invertire lo stato di separazione nell’ideale di unità. La separazione, secondo la Deutsch, non consegue esclusivamente dallo stato di penuria che porta il soggetto verso nuove mete alla ricerca dell’appagamento. La causa della separazione può risiedere anche in una sazietà che anticipa la frustrazione. Il bambino di solito si separa dal seno, dal corpo materno, perché nello svezzamento ne viene allontanato. La forma canonica all’origine della separazione è un soddisfacimento rifiutato. Non è però l’unica possibilità: il distacco può essere provocato da un eccesso nell’appagamento, da una saturazione. Nella separazione per Übersattheit, troviamo una sazietà discordante, per nulla armonica, che ha qualcosa di troppo: vi è in questo una particolare modalità di relazione con la domanda dell’Altro che ci permette di chiarire una varietà di fenomeni clinici propri alle patologie di dipendenza, come il sovradosaggio, nei casi di morte per droga. La nozione di ipersazietà indica un particolare rapporto tra il bambino e la madre, in cui la madre dispensa a oltranza quel che ha da dare senza che questo diventi segno d’amore, senza offrirsi come presenza. Si verifica così un cortocircuito tra il piano della domanda d’amore e quello dei bisogni. Il bambino viene preso in una domanda spinta fino alla nausea. C’è da parte della madre la volontà, cui il bambino non può sottrarsi e che può quindi solo far propria, di nutrire al di là del limite. Questo porta a una sorta di estinzione del desiderio. Il desiderio si produce infatti solo come differenza tra la domanda d’amore e il bisogno. Se l’ipertrofia del secondo riassorbe la prima, si annulla lo spazio in cui il desiderio ha la possibilità di manifestarsi Naturalmente questa ipersazietà non ha nulla a che vedere con la pienezza dell’appagamento. C’è una sovrabbondanza vuota, un di più senza essenza, che porta solo disgusto, qualcosa che va al di là dell’appagamento senza però incontrarlo. Questo sovrappiù pone il soggetto in una condizione insopportabile, costringendolo a perpetuare una richiesta che può solo avvitarsi su se stessa. È evidente la logica che avvicina il campo delle tossicodipendenze a quello dell’anoressia. La mistica della tossicodipendenza Il fenomeno della tossicodipendenza è una sorta di mistica che tende a saturare l’essenza con l’esistenza: l’incolmabile della domanda d’amore è stipato dal sovradosaggio sul piano del bisogno. I due casi descritti da Helene Deutsch illustrano in modo particolarmente chiaro lo scompenso tra l’ebbrezza di una forzatura del bisogno al di là del limite e la ricaduta nel vuoto di desiderio determinato dall’assenza di uno spazio per la domanda d’amore. Lo stacco netto, evidente nel primo caso, tra l’estasi sessuale dell’orgasmo e il disgusto che ne segue, è un modello per l’opposizione che si verifica nella tossicodipendenza tra lo stato d’ebbrezza e quello d’astinenza. La donna dagli orgasmi sublimi non ha rapporto con il marito come con un partner sessuale, ma lo utilizza come strumento per un salto di dimensione verso un mondo in cui l’Altro, per un istante, è assorbito nello Stesso, creando l’illusione dell’uno fusionale in cui è toccato l’ineffabile. Sull’esperienza mistica non c’è nulla da dire, è possibile soltanto provarla, sentirla, è l’esperienza dell’inesprimibile, del nulla senza nome. S’incontra lo stesso problema con i tossicodipendenti: ci si trova, il più delle volte, di fronte a una povertà del fantasma che riduce il soggetto al silenzio. Lo stato di tossicodipendenza va distinto dal sintomo come si presenta nella nevrosi. Il sintomo è qualcosa di cui parlare, che alimenta il lamento ed è naturalmente predisposto a dar luogo alla traslazione. Sulla droga invece non c’è niente da dire, il soggetto resta nella propria chiusura, ed è questo lo scoglio, la difficoltà di trattamento: la domanda non si avvia perché si avvita nella spirale in cui l’immediatezza del bisogno esclude l’Altro. Contentandosi della sostanza il tossicodipendente dichiara la propria indipendenza dall’Altro. La nozione di tossicodipendenza ha senso più sul piano sociologico che su quello clinico. Possiamo indicare con questo termine un complesso di manifestazioni, alcuni aspetti fenomenici, degli effetti particolari. Come sappiamo, il sintomo è una formazione di compromesso che soddisfa la pulsione rimossa in una forma mascherata accettabile per l’io. Ne risulta una duplicità che è necessaria, da una parte perché senza la forma di appagamento offerta dal sintomo non avremmo la nevrosi, dall’altra perché senza l’insoddisfazione segnalata dal sintomo il soggetto non avrebbe alcuna spinta per mettere in discussione il proprio stato nevrotico e articolare la domanda che può condurre all’analisi. La Deutsch evidenzia invece, attraverso i suoi esempi, una struttura dominata da un’antitesi netta, senza mediazioni, tra una totale pienezza che va al di là dell’appagamento e il vuoto più assoluto, e ne individua l’origine nell’ipersazietà prodotta dalla madre che risponde alla domanda d’amore con la saturazione del bisogno. In casi simili la sostanza può offrire l’apparenza di un godimento puro che include il desiderio come già appagato escludendo la domanda. Ne consegue la supposta imprendibilità del tossicodipendente nel meccanismo analitico, difficoltà ampiamente segnalata nella letteratura sull’argomento. Il sì all’ipersazietà Limentani, (4) per esempio, sostiene che il trattamento del drogato è difficile perché l’analista non può sostituirsi alla sostanza placando l’angoscia in modo altrettanto efficace. Il problema però non è di sostituirsi alla sostanza, ma di evidenziare, preliminarmente, la discrepanza tra domanda d’amore e indigenza pulsionale facendo saltare il circolo vizioso tra incolmabilità e necessità in cui il bisogno della sostanza si fa via via crescente. Può risultare utile contrapporre anoressia e tossicodipendenza: la prima è il no al desiderio della madre di nutrire, la seconda è il sì all’ipersazietà che la madre produce nutrendo senza darsi. La prima impone un limite all’Altro per sottrarsi a una domanda che non lascia spazio, la seconda sfida ad andare oltre ogni limite per sottrarsi in quell’al di là dove l’appagamento dell’ebbrezza si completa nell’orizzonte della morte. Ma un limite è segnato, fosse anche quello della morte. L’ipersazietà della morte per sovradosaggio è la sfida estrema in cui il soggetto, con la propria sparizione fisica ottiene d’inscrivere nell’Altro la mancanza di cui ha sempre invocato il segno. Questa struttura si mantiene su una sorta d’intesa di fondo che, se vogliamo concederci alla piacevolezza delle immagini, possiamo esemplificare a rovescio con il mito di Fedra. Discendente del Sole, sposa di Teseo, Fedra s’innamora del figliastro Ippolito, figlio di Teseo e di Antiope, la regina delle Amazzoni, e asseconda la propria inclinazione fino a confessarla a Ippolito. Questi nella tragedia di Euripide è presentato come incorruttibile, figura pura che non ha mai conosciuto donna e il cui interesse è volto soltanto ai giochi sportivi, all’equitazione, ai cavalli. Ippolito risponde indignato alle profferte amorose della matrigna. È la tragedia dell’incesto all’inverso, della madre che desidera il figlio, la madre che offre al figlio sul piano carnale quel che non può dargli sul piano simbolico. Nella tragedia di Euripide il figlio dice no, attirandosi l’uragano della vendetta femminile. Fedra, suicidandosi, lascia un biglietto di calunnia denunciando Ippolito come stupratore. Teseo maledice così Ippolito, che muore travolto da uno dei cavalli che tanto amava. Una versione mitigata della tragedia è quella proposta da Racine, che le imprime lo spirito cristiano di redenzione assolvendo Fedra dalla passione di cui è raffigurata come vittima. Porta sì la responsabilità del proprio gesto ma in quanto non può fare diversamente. La calunnia viene messa in bocca a una serva e non rappresenta più la vendetta di Fedra, che non può abbassarsi a simile azione. Nella tragedia di Racine inoltre, diversamente da quella di Euripide, è necessario trovare una debolezza a Ippolito. Non poteva essere il personaggio tetragono della tragedia di Euripide, la cui morte indigna ma non commuove. Racine dipinge così un Ippolito toccato dall’amore colpevole per una donna che è in fondo nemica della patria. Prendiamo la figura tragica di Fedra per immaginare l’esperienza della tossicodipendenza come quella di un Ippolito che dice sì e aderisce completamente alla complicità che la madre gli propone. L’intervento terapeutico è infatti possibile quando si riesce a rompere la complicità, l’intesa arcaica. Il tossicodipendente può allora uscire dal proprio stato solo prendendo la posizione di Ippolito, che dice no. Un patto mai sancito Per avere ancora lumi dai greci sull’esperienza della tossicodipendenza possiamo prendere anche Socrate. Nel momento della morte, descritto nel Fedone, Socrate svolge un ragionamento sorprendente. La sua condanna è ingiusta e l’Apologia ne evidenzia l’esagerazione, mostra la riluttanza dei giudici a pronunciarla, pur essendovi costretti dall’atteggiamento provocatorio dell’imputato. Quando viene fatta l’ipotesi di una pena monetaria Socrate ironicamente propone una mina, una cifra assolutamente irrisoria, e gli amici cercano invano di convincerlo a fare una proposta diversa: Socrate non vuole sottrarsi alla condanna con argomenti pretestuosi. Nel carcere, in attesa della morte, trascorre gli ultimi momenti con gli amici mentre la moglie Santippe viene allontanata. Gli amici lo incitano a fuggire, per salvarsi dall’ingiustizia, gli suggeriscono di corrompere i carcerieri e di rifugiarsi in un’altra città dove avrebbe potuto vivere dignitosamente. Socrate risponde di no, e questo rifiuto deve dimostrare la sua innocenza: muore per dimostrare la propria innocenza. Non fugge, si adegua alla condanna proprio perché ingiusta. Non vi si sottrae perché da sempre, e di sua scelta, ha accettato le regole della convivenza civile nella Polis. Non sarà lui a fare un passo per rifiutarle. Sarebbe intollerabile respingerle nel momento in cui patisce una condanna ingiusta ma conforme a queste leggi. La sua innocenza non sarà dimostrata da un tribunale umano, ma divino. Se Socrate non fugge è per mostrare la colpa di chi lo ha giudicato e la sua estrema coerenza porta al paradosso la struttura stessa della legge. Socrate non fugge per non rompere il patto con la comunità. È una posizione antitetica a quella del tossicodipendente il quale non si è mai posto in condizioni di sancire un patto con la comunità perché non ha mai spezzato il legame arcaico di complicità con l’Altro materno. Nel trattamento della tossicodipendenza occorre innanzitutto sciogliere il legame con la madre che ipersazia. A partire da qui può incrinarsi il bozzolo autoerotico consentito dalla sostanza e ratificato dalla madre. Finché l’Altro che ipersazia avvolge il soggetto nel proprio stritolante abbraccio non c’è nessuna possibilità di socializzazione e la sola uscita è quell'al di là del principio di piacere dove la morte per sovradosaggio segna il culmine di un godimento letale. 1) H. Deutsch, Über Zufriedenheit, Glück und Ekstase. Int. Zeit. f. Psychoan. vol. XIII (1927) 2) S. Rado, The psychic Effects of Intoxicants: an Attempt to evolve a psycho-analytical theory of morbid Cravings. Int. J. Psycho-Anal. vol. VII (1926); The psychoanalysis of Pharmacothymia (Drug Addiction). Psycho-Anal. Quart. vol. II (1933). 3) E. Glover, On the Aetiology of Drug-Addition. Int. J. Psycho-Anal. vol. XIII (1932) 4) A. Limentani, On Drug Dependence: clinical Appraisals of the Predicaments of Habituation and Addiction to Drugs. Int. J. Psycho-Anal. vol XLIX (1968).
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